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VII settimana d'Avvento. Ecco lo sposo, andategli incontro! (Mt 25,6) Avvento: il tempo della Chiesa

Martedì 24 dicembre 2019,  il tempo d'Avvento proposto dall'Ordine Monastico Ecumenico Christiana Fraternitas prosegue con la sua VII tappa.

Ogni venerdì d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella ha tenuto la predicazione sulla preghiera del Padre nostro. Questa settimana è stata trattata la richiesta: "E non lasciarci in tentazione ma liberaci dal male".  

La Celebrazione si è inserita nel "Settenario di Natale" ed è arricchita dal lucernario tratto dalle Constitutiones Apostolorum e dal canto delle Antifone Maggiori (comunemente dette: Antifone "O").





Testo integrale della VII meditazione sul Padre nostro del nostro

Rev. mo Padre Abate dom Antonio Perrella


«Non lasciarci nella tentazione ma liberaci dal male»

Cari Fratelli e Sorelle,

Non ci indurre in tentazione. Questa espressione, che per anni abbiamo usato, è motivo di scandalo per molti. Come può Dio mettere alla prova, tentare i suoi figli, se egli è davvero Padre e misericordia?


Il problema della tentazione e della sua origine è stato da sempre un assillo per i credenti. Giacomo, nella sua Lettera, afferma: “Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono stato tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male” (1,13). E Matteo nel suo Vangelo dice chiaramente da dove vengono le tentazioni: “Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1). Sin dall’Antico Testamento l’origine del male è chiara: non viene da Dio, ma da uno – il maligno – che vuole dividere l’uomo da Dio. Così è nella Genesi, nella immagine del serpente, così è nel libro di Giobbe, allorquando Satana insinua che la fedeltà di Giobbe derivi dalla sua prosperità. Egli si mostra come l’accusatore di cui parla l’Apocalisse (12,10).

Per riuscire a comprendere il mistero della tentazione e, soprattutto, per comprendere cosa sia la tentazione non possiamo che guardare a Gesù. Egli ha voluto dare inizio al suo ministero pubblico, proprio lasciandosi tentare. Per evitare derive moralistiche, che schiacciano il cuore e la coscienza delle persone, dobbiamo comprendere cosa sia la tentazione, altrimenti si vive continuamente di paure: “questo è peccato, questo è male, questo non si può fare…” e così, alla fine, per paura di sbagliare nella vita, si corre il rischio di non vivere la vita stessa. Si diventa come quel servo malvagio che ha preso il talento (della vita) e lo ha sotterrato, per paura di sbagliare. Ma Gesù è venuto a liberare, a donare vita piena.


Per comprendere cosa sia la tentazione, allora, non possiamo che riferirci alle tentazioni vissute da Gesù. Sono quelle del deserto, ma anche dopo il riconoscimento di Pietro viene tentato, tanto da chiamare Pietro con l’appellativo di Satana ed infine nel Getsemani, quando vorrebbe che si allontanasse da lui il calice della volontà del Padre. È evidente che quelle del deserto non sono le uniche tentazioni che Gesù ha dovuto affrontare, tant’è che nella redazione di Luca si dice: “terminata ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui, fino al tempo opportuno”. Il riferimento ad ogni tentazione e ad un tempo in cui il diavolo tornerà ci fa comprendere che le tentazioni del deserto sono solo alcune, ma devono essere particolarmente significative, dal momento che il loro racconto si trova in tutti e tre i sinottici. Marco le accenna, Matteo e Luca le descrivono.

Sia in Matteo sia in Luca le prime due tentazioni (quella dei sassi da trasformare in pane e quella di gettarsi dal pinnacolo del tempio) sono introdotte dall’espressione: “se sei figlio di Dio”. Mentre la terza è la proposta di giungere ad essere signore della terra senza passare dalla croce. Nei due racconti delle tentazioni, Gesù è provato a più livelli: a livello fisico per la fame, a livello psicologico per la sua identità ed a livello spirituale per la strada assolutamente non facile che egli deve percorrere per compiere la sua missione. Tutte e tre le tentazioni, però, hanno un filo rosso comune: si tratta di sottomettere le cose o se stessi ad una propria comodità. Sottomettere i sassi per saziare la propria fame, sottomettere la potenza degli angeli e di Dio per dimostrare la propria natura divina ed infine sottomettere se stessi per raggiungere il proprio scopo. La radice profonda di ogni tentazione sta nel non riconoscere la dignità delle cose e delle persone, per come esse sono uscite da Dio, ma ritenere che tutto sia sottomettibile ai propri desideri ed ai propri bisogni. Siamo sempre ad un ritorno all’inizio: anche nella Genesi la radice della tentazione era la superbia dell’uomo, la sua pretesa di poter fare a meno di Dio e l’arroganza di assoggettare tutto all’affermazione di se stessi. C’è, però, un altro livello della tentazione, che emerge sottile e sotteso, quindi pericolosissimo. Tutte e tre le tentazioni vissute da Gesù, in ultima analisi, hanno uno sfondo religioso e di rapporto con Dio: il tentatore insinua che ciò che egli propone, alla fine, non può che essere conforme al volere di Dio, perché in fondo Gesù era venuto a rivelarsi come il Figlio di Dio e come Colui che avrebbe assoggettato al Padre tutte le cose. Quindi, perché andare troppo per il sottile? Manifesta la tua potenza e arriva subito al fine di ciò che devi fare. In fondo, è Dio che lo vuole! Che frase pericolosa questa!!! Non c’è nulla di più nocivo e devastante di chi usa la volontà di Dio per piegare eventi e persone al proprio volere. Si ammanta di fede e religiosità la disgustosa, malvagia, persino omicida affermazione di se stessi.

Anche le altre due tentazioni vissute da Gesù e riportate dai Vangeli (quella nel dialogo con Pietro e quella nella preghiera del Getsemani) non sono diverse. “Non ti accadrà mai!” o “se vuoi, passi questo calice”, in fondo, significano: Dio può compiere questo suo volere in altro modo. Perché proprio questa strada così difficile? Dio lo può, Dio lo vuole… è sottile, sinuosa, strisciante, quasi impercettibile e proprio per questo devastante.

Ma, allora, perché la tentazione? Non se ne potrebbe fare a meno? Gesù, lasciandosi tentare, non ha fatto altro che, già in vita, discendere agli inferi, scendere nelle profondità della debolezza dell’uomo per essere solidale con lui e rialzarlo. È sceso più in fondo dell’uomo, per portarlo in alto sulle sue stesse spalle. La lettera agli Ebrei ci fa comprendere perché Gesù abbia voluto vivere l’esperienza della tentazione – e del resto non avrebbe potuto non farlo, essendo egli perfettamente uomo: “Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (2,18). “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (4,15).


Possiamo dire che la tentazione, tanto in Gesù tanto in noi, è necessaria per allenare la nostra fedeltà a Dio, ma anche la nostra fedeltà agli uomini: nella misura in cui scegliamo, sempre, deliberatamente, convintamente, di non assoggettare nulla e nessuno a noi stessi e di non assoggettare neppure noi stessi, e la nostra dignità, a scopi utilitaristici, allora noi stiamo vincendo la battaglia con il male che, strisciante, risiede anche nei nostri cuori. È la lotta per conquistare la libertà, è la lotta per conquistare il vero senso della vita, che non sta nel prendere per sé ma nel dare e nel darsi. Un monaco, vissuto tra il VI ed il VII secolo, Giovanni Climaco, ha scritto un’opera – La Scala del Paradiso – in cui ha affermato che le passioni, le tentazioni in fin dei conti sono come dei gradini di una scala: affrontando la battaglia di libertà e di vittoria sulla tentazione, non facciamo altro che salire verso Dio. Ora, pur inquadrando quest’opera nel clima culturale ascetico in cui si colloca, essa dice una cosa vera che troviamo anche in Paolo: siamo giustificati per fede ed abbiamo ricevuto la grazia in dono, ma essa è messa alla prova per produrre una virtù provata, ovvero una fedeltà libera e liberante (cf Rm 5,1-5).

Così allora possiamo comprendere perché il modo migliore di tradurre questa supplica, questa richiesta sia: nella tentazione non abbandonarci! La dobbiamo vivere, non possiamo farne a meno, fa così parte dell’esperienza umana che anche il Figlio, fatto Uomo, l’ha vissuta. Allora, Padre, poiché dobbiamo viverla, tu non lasciarci soli, non permettere che perdiamo noi stessi e la bellezza di ciò che circonda per nessun motivo al mondo.


L’ultima invocazione chiede al Padre di liberarci dal male. Occorre, qui, davvero analizzare parola per parola, per comprendere sia il significato di questa frase sia il suo legame con la precedente.


Il verbo, che viene tradotto con liberaci, è rysai (da ryomai) che significa strappaci. L’immagine resa da questo verbo è quella di uno che è caduto nelle fauci di una bestia e, per essere liberato, deve essere strappato dai suoi denti, dalla sua bocca. È un’immagine davvero forte ed inquietante.

Qual è, però, questa bocca da cui bisogna essere strappati, dopo esserci finiti? Il “male”, che nel testo del Padre nostro (di Matteo soltanto, perché Luca non conosce questa richiesta) è apò tou ponerou. Si tratta di un genitivo, per cui non possiamo dire con certezza se si tratti di un maschile (dal Maligno) o di un neutro (dal male). Certamente le due cose possono però coesistere. Il Maligno è il diavolo, cioè colui che deprava, che perverte, cioè che trasforma e distrugge il senso delle cose. Il male è ciò che è malvagio. In ambedue i casi ci si trova, comunque, dinanzi a qualcuno o qualcosa che fa il male di una persona. È cioè quella che noi chiamiamo malvagità, cattiveria, cioè ciò che vuole strappare dal cuore delle persone la gioia della vita.


Strappaci dal Maligno-Malvagio, strappaci dal male-malvagità: questi sono i significati della supplica, che può essere sciolta, in un linguaggio più accessibile, in questo modo: strappaci dalle zanne del Maligno che agisce in noi perché noi non compiamo ciò che è male, che fa male ai nostri fratelli; e strappaci anche dalla malvagità, che ci viene incontro, come un leone rabbioso e vorrebbe divorarci. Tu non consentire che i suoi morsi omicidi ci azzannino.


Cipriano, che pure aveva molto sofferto per la malvagità umana, commentando il Padre nostro, ha il coraggio di affermare: “Quando diciamo liberaci dal male, non resta niente altro che dovremmo ancora chiedere. Una volta ottenuta la protezione chiesta contro il male, noi siamo sicuri e custoditi contro tutto ciò che il diavolo ed il mondo possono mettere in atto. Quale paura potrebbe ancora sorgere dal mondo per colui, il cui protettore nel mondo è Dio stesso?” (De dominica oratione 27).


Mentre ormai è vicina la festa del ricordo della nascita del Nostro Salvatore, non posso che augurare a tutti voi, a tutti noi che, accogliendo Dio, fattosi Uomo, anche noi torniamo ad essere veramente uomini e donne, e cioè: figli di Dio, che si lasciano amare teneramente dal loro Padre e che in quest’amore vogliono vivere ed operare, preservati dalla malvagità e capaci di non cadere nel gioco sporco del male, che vuole togliere la gioia della vita. Il viso placido, gli occhi sereni, il sorriso amorevole del Bimbo Gesù ci ricordino chi veramente noi siamo! Buon Natale a tutti!.Amen.




Ci scusiamo per la qualità delle foto ma sono state ricavate tramite degli screen dal video della diretta Facebook.

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