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VII Anniversario di Fondazione della Christiana Fraternitas e VII di Professioni religiose

"Con voi e per voi spenderò la mia vita, perché mai si spenga in questo territorio un vero amore per l’unità dei credenti e per la ricerca seria e costante del Signore.". Queste alcune parole tratte dell'omelia pronunciata dal Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella per Celebrazione Capitolare Ecumenica dei Primi della Parola nella Solennità del VII anniversario di Fondazione della Christiana Fraternitas.




Lunedì 22 gennaio 2024 alle ore 19.30, presso la Cappella "Santi Benedetto e Scolastica" in Lido Azzurro - Taranto, si è aperta la Solennità del VII Anniversario della Fondazione della Christiana Fraternitas e delle professioni religioese con la veglia vocazionale. Qui sotto il video integrale



Martedì 23 gennaio 2024 alle ore 19.30 si è tenuta la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per la Solennità.


Testo integrale dell' omelia del Reverendissimo Abate

dom Antonio Perrella

per il VII Anniversario di Fondazione

e VII di Professione religiosa dei cofondatori


Testi di riferimento: Is 6, 1-13; 1Pt 2, 4-12; Mt 7, 21-27


Miei carissimi Monaci e Monache, Carissimi Fratelli e Sorelle, Cari Amici tutti!

Con l’aiuto di Dio, che porta sempre a compimento le opere da Lui iniziate, siamo giunti al VII anniversario della nostra Fondazione. E siamo giunti ad un nuovo anno, che si apre davanti a noi, come un dono che il Signore ci fa. Abbiamo imparato e sperimentato che il tempo per noi non è kronos, cioè lo scorrere dei minuti, delle ore, degli anni, ma è kairòs, cioè tempo di grazia, tempo in cui l’Eterno irrompe nella nostra storia, nelle nostre vite, nelle nostre esistenze e le trasforma in un prodigio che esce dalle sue stesse mani.


È la prima lettura che abbiamo ascoltato che ci rivela il mistero del kairòs. La narrazione è tratta dal capitolo 6 di Isaia, che è conosciuta come il racconto della vocazione del profeta. In esso, Isaia, ci dà una indicazione cronologica ben precisa: «nell’anno in cui morì il re Ozia» (6,1). Era probabilmente il 740 a. C.. È tipico della Scrittura offrire dei particolari circa il tempo in cui avviene un evento che segnerà la vita della persona, interpellata direttamente, ma anche della comunità su cui quella vita avrà un effetto decisivo. Anche nella settimana inaugurale del ministero di Gesù, così come ci viene raccontata da Giovanni, ci troviamo dinanzi ad una indicazione di tempo della chiamata dei primi apostoli: erano circa le quattro del pomeriggio (Gv 1,34ss). Segnare il kronos – cioè l’ora o l’anno – in cui avviene qualcosa significa contemplare il kairòs che si rende presente nel tempo. In questi brani il tempo diventa come un tempio. Nel tempo Dio si rende presente, si accosta all’umanità di una persona e la chiama, rendendola a sua volta kairòs – evento di salvezza – per gli altri.


Anche la seconda lettura segna uno spartiacque temporale. Pietro si rivolge alle comunità dell’Asia Minore e le incoraggia a non cedere alla stanchezza del cammino e alla paura dinanzi alle difficoltà. Per infondere coraggio e forza nel loro cuore dice: «Voi un tempo eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia». Esiste un discrimine, un confine tra quell’un tempo e questo ora invece: è la linea di demarcazione della chiamata, della elezione.


Fratelli carissimi, giunge un punto preciso della storia di ciascuno in cui Dio scende, fa la sua irruzione in quella storia e la trasforma. Possiamo dire che quando Dio chiama, l’uomo e la donna chiamati vivono l’esperienza di una nuova creazione. Erano persone, erano creature, adesso sono chiamati per nome, sono eletti. L’unzione del suo amore scende e consacra, plasma e trasforma, abbraccia e coinvolge, elegge ed invia.


Il brano di Isaia, però, contiene anche degli accenti drammatici. Dopo quelli entusiastici della teofania, della manifestazione di Dio, avvengono due cose: Isaia prende coscienza della sua indegnità (un uomo dalle labbra impure io sono) e scopre che il suo mandato profetico dovrà vedere la distruzione prima della ricostruzione, dovrà rimanere solo una decima parte, addirittura il popolo viene paragonato ad un cedro e un terebinto che vengono abbattuti finché non rimane nient’altro che il ceppo.


Isaia sarà profeta non soltanto perché dovrà annunciare le parole Dio, dovrà parlare in suo nome. Egli non solo rappresenta Dio, ma rappresenta anche il popolo davanti a Dio. Anche lui ha condiviso il peccato del popolo (sono un uomo dalle labbra impure e vivo in un paese dalle labbra impure); in qualche modo egli rappresenta anche il popolo che aveva chiuso il suo orecchio ed il suo cuore alla voce di Dio. Isaia però rappresenterà anche quel ceppo, quella progenie santa da cui rifiorirà l’Israele degli eletti. Perché questo avvenga, però, ci vuole il tempo, cioè lo spazio entro il quale Dio potrà agire nel cuore del suo popolo e ricondurlo a sé. Dio agisce con pazienza, perché attende il maturare del cuore e delle scelte; ma anche il popolo dovrà agire con pazienza, lasciando che Dio lo plasmi e lo educhi con ciò che dovrà vivere, anche quando farà male.


Per Israele, che avvertiva come un vanto la propria elezione, non deve essere stato facile digerire le parole di Isaia, il quale in sostanza dirà: sei il popolo eletto, ma in questo momento della tua storia hai perso la consapevolezza della elezione. Per questo devi essere purificato per tornare alla comunione di prima con Dio, per tornare alla consapevolezza della grazia di questa elezione. Infatti, non basta essere eletti, occorre essere consapevoli di ciò che questa elezione significa nella propria vita e di ciò che essa comporta.

Ci vorrà tempo prima che Dio riempia di nuovo con il suo manto il tempio della vita del suo popolo come aveva riempito il tempio della visione del profeta.


Cari Amici, sono trascorsi sette anni ed anche noi viviamo l’esperienza di Isaia e di Israele. Dio ci chiede, chiede alla Christiana Fraternitas, in tutte le sue articolazioni, di rinnovare la consapevolezza della nostra chiamata, la gioia di essere suoi eletti e la forza vitale che da questa elezione scaturisce. Il tempo che abbiamo vissuto sarà la forza e la maturazione del tempo che ci sarà donato per essere e rimanere il tempio nel quale il Signore si lascia vedere in tutto il suo splendore. Questo tempo passato è stato il tempio in cui abbiamo visto il Signore, abbiamo sentito la sua voce, lo abbiamo incontrato nel nostro essere fratelli e sorelle, nei volti delle persone che ci ha messo accanto, nelle gioie che ci ha donato e nelle prove che ci ha messo sulle spalle. Come scriveva Bernanos: «Alla fine, tutto è grazia!». La stabilitas dei monaci benedettini, in fondo, è la capacità di abitare stabilmente il tempo della propria vita, fissando però la stabilità del proprio tempo, della propria vita in Gesù: nulla anteporre all’amore di Cristo! scriverà Benedetto da Norcia nella Regola. Del resto – lo sappiamo tutti molto bene – le cose che valgono per noi sono proprio quelle per cui spendiamo del tempo. Così è anche per Dio: è il tempo che spendiamo per Lui a misurare la qualità del nostro amore verso di Lui.


La seconda lettura – come già detto, tratta dalla prima Lettera di Pietro – ci ha ricordato, poi, che noi siamo pietre vive, siamo edificati in tempio spirituale. L’apostolo non dice solo che siamo edificati come un tempio o come un edificio, ma parla di tempio spirituale. L’aggettivo greco è pneumatikòs, cioè tempio dello Spirito Santo. Noi, in quanto battezzati, e ancor più in quanto monaci, abbiamo in Dio la nostra casa, ma anche siamo la casa che Dio ha scelto di abitare. Noi posiamo il nostro capo su Dio e Lui – per così dire – posa il suo capo, riposa su di noi. Sappiamo bene che il cuore dell’uomo è inquieto fintanto che non riposa in Dio (cf Agostino, Confessioni) ed il Salmo dice: in te Signore riposa l’anima mia. Ma non sufficientemente consideriamo il riposo di Dio su di noi. Nel libro della Genesi si narra, dopo le “fatiche” della creazione e della creazione dell’uomo e della donna, che il settimo giorno Dio si riposò. Egli si fermò a contemplare la bellezza di ciò che aveva fatto. Il riposo di Dio, cioè, è la sua estasi compiaciuta: guarda e si diletta. Dio vuole ancora oggi risposare nel cuore dei credenti. Vuole, cioè, entrare nel cuore di ciascuno di noi e gustare la bellezza che vi trova dentro.


Noi siamo edificio dello Spirito Santo se Dio, che ci viene incontro in chi lo cerca, trova in noi uno spazio aperto ed accogliente. Noi siamo tempio dello Spirito Santo se Dio, che ci raggiunge attraverso le persone, che vivono la fatica della fede, trova in noi la serenità e la gioia di chi ha fatto di Gesù il centro della propria vita. Siamo edifico spirituale se Dio, amante dell’unità, venendo da noi, nelle persone scandalizzate dalle divisioni e dalle discordie, trovano uno spazio di pacifica convivenza dei fratelli.


In una parola, sorelle e fratelli carissimi, Dio riposerà in noi e ci farà entrare nel suo riposo (Eb 4) se ci troverà come pietre vive, cioè impegnate nella costruzione della sua casa e del suo regno. Non basta essere pietre, bisogna essere pietre vive, pietre cioè che ci mettono del loro, che dedicano tutte se stesse alla costruzione, che si impegnano senza stancarsi nella ricerca di Dio e nella bella testimonianza del suo amore. Le pietre morte sono pietre di inciampo. Lo dirà una volta Gesù circa coloro che mettono impedimento alla vita e alla fede dei fratelli (cioè quelli che scandalizzano): meglio per loro se morissero (….).


Permettetemi di citare nuovamente George Bernanos, che è un autore che dovremmo riscoprire. Egli dice: «Per non aver vissuto la nostra fede, essa non è più viva; è divenuta astratta, è come disincarnata. Forse troveremo in questa disincarnazione del Verbo la vera causa delle nostre disgrazie» (I grandi Cimiteri sotto la luna). Questo autore – un po’ tormentato – vede agire nel mondo due spiriti: quello della vecchiaia e quello della giovinezza. Non si tratta di età, ma di animo, di mente, di cuore. Lo spirito della vecchiaia è quello che fa sedere sulle abitudini e sulle certezze delle cose; quello della giovinezza invece è quello che mette in moto, che fa cercare nuovi traguardi, nuovi orizzonti; forse lascia inquieti, ma fa sperimentare la vitalità dell’esistenza.


La vecchiaia della fede, cioè di una fede seduta e stanca, nasce dalla disincarnazione del Verbo e dal non aver vissuto la fede. Le pietre vive, cioè quelle che vivono la fede o, meglio, fanno della fede la loro vita, sono quelle che danno carne al Verbo e carne alla fede. Dare carne alla fede vuol dire avere cura della propria interiorità, della propria vita nello Spirito. E questo – come abbiamo detto prima – richiede tempo, un tempo vissuto, un tempo speso, un tempo impegnato. Non si tratta di aggiungere ritmi di cose da fare, ma di dilatare dimensioni del cuore, ancora attingendo al nostro amico autore, dice: «Il mondo moderno vive veramente troppo in fretta, il mondo non ha più tempo di sperare, la vita interiore dell’uomo moderno ha ormai un ritmo troppo rapido perchè vi si formi e maturi un sentimento così ardente e tenero; l’uomo moderno alza le spalle all’idea di questo casto fidanzamento con l’avvenire» (Bernanos, I bambini umiliati).


Noi, invece, che vogliamo essere il tempio spirituale, ove Dio trova riposo, ove le persone trovano riposo, non rinunceremo mai alla chiamata e alla missione di essere una casa nella quale stare, abitare e gustare la gioia della presenza del Signore.


Certo, però, il Vangelo di oggi ci ricorda anche che non basta riempirsi le labbra di invocazioni e preghiere, di salmi e cantici: Non chi dice: Signore, Signore…

Vivere il tempo come tempio, cioè come luogo della presenza del Signore, ed essere pietre vive richiede una chiara scelta di vita per il Signore. Significa fare di lui il centro gravitazionale di tutta l’esistenza, trovare in Lui il punto unificante tutti gli aspetti della vita. L’insegnamento di Gesù nel vangelo che abbiamo ascoltato è netto. La fede in Lui non ci preserva dalle fatiche della vita. «Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti» viene ripetuto due volte, in riferimento sia a chi costruisce la casa sulla roccia sia a chi la costruisce sulla sabbia. Non cambiano le situazioni della vita, ma cambia la solidità, la robustezza, ancora una volta, la stabilità. Costruire senza il Signore espone al rischio della fragilità dell’esistenza; costruire con Lui dà sicurezza della solidità dell’esistenza, perché chi ha trovato Dio ed ha riposto in Lui la propria fiducia, mai resta deluso!


Cari fratelli e sorelle, miei carissimi monaci e monache, in questi sette anni, quante piogge ci hanno bagnato, quanti fiumi ci hanno sommerso, quante tempeste ci hanno devastato… Eppure siamo qui con gioia lo sguardo sempre fisso verso l’orizzonte dove il sole sfolgorante della presenza di Gesù ha continuato a risplendere e rassicurarci e continuerà ancora a farlo! Lui sta lì, davanti a noi; a noi è chiesto solo di dare nuovamente un colpo di remi e di metterci in cammino ancora più convintamente e speditamente verso di Lui.


A voi, miei fratelli e sorelle, monaci e monache, vorrei rivolgermi con le parole infuocate con cui Paolo si rivolse ai cristiani di Corinto: «Se soltanto poteste sopportare un po’ di follia da parte mia! Ma, certo, voi mi sopportate. Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina: vi ho promessi infatti a un unico sposo, per presentarvi a Cristo come vergine casta» (2Cor 11,1-2). Sì, io sento verso di voi una paternità “gelosa” ed il senso della mia vita e del mio ministero – che poi sono la stessa cosa perché vivo nel e per questo servizio a vostro favore – è che voi possiate trovare in Gesù la gioia e l’amore più grande della vostra vita.


Voglio condividere con voi cio che ritengo essere un incoraggiamento spirituale che ieri ci è pervenuto. Ci è capitato qualcosa di inaspettato. Mentre preparavamo la nostra Cappella per la veglia vocazionale, all’improvviso ed in un modo tutto inspiegabile, abbiamo trovato un foglio che non doveva e non poteva trovarsi lì. Si trattava di un appunto, che mi aveva scritto – in uno dei periodici incontri che avevo con lui – l’indimenticato arcivescovo per la Chiesa cattolica romana di Taranto, S. E. Mons. Benigno Luigi Papa, di cui il prossimo 6 marzo ricorrerà il primo anno della nascita al Cielo. Ieri, mentre ci apprestavamo a dare inizio alle Celebrazioni per questo VII anniversario della nostra Fondazione, nella nostra Cappella, ai piedi del Crocifisso, ritroviamo quell’appunto che partiva da due parole, o meglio da una stessa parola scritta in greco ed italiano: synagoghé-comunità. È stato, per me, come un segno, mandatoci dal Cielo da quel Pastore buono, mite, accogliente. Questo noi siamo: una comunità di fratelli e sorelle, synagoghé. Più stringeremo i legami della nostra fraternità e più sentiremo la forza del Signore che ci guida e ci sostiene.


Voi siete la mia forza e la mia gioia; voi siete la vigna del Signore, che non mi stanco di arare e di innaffiare; voi siete il frutto bello e prelibato che potrò presentare al Signore quando a lui piacerà chiamarmi al suo cospetto. Con voi e per voi spenderò la mia vita, perché mai si spenga in questo territorio un vero amore per l’unità dei credenti e per la ricerca seria e costante del Signore.


Con voi ripeto: Se il Signore non costruisce la casa, invano vi fatica il costruttore! Lasciamoci edificare da Dio, che ci ha scelti e ci ha chiamati! Abbandoniamoci in Lui ed a Lui e questa Casa del Signore risplenderà del suo fulgore e della sua santità! Amen.

dom Tonino +





Qui sotto il video integrale della Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola




Pax

Ut unum sint

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