Venerdì 17 dicemmbre 2021 si è proseguito nel cammino per il tempo d'Avvento proposto Christiana Fraternitas con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum".
Ogni venerdì d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sul Credo ovvero il Simbolo Apostolico. Questa ultima tappa il commento ha riguardato l'articolo di fede sullo Spirito Santo.
Testo integrale della I predicazione sul Simbolo Apostolico
del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella
Credo in Spiritum Sanctum,
sanctam Ecclesiam Catholicam, sanctorum communionem,
remissionem peccatorum,
carnis resurrectionem,
vitam aeternam. Amen.
Carissimi fratelli e sorelle,
siamo giunti al quarto ed ultimo passaggio della nostra analisi e riflessione sul Simbolo apostolico.
Apparentemente dovrebbe essere il passaggio più facile, perché – ad uno sguardo disattento e superficiale – apparirebbe l’articolo più sintetico e veloce, composto da una professione di fede nella terza Persona divina, lo Spirito Santo, cui si aggiungono cinque professioni di fede in altrettanti contenuti veritativi (Chiesa, comunione dei santi, remissione dei peccati, risurrezione della carne e vita eterna).
In realtà, a me sembra che questo sia il passaggio più difficile e, al tempo stesso, più entusiasmante sul quale bisognerebbe aprire una riflessione ampia e profonda da parte di tutte le Chiese.
Per addentrarci in quest’ultimo passaggio del nostro percorso occorre, però, procedere per gradi ordinati, leggendo dapprima il testo come oggi lo abbiamo, tentando poi di interpretare la sua storia redazionale (ovvero le sue trasformazioni) ed infine comprendere cosa il testo e la sua storia possono dirci. Si tratta, cioè, di fare lo sforzo metodologico forse più faticoso, perché richiede di applicare ben tre metodi di indagine: quello sincronico (il testo in sé), quello diacronico (la storia redazionale) e quello ermeneutico (il senso del testo e della sua storia redazionale).
1. Approccio sincronico: il testo in sé
L’analisi di quel segmento del Simbolo, che oggi è di nostro interesse, ci pone dinanzi a domande interpretative non di poco conto. Per rispondere a queste domande, tuttavia, è necessario che noi ricordiamo lo schema generale dell’intero Simbolo.
Esso si apre con un verbo che regge tutto il seguito:
a) Credo. A questo verbo seguono tre articoli, riconoscibili della ripetizione della preposizione in;
b) in Deum Patrem…;
c) dal secondo articolo si aggiunge la congiunzione et per rafforzare il legame con quando precede (in questo caso Dio Padre): et in Iesum Christum;
d) e ancora, stessa cosa: et in Spiritum Sanctum.
Da questa struttura siamo riportati a quanto abbiamo detto nella seconda omelia di questo avvento. Il verbo credo deriva dal greco pisteuō, che è verbo giovanneo. Nel costrutto pisteuō eis – credo in si esprime, lo abbiamo detto, il concetto di entrare in una specifica relazione che inizia nella fede, ma anche che nella fede si perfeziona, si compie, si approfondisce e si completa nella comunione. Credere in Dio significa entrare con lui in una relazione di amore, di reciproca conoscenza, di mutua compenetrazione: Dio entra ed abita in noi, e noi entriamo e dimoriamo in lui.
Ciò vuol dire che il Simbolo ci ricorda che, come abbiamo una relazione vitale con il Padre e con il Figlio, così dobbiamo averla con lo Spirito Santo. Non a caso infatti la promessa del Signore è il dono dello Spirito paraclito (cf Gv 14, 16) che significa: compagno, con il quale bisogna istaurare una relazione per accompagnarsi, per relazionarsi. Non posso, in questo senso, non condividere le parole del Vescovo di Roma, Francesco, il quale – in un’omelia “a braccio” del 22 maggio 2014 – definì lo Spirito Santo come il grande dimenticato dalla Chiesa, soprattutto nella preghiera. A lui si è unito un pastore evangelico della California (Francis Chan) che nel 2015 ha pubblicato un libro dal significativo titolo: “Il Dio dimenticato. Riscoprire la guida dello Spirito Santo”.
La centralità dello Spirito di Dio nella vita del credente è ben sintetizzata nel capitolo 5 della Lettera ai Galati laddove l’apostolo contrappone la vita di chi cammina nello Spirito a quella di chi cammina senza lo Spirito (o nella carne). Il cammino è il nome sintetico del discepolato cristiano, che era definito la via, il cammino dietro Gesù. Bene, questo cammino dietro Gesù è cammino nello Spirito Santo. Lui solo, nostro Compagno, ci permette di ricordare le parole dette da Gesù e ci insegnerà cose nuove (cf Gv 15,26). Senza lo Spirito non vi è alcuna certezza di permanere in quella Via che è Gesù stesso (cf Gv 14, 6). Senza lo Spirito, non vi è possibilità di essere Chiesa come meglio andremo a spiegare oggi.
Occorre che soprattutto noi, occidentali, ci riappropriamo o ci mettiamo in ascolto dei cristiani orientali che, più di noi, hanno mantenuto la coscienza pneumatica della vita cristiana. Nella seconda Lettera di Pietro leggiamo: «La potenza di Dio ci ha fatto dono di ogni bene mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e la sua potenza e ci ha donato beni grandissimi e preziosi, che ci erano stati promessi affinché diventaste partecipi della natura divina» (1,3-4). L’Apostolo non dice della “vita divina”, ma della «natura divina»! Allora l’umanità è resa partecipe della stessa natura di Dio: la potenza di Dio che ci apre a questo bene prezioso è appunto lo Spirito Santo ed è il dono, quel bene che ha un nome chiaro per i nostri fratelli orientali: la divinizzazione dell’uomo! Dio si è “umanizzato” (fatto uomo), perché l’uomo fosse divinizzato! Sarà il padre orientale Atanasio a coniare la felicissima espressione: «Dio si è fatto sarcoforo (portatore di morte), perché l’uomo divenisse pneumatoforo (portatore di Spirito)» e, quindi, di vita (Atanasio, Sull’incarnazione e contro gli ariani, 8; in PG 26, 996C).
Nel Simbolo, creazione (il primo articolo), incarnazione e redenzione (il secondo articolo) trovano il loro fine, il loro tèlos, scopo ultimo, nella divinizzazione dell’uomo. Esiste una kènosis del Logos, del Figlio increato di Dio nel grembo della madre di Gesù, Maria ed esiste una kènosisdello Spirito di Dio nella umanità di Cristo, che ci viene rappresentata nei racconti del battesimo di Gesù, laddove si dice che: lo Spirito scese e rimase su di lui (Mt 3, 16; Mc 1, 10; Lc 3, 22), ovvero sul Verbo che aveva assunto la nostra umanità, la quale viene così resa partecipe della natura divina.
Un altro grande padre orientale così commenta:
«E lo Spirito testimonia la divinità del Cristo: si presenta simbolicamente sopra Colui che gli è del tutto uguale. Una voce proviene dalle profondità dei cieli, da quelle stesse profondità dalle quali proveniva chi in quel momento riceveva la testimonianza. Lo Spirito appare visibilmente come colomba e, in questo modo, onora anche il corpo divinizzato e quindi Dio» (Gregorio Nazianzeno, Orazioni, PG 36, 358-359).
Da questo punto di vista, la dottrina e la riflessione cristiana (o per lo meno quelle occidentali) sono un po’ “zoppe”: se molto si è detto e scritto sulla creazione e sulla redenzione, poco o nulla è stata approfondita la divinizzazione. Una buona sintesi del senso di questo vivido pensiero teologico ci è offerta dal teologo ed artista Marco Rupnik, il quale così scrive:
«La divinizzazione è una progressiva penetrazione dell’amore di Dio, nello Spirito Santo, fino alla maturità di Cristo in noi. La divinizzazione è infatti la mèta della creazione che, grazie all’incarnazione dell’amore di Dio in Cristo, alla sua morte e risurrezione, compie la parabola del senso della vita nella persona umana. L’uomo è creato per essere divinizzato nell’amore di Dio rimanendo perfettamente uomo. L’uomo si divinizza umanizzandosi nella misura di Cristo; è la divina-umanità di Cristo l’ambito della maturazione dell’amore umano verso quello divino» (M. I. Rupnik, Dire l’uomo, Roma 1996, 75).
Possiamo, quindi, dire che questo terzo articolo del Simbolo completa la parabola su cui è costruito l’intero testo. Il Simbolo infatti parte da una parabola discendente, cioè la discesa (o kènosis) di Dio verso il creato tutto (la creazione), attraverso la parabola discendente (o kènosis) del Figlio verso l’umanità (incarnazione, morte e risurrezione) e attraverso la parabola discendente (kènosis) dello Spirito, che dal battesimo inabita l’uomo; e da qui ha inizio la parabola ascendente (glorificazione) dell’uomo che viene divinizzato!
È esattamente da questo punto che può prendere significato tutto ciò che segue: la vita del cristiano nella Chiesa, la remissione dei peccati (ovvero il suo essere ormai giustificato, reso giusto per sempre), il suo essere in vitale relazione con i suoi fratelli e sorelle nell’unico Corpo di Cristo (la comunione dei santi), così come il suo essere già nella vita eterna che troverà il compimento nella risurrezione della carne; tutto questo è la manifestazione della sua divinizzazione, della sua glorificazione, in forza dell’opera dello Spirito Santo.
Come la redenzione prende inizio dalla discesa dello Spirito sulla umanità di Gesù, così la pienezza della redenzione si realizza nella discesa dello Spirito su ogni uomo e donna, che viene reso partecipe della natura divina.
Dobbiamo, ora, chiarire il rapporto testuale, letterale della prima affermazione (credo nello Spirito Santo) con le cinque che la seguono. Sono tutte costruite con l’accusativo. In questo modo si potrebbe ritenere che, per ognuna delle seguenti affermazioni, sia da sottendersi il credo in. Ne risulterebbe una frase così costruita:
[Credo] et in Spíritum Sanctum,
[credo in] sanctam Ecclésiam cathólicam,
[credo in] sanctórum communiónem,
[credo in] remissiónem peccatórum,
[credo in] carnis resurrectiónem,
[credo in] vitam aetérnam.
Questa ricostruzione del senso del testo però sarebbe totalmente errata, perché non terrebbe conto della struttura generale del Simbolo nel quale il costrutto credo in è usato unicamente in riferimento alle tre Persone trinitarie: Padre, Figlio e Spirito Santo.
Deve, di conseguenza, ritenersi che le cinque affermazioni, che seguono quella sullo Spirito Santo, utilizzino il costrutto credo + accusativo, senza in. Si tratta cioè di contenuti creduti, affermati, non di relazioni vitali e personali come per le Persone divine. Tuttavia, queste affermazioni sono inserite nell’articolo di fede che prende le mosse dal credere nello Spirito Santo. E questo non può non avere conseguenze ermeneutiche.
La struttura letteraria del Simbolo ci sta, quindi, dicendo che tutto ciò che è affermato nel terzo articolo deve essere interpretato in chiave pneumatologica: solo lo Spirito ci permette di credere in quanto segue, ed ognuna delle verità di fede proclamate assieme allo Spirito che, da questi riceve luce, senso e contenuto.
Facciamo alcuni rapidi esempi. Senza lo Spirito la Chiesa sarebbe un mero agglomerato umano, tenuto insieme da una ideologia comune, da un ethos più o meno condiviso, ma non sarebbe la comunione dei santi, ovvero quell’organismo vivente e vitale, nel quale i membri sono organicamente collegati gli uni agli altri. Senza lo Spirito, in nessun modo la Chiesa potrebbe essere il corpo di Cristo, perché avremmo il capo-la testa (Cristo), avremmo gli organi-le membra (la Chiesa), ma non avremmo il sangue che comunica la vita ed il respiro vitale che ossigena tutti i tessuti (lo Spirito Santo). Senza il sangue che scorre nelle vene, un corpo, inesorabile è morto!
Senza lo Spirito non ci sarebbe remissione dei peccati, perché la morte e la risurrezione di Cristo rimarrebbero eventi storici, legati e per così dire imprigionati nel segmento temporale in cui sono avvenuti e salverebbero al massimo l’umanità contemporanea a Cristo. È lo Spirito che fa sì che quegli eventi salvifici siano attuali ed efficaci indietro ed in avanti nel tempo. È lo Spirito che garantisce e permette all’opera redentrice di Cristo di rimanere l’oggi della Chiesa e di redimere gli uomini e le donne di tutti i tempi: del passato, del presente e del futuro.
Senza lo Spirito non vi sarebbe vita eterna, perché è lui il soffio eterno, il ruah immesso nelle narici mortali dell’uomo (cf Gen 2,7); perché è lui che consente la partecipazione del pneuma umano al Pneuma divino, che gli offre e gli garantisce la sopravvivenza al corpo. E senza lo Spirito non vi sarebbe resurrezione della carne perché è lo Spirito che dà la vita. Così chiaramente ci mostra la visione di Ezechiele chiamato a profetizzare allo Spirito che trasforma una valle di ossa morte in nuovi esseri viventi (cf Ez 37,1-14).
Il testo in sé, secondo un approccio sincronico, quindi, ci permette di riappropriarci di un dato ineludibile della nostra fede: lo Spirito opera ed agisce nella storia della salvezza, permettendole di giungere al suo pieno compimento che è la divinizzazione dell’uomo, la sua partecipazione alla natura divina. Tutto ciò che è stato compiuto prima era finalizzato esattamente a questo pleroma, a questa pienezza dell’uomo in Cristo e di Cristo nell’uomo.
2. Approccio diacronico: mutazioni del testo ed autoesaltazione della Chiesa-istituzione
Dobbiamo, però, domandarci: il testo che noi utilizziamo è esattamente quello testimoniato dai primi e più antichi scritti? Se sì, allora lo abbiamo già compreso, non abbiamo null’altro da aggiungere alla nostra indagine. Se no, allora, dobbiamo soffermarci sulla formula originaria e primitiva, che può essere foriera di ulteriori significati.
Per rispondere a questa nuova domanda dobbiamo mettere in sinossi il possibile testo del Credo romano con quello del Simbolo apostolico.
Ho detto “possibile testo”, perché noi non abbiamo un originale del testo del Credo romano. Possiamo ricostruirlo dalle testimonianze indirette. In modo particolare, giunge a noi una redazione latina di un più antico testo greco. La troviamo in una professione di fede che Marcello di Ancira scrisse a papa Giulio, intorno all’anno 356 e che ci è pervenuta tramite Rufino di Aquileia (circa 404 d. C.).
Per quanto ricostruito a posteriori, il testo del Credo romano ci dà interessanti spunti. Vediamo allora la sinossi:
Credo romano et in Spíritum Sanctum, sanctam Ecclésiam, remissiónem peccatórum in carnis resurrectiónem. Simbolo apostolico Et in Spíritum Sanctum, sanctam Ecclésiam cathólicam, sanctórum communiónem, remissiónem peccatórum, carnis resurrectiónem, vitam aetérnam.
Da questo semplice specchietto ci accorgiamo di due grandi variazioni testuali: una riguarda la Chiesa e l’altra la vita eterna. Non parlerò dell’aggiunta di sana pianta dell’espressione vitam aeternam, perché potrebbe essere stata inserita come esplicitazione della risurrezione, cioè risorgeremo per la vita eterna, risorgeremo per sempre.
Dobbiamo, invece, soffermarci su ciò che è scritto a riguardo della Chiesa. Nel Credo romano essa era citata semplicemente come Chiesa; nel Simbolo apostolico, invece, diviene Chiesa cattolica e si aggiunge l’espressione sanctorum communionem.
Si tratta di interpolazioni di grande impatto ed importanza. Da principio i discepoli di Gesù hanno percepito se stessi come un’unica realtà, sebbene suddivisa, geograficamente frazionata in diversi luoghi. Non esistevano certo le capziose distinzioni tra Chiesa locale e Chiesa universale. La Chiesa di Cristo era semplicemente la Chiesa di Cristo. Ogni comunità – per quanto composta da uno sparuto gruppo di fratelli e sorelle – sapeva di essere la Chiesa e, al tempo stesso, di non esaurire in se stessa la totalità della Chiesa. Ogni comunità era Chiesa, senza pretendere di essere la Chiesa. Cioè, la realtà chiamata Chiesa era irriducibile ai suoi segmenti, e ciascuna porzione sapeva di avere in sé tutto ciò che la rendeva Chiesa, pur senza voler esaurire i confini di una realtà che la trascendeva.
È solo con le diatribe teologiche (e più realisticamente con quelle sul derivante potere ed autorità) che le diverse Comunità cristiane hanno vergognosamente iniziato ad aggettivarsi per trovare – ciascuna – un modo per presentare se stessa come la “vera (e forse unica) Chiesa di Cristo”.
La scelta dell’aggettivo cattolica nel suo contesto originario, può riflettere, quindi, il bisogno di esprimere che la Chiesa è una realtà composita ed è una, benché sparpagliata nel mondo intero. L’etimologia di “cattolico-cattolica”, infatti, indica proprio il concetto della universalità, che vuol dire una prismatica realtà che tende all’unità, non certamente identificabile con l’uniformità, o peggio con l’assoggettamento ad un potere esclusivamente umano.
Tuttavia, l’aggettivo cattolica non è l’unica aggiunta del Simbolo apostolico rispetto a quello romano. Subito dopo, infatti, il testo continua con sanctorum communionem. Ora, occorre tentare di interpretare bene questo inciso per comprenderne sia il senso letterale sia il significato che gli si è voluto dare nell’aggiungerlo proprio in quel punto.
Il costrutto segue quello di tutto il terzo articolo di fede: accusativo + genitivo(communionem sanctorum, resurrectionem carnis). Quindi, si può ritenere che sia un elemento messo alla pari degli altri, ovvero uno di quelli che abbiamo chiamato “cinque contenuti di fede” che vanno letti in chiave pneumatologica.
Esiste, tuttavia, un’altra via interpretativa. E se si trattasse di un’aggiunta appositiva dopo quella aggettivale? Cioè: e se l’estensore del testo avesse voluto chiarire meglio il concetto di Ecclesia aggiungendo l’aggettivo cattolica e l’apposizione comunione dei santi? In tal caso il testo suonerebbe così: Credo nello Spirito Santo, la Chiesa cattolica, che è la comunione dei santi, la remissione dei peccati… ecc..
In tal caso allora ci troveremmo dinanzi ad un’interessante significato ecclesiologico. Il Simbolo ci direbbe che la Chiesa è cattolica nella misura in cui è comunione dei santi, ovvero quella comunità in cui il legame tra i membri è dato dalla circolazione dello Spirito Santo in essi e tra di essi, ed in cui sono condivisi i beni santi; cattolica è quella Chiesa che è la comunione di tutti i santi (cioè, coloro che sono stati resi santi dal battesimo), ma anche quella che sa permanere in comunione con tutti i santi. Cattolico, in tal caso, non esprime un recinto di riconoscimento, ma un modello di vita: cattolica è quella Chiesa che allarga gli spazi di comunione, che tiene unita la multiforme comprensione del mistero di Cristo nell’unità – unica veramente essenziale – del riconoscimento della sua Signoria e della sua redenzione. Se communionem sanctorum è apposizione di Ecclesiam, allora è evidente che il Simbolo ci sta dicendo che la Chiesa di suo è ecumenica, non perché cerchi spazi ulteriori di comunione e di unità magari con “congressini” o peggio ancora mettendo in atto “politiche ecclesiastoidi” per il “quieto vivere”, trovando modi per evitare di “calpestarsi i piedi tra le confessioni”, spartirsi i territori e le poltrone, trovare cavilli “pseudoteologici” per giustificare e non rinunciare ai propri privilegi ecclesiastici a dispetto dei santi ministeri. La Chiesa che ci mostra il Simbolo Apostolicoè ecumenica perché essa è il quadro entro cui si scrive l’unità dei diversi universi cristiani. Così nessuna Chiesa, da sola, può dirsi cattolica e comunione dei santi.
C’è, poi, un ulteriore approfondimento da fare a partire dalla storia redazionale del testo. Agli inizi del 1900, in Egitto, venne rinvenuto un frammento di un papiro del VII secolo (papiro Dêr Balyzeh), che riportava gli usi liturgici risalenti al IV secolo. Il testo è in greco. Lì la formula di fede suona così: «Credo in (pisteuo eis, secondo il costrutto giovanneo) Dio, Padre, creatore di tutte le cose, nell’unigenito suo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, e nello Spirito Santo, e nella risurrezione della carne, nella (en) santa Chiesa cattolica (universale)».
In questa professione di fede del IV secolo vengono usate due preposizioni differenti: per indicare la fede in Dio si usa eis+accusativo, ma in riferimento alla Chiesa è usato en+dativo. Eisindica il moto a luogo ingressivo, vado verso qualcosa entrando in essa; en traduce lo stato in luogo. In questo modo, la santa Chiesa cattolica non è un articolo della fede, ma è lo spazio comunitario, vitale, è il contesto entro il quale vengono professati tutti e tre gli articoli di fede.
Dalla fine del II secolo si iniziò ad aggiungere alla Chiesa l’aggettivo di santa, mentre quello di cattolica compare dalla metà del IV secolo. Ora, mentre compare quell’aggettivo, che potrebbe in qualche modo essere usato come linea demarcatoria tra cristiani veri (ortodossi) e falsi (eterodossi), una vasta area geografica di Chiesa (Africa del Nord) avverte il bisogno di interpretare il patrimonio comune in modo diverso. Quasi a dire: chiamate la Chiesa santa e cattolica, ma ricordate che la Chiesa non è un articolo di fede in cui credere ma è lo spazio comunitario, lo stato in luogo in cui credere in Dio Trinità e nell’opera della redenzione. Si tratta di una testimonianza antica e poderosa, perché manifesta che sin da subito – mentre il popolo di Dio andava sfaldandosi per le diatribe dogmatiche – qualcuno alzava la voce per ricordare a tutti che la Chiesa è uno strumento, non un fine; è un luogo, uno spazio di fede, non un contenuto di fede; è una realtà di comunione e non una semi-divinità in cui professare la fede, quasi che fosse come una quarta persona in aggiunta alla Trinità.
E che questo significato dovesse essere diffuso più di quanto di solito venga ammesso lo attestano anche altri usi coevi, che qui non possiamo analizzare uno per uno. È, tuttavia, necessario che su questo punto si indaghi meglio, perché è decisivo per la comprensione dei Simboli di fede e per le prassi ecclesiali ed ecumeniche, in particolare.
3. Approccio ermeneutico: cosa dicono a noi il testo in sé e la sua storia redazionale? Solo lo Spirito ci insegna la verità
Non è facile tirare una conclusione unica del percorso fatto in queste riflessioni. Si sono intersecate questioni ermeneutiche, esegetiche, ecclesiologiche e pneumatologiche. Se, tuttavia, dovessi cercare a tutti i costi un filo unificante, allora direi che questo è e può essere solo lo Spirito di verità, che ci guida alla verità tutta intera. È Lui che ci fa entrare nella grazia della fede e ci introduce nel Mistero in cui crediamo.
Questo terzo articolo del Simbolo ci insegna che in tutto ciò che riguarda l’universo della fede cristiana (verità, servizi, teologia, strutture…) o si ha una visione spirituale o si perde la strada. Per visione spirituale non intendo affatto un senso devozionale e spiritualoide, ma una visione nello Spirito, secondo lo Spirito. A partire dal 1500 – e per una serie di motivazioni culturali e religiose – si è dato all’aggettivo spirituale il significato di qualcosa di intimo, anzi intimistico, come se riguardasse un aspetto interiore della vita, che poco o nulla ha da dire all’esistenza storica.
Spirituale è pneumatico! Ovvero riempito, plasmato, sorretto e guidato dal Pneuma di Dio, dallo Spirito Santo.
Un’esperienza di fede che non sia pneumatica, diventa un camminare secondo la carne, pur facendo “cose solo apparentemente cristiane”.
La verità di fede, il contenuto veritativo della fede che ci è stata donata, può essere compresa solo nella luce dello Spirito e solo così diventa l’arricchimento dell’esperienza umana, che ci unisce e non ci divide.
Le prassi ecclesiali – così diversificate – vanno lette nella luce dello Spirito e solo così diventano per noi l’effetto della multiforme sapienza di Dio, che si lascia dire in molti linguaggi che si arricchiscono reciprocamente.
Le vite singole delle comunità e delle persone credenti vanno lette nella luce dello Spirito e così diventano per tutti le ineffabili ed inesauribili vie con cui Dio raggiunge ogni persona e scrive – singolarmente con ciascuno di noi – la storia del suo amore di alleanza.
Il contesto storico e culturale nel quale viviamo – che tanto lontano sembra da Dio e dalla Parola vivificante del suo Figlio – va letto nella luce dello Spirito e solo così diventa il mondo da amare e da servire e non certo il regno esclusivo delle tenebre contro cui combattere.
Solo lo Spirito immette nella nostra vita di fede lo sguardo di Dio ed il suo respiro; è lo Spirito che permette al nostro cuore di battere all’unisono con quello di Dio.
Soltanto se la nostra vita cristiana è vita nello Spirito, vita spirituale, vita pneumatica, solo allora essa è una grazia, un dono, un seme di speranza nell’oggi nostro e di ogni uomo e di ogni donna. Altrimenti siamo come persone carnali, ossa inaridite che restano nella valle della morte.
Chiediamo, quindi, allo Spirito che soffi potentemente su di noi tutti, per ridestarci a vita nuova. ChiediamoGli, cioè, di dilatare il nostro cuore, la nostra mente, la nostra volontà alla vita stessa di Dio. Così, quando diremo di nuovo: Marana-tha! Vieni, Signore Gesù, sentiremo ciò che lui ci dice: Sono venuto, sono già venuto e vivo in te, che hai scelto la vita; vivo in te, che servi la vita di tuo fratello; vivo in te, che non hai paura di radere al suolo le convinzioni divisive ed hai l’audacia di cercare nuove strade di comunione; vivo in te, ogni volta che tu scegli la vita e sconfiggi la morte, ogni morte che deprime e schiaccia l’uomo; vivo in te, che ti scopri divinizzato e per questo rendi partecipe chiunque della pienezza divina, che io ho posto in te!Sarà: vivo in te! la prima, unica, inesorabile parola che ci dirà il bambino della mangiatoia di Betlemme. Amen!
dom Tonino +
Qui sotto il video integrale della predicazione
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