Il 20 luglio del 2018 la Convocazione delle Chiese Episcopali in Europa riconosce e costituisce la Christiana Fraternitas come Ordine Monastico Ecumenico con Decreto Episcopale a firma di S. E. R. Mons. Pierre Whalon
Il 20 luglio 2019 alle ore 18.00, giorno del I Anniversario del riconoscimento ecclesiastico dell'Ordine, il Capitolo ha celebrato, presso presso la Casa di Preghiera i Secondi Vespri solenni officiati dal Rev. mo Abate Decano dom Antonio Perrella
L'Omelia dell'Abate Antonio Perrella
"[Elia]camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb. 9Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Che cosa fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita». Gli disse: «Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. 13Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna".
Cari fratelli e sorelle,
l’esperienza vissuta da Elia sull’Oreb può essere riletta come paradigma della vita monastica. In questo primo anniversario del nostro riconoscimento come Ordine Monastico da parte della Convocazione delle Chiese Episcopali in Europa, vogliamo ringraziare Dio per questo sigillo ecclesiale dato all’esperienza ed al carisma che ci è stato donato. Ma, ancor di più, vogliamo rinnovare il nostro sì alla vocazione a cui siamo stati chiamati. Non stiamo, cioè, celebrando anzitutto un evento del passato, per quanto gioioso, ma siamo qui a rinnovare la nostra adesione piena e convinta a ciò che il Signore ci ha ispirato nel cuore e che noi abbiamo accolto, con libertà e responsabilità, come realizzazione della nostra vita personale e comunitaria: consacrarci a Dio per l’unità delle Chiese; fare della nostra vita una costante ricerca di Dio, perché solo rimettendo Lui al centro delle vite dei singoli e delle comunità ecclesiali, noi potremo tornare ad essere uno in Lui.
In questo cammino l’esperienza di Elia ci aiuta e ci spinge.
Il testo ci dice che Elia è in cammino per quaranta giorni e quaranta notti. Egli così rivive l’esperienza del suo popolo che per quarant’anni aveva camminato nel deserto. In questo modo Elia rivive un legame con il suo popolo, ma al tempo stesso ne assume come una funzione vicaria: deve vivere lui, ciò che dovrebbe vivere il popolo intero. Così è la vita del monaco/a: legata inscindibilmente alla comunità ecclesiale di appartenenza, ma anche segno di essa nella comunità monastica ecumenica. Noi qui viviamo tra di noi ciò che è possibile che tutti i nostri fratelli e le nostre sorelle, le nostre Chiese, possono vivere tra di loro: essere diversi, eppure uniti.
Inoltre, Elia è in cammino: il monaco è colui che sta in cammino. Sebbene risieda in un medesimo luogo egli, il suo cuore, la sua anima, sono costantemente in cammino, alla ricerca. È interessante notare che la prima parola che viene rivolta al profeta è una domanda: “cosa fai qui?”. Effettivamente Elia si trova dove non doveva: Dio gli aveva dato un ordine (quello di tornare in Israele, da cui fuggiva per timore dell’ira dei suoi persecutori), ma egli non lo aveva rispettato. Era stanco, deluso e si stava rifugiando dai pericoli che lo attorniavano. Al di là di questo, la domanda è più radicale ed ha un risvolto esistenziale sempre decisivo: cosa fai qui? cosa cerchi? chi cerchi? Questa domanda è la vita del monaco: un uomo o donna in ricerca di Dio e di se stesso in Dio. Agostino di Ippona nelle Confessioni, che contengono il suo travagliato cammino interiore per cercare la verità di se stesso e di Dio, dirà: Signore ci hai fatti per te ed il nostro cuore è inquieto fin quando non riposa in te.
Dopo aver ascoltato la risposta di Elia, che suona come un lamento, Dio gli ordina di salire sul monte e di stare alla presenza del Signore. Nel linguaggio biblico il monte e le alture sono luoghi delle teofanie. La più importante nel testo veterotestamentario è la teofania a Mosè che sul monte parla con Dio faccia a faccia (cf Es 33,11), o come sarebbe meglio tradurre il testo masoretico bocca a bocca, ad indicare un rapporto di confidenza innamorata. La vita monastica è questa esperienza di ricerca amorosa: non la luce dell’intelletto e della verità, non la luce della volontà e di ciò che è ritenuto eticamente giusto; la luce ed il fuoco dell’amore. La vita del monaco/a è un roveto ardente in cui la costante ricerca dell’amore di Dio spinge alla ricerca dell’amore verso il fratello. Più arde e divampa la passione per dio più arde e divampa la passione per l’uomo.
Sul monte anche per Elia avviene la manifestazione di Dio. Il racconto è costruito in parallelo, ma anche in contrasto, con Es 19,16-19. Vento, terremoto e fuoco sono presenti in ambedue le manifestazioni: in Esodo, però, erano i segni della presenza di Dio, mentre per Elia essi sono a malapena indizi di una presenza che si avvicina, ma Dio non è in essi. Dio si rende presente in altro: nel testo italiano leggiamo “nel sussurro di una brezza leggera”, nel testo ebraico, invece si dice: nel mormorio di un vento leggero(qôl demamah daqqah) che sarebbe tradotto meglio con “nella voce del silenzio”.
Il vento è sempre segno del movimento dell’aria, del soffio impetuoso. Il soffio (ruah) è il segno dello Spirito di Dio che dà vita, dapprima aleggiando sulle acque come in Genesi (1,2), poi soffiando su ossa morte che tornano in vita come in Ezechiele (37,1-14). Si tratta sempre di manifestazioni grandiose della potenza di Dio. Per noi il vento può essere un’esperienza spirituale personale o comunitaria che ci dà gioia e soddisfazione. Non è detto che Dio sia nel successo delle nostre iniziative.
Il fuoco arde, riscalda, illumina come la colonna di fuoco in Esodo (13,21-22). Ma anche brucia e distrugge come Dio con Sodoma e Gomorra (Gen 18). Il fuoco è manifestazione di una potenza che dirige o devasta. Per noi il fuoco potrebbe essere il potere e l’influenza che riusciamo ad esercitare, come singoli e comunità, sugli altri, sulle decisioni da prendere. Ma Dio non è neppure in questa autorità o autorevolezza o riconoscimento pubblico che cvi viene dato.
Infine il terremoto indica lo sconvolgimento della terra e dell’ordine su cui si poggiano i piedi e le certezze dell’uomo. Dio travolge ogni certezza e non è nel terremoto, perché nessuna certezza umana, neppure religiosa, è tanto forte da sostenere il peso di Dio.
Dio si lascerà trovare e ascoltare nel sussurro della brezza, nella voce del silenzio. Solo in questo caso Elia si prostrerà e si coprirà il volto, perché non poteva – secondo l’usanza sacra – guardare Dio in faccia. Il silenzio è il luogo teofanico per eccellenza. Nel profeta Sofonia si legge: Silenzio davanti al volto del Signore!(Silete ante faciem Domini: Sof 1,7). Anche nella Trasfigurazione, Pietro e gli altri non sapranno cosa dire (cf Mc 9,6). Dove Dio c’è, lì scende il silenzio dell’uomo; dove c’è il silenzio, lì Dio può parlare, giacché egli non viene nel frastuono e nel caos.
Il nostro padre Benedetto, di cui da poco abbiamo celebrato la memoria, nella Regola, dedica il capitolo VI al silenzio, ma lo fa con un titolo indicativo: non dice “il silenzio”, ma “l’amore del silenzio”. In quel capitolo egli insegna:
«Facciamo come dice il profeta: "Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone". Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riserbata al peccato! Dunque l'importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto: "Nelle molte parole non eviterai il peccato". Se infatti parlare e insegnare è compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare».
E sappiamo dalla stessa Regola che nel monastero uno è il Maestro – Gesù – e noi siamo tutti discepoli!
Tornando al nostro testo biblico, dobbiamo comprendere meglio e più a fondo, perché Dio scelga di parlare ad Elia nel silenzio.
Come abbiamo detto, il testo appena proclamato è costruito parallelamente – e al tempo stesso in contrasto – con Esodo 19,16-19. Lì Dio si manifesta con il vento, il fuoco ed il terremoto a tutto il popolo ma solo a Mosè ed Aronne sarà consentito salire sul monte. Adesso invece, vento fuoco e terremoto non sono luoghi della presenza di Dio, ma lo è solo un soffio silenzioso. Eppure Elia è sul monte. Perché tutto questo? Mosè era un condottiero vincitore ed anche se ha dovuto affrontare difficoltà era comunque ritenuto da tutti l’inviato di Dio. Per Elia non fu così: egli fu perseguitato dal suo stesso popolo, la sua parola era messa in dubbio, la sua missione profetica non era riconosciuta. In questo modo, Dio sta manifestando ad Elia che sebbene per strade e con modi diversi rispetto al riconosciuto Mosè, anche a lui è comunque donata la stessa esperienza, e anche lui è l’inviato del Signore esattamente come Mosè, indipendentemente dal riconoscimento o meno che di lui viene fatto da parte degli uomini. È Dio che lo riconosce, che lo unge, lo sceglie e lo manda e gli parla.
Nella tradizione ebraica il profeta è chiamato nabì. La traduzione di questa parola è complessa perché è un passivo. Andrebbe tradotto con “il parlato”: il profeta è colui che parla, perché prima Qualcuno gli ha parlato. Questa teofania ad Elia è in realtà un racconto di vocazione, di una seconda e nuova vocazione, in cui Elia non dovrà più cercare la sicurezza nel potere che gli viene concesso, né nella sua capacità di essere accolto e neppure nella sua sicurezza del ruolo che ha: spesso dovrà apparire niente di più che un fastidioso soffio leggero, come un sussurro che nessuno sembra ascoltare… eppure in quel soffio leggero Dio si farà sentire e trovare.
Così la vita del monaco/a è la vita di uno che cerca, perché è estato cercato per primo; che parla, perché qualcuno gli ha parlato; che ama perché qualcuno lo ha amato. Non importa cosa sarà chiamato a fare, non importa che riconoscimento avrà nella vita comunitaria o fuori di essa, non importa se potrà o meno alzare la sua voce… spesso sarà e resterà soltanto un soffio, un mormorio… eppure in esso ci sarà sempre chi saprà ascoltare l’eco del mormorio di Dio. Amen.
Al termine del Vespro Solenne è stato cantato il "Te Deum" e insensato il Decreto di Riconoscimento dell'Ordine.
Qui sotto il video integrale delle diretta Facebook
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