Meditazione del Padre Abate in occasione della Celebrazione Capitolare Ecumenica in Passione Domini di Mercoledì Santo AD 2020 ai tempi del CoVid-19.
Meditazione del nostro Padre Abate dom Antonio Perrella
sul Vangelo Mc 14, 26-46 in occasione della Settimana di Passione 2020
Se n'è andato! Gesù solo come tutti i soli al mondo.
Cari Fratelli e Sorelle,
Non appena ci si imbatte nella lettura del racconto della passione secondo Marco, non si può fare a meno di notare che il registro del racconto cambia. Marco, primo evangelista ad aver messo mano ad un racconto organico della vita di Gesù, si distingue per brevità e velocità nel tratto descrittivo. Egli va subito all’essenziale, non si perde in particolari. Nel racconto della passione, invece, gli elementi ed i particolari si moltiplicano; sembra quasi che il ritmo narrativo subisca una battuta d’arresto. Questo cambio può evidentemente dipendere solo da due fattori: il primo, interno al testo, è che per l’evangelista il fatto della passione e morte di Gesù siano il dato decisivo dell’intero racconto; il secondo, invece, dipende dal fatto che Marco, nell’aver redatto il suo vangelo, doveva avere tra le mani un racconto palestinese della passione, scritto immediatamente dopo i fatti accaduti. Ci troviamo, quindi, dinanzi ad uno dei nuclei più antichi del patrimonio letterario cristiano e ad una delle testimonianze più venerande dei testimoni di Gesù.
Dopo la cena, Gesù canta con i suoi l’inno (14,27). Probabilmente si trattava del cosiddetto piccolo Hallel, che veniva cantato in tutte le feste ebraiche più importanti. Era il canto dei pellegrini che salivano a Gerusalemme. Gesù vive il suo cammino verso il monte degli ulivi come un pellegrinaggio verso la meta del suo viaggio: il compimento della volontà del Padre. I salmi 113-117 – che costituivano il piccolo Hallel – tuttavia non contengono solo espressioni di gioia, bensì anche riferimenti alla sofferenza: solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero (113,7), mi stringevano funi di morte, ero preso nei lacci degli inferi, ero oppresso da tristezza ed angoscia (116,3). La prospettiva nella quale Gesù si pone sin dall’inizio è quella di una immane tragedia che sta per piombargli addosso e verso la quale lui va in piena consapevolezza.
Prova che egli conosca bene ciò che sta per accadere – sebbene questo non riduca minimamente l’impatto tragico che gli eventi hanno su di lui – è il fatto che egli citi, quasi a preparare se stesso ed i suoi discepoli, ancora una volta il profeta Zaccaria, esattamente come – con i segni – aveva fatto nell’ingresso messianico: Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse (Zc 13,7). Cosa vuol dire questa profezia e perché, fra le tante, proprio questa risuona sulle labbra di Gesù? Nei tratti salienti della sua passione, Gesù ricorre alle profezie di Zaccaria: è segno che è in quella linea profetica che egli ha maturato la sua propria auto-comprensione, come il messia servo che viene a soffrire ed offrire se stesso per la salvezza del popolo e dell’umanità. Se, però, ci spostiamo dal piano scritturistico-esegetico ed andiamo a quello psicologico, occorre fare anche un’altra riflessione. Gesù aveva sufficientemente delineato davanti a sé che si stavano tirando le drammatiche conseguenze delle sua vita e del suo insegnamento. Tra tutto ciò che può prevedere, cosa preannuncia in questo momento specifico ai suoi discepoli? L’abbandono! Ora se, da un lato, può averlo fatto per preparare i suoi discepoli, dall’altro lato, non si può certo negare che evidentemente quella solitudine era una delle cose che maggiormente lo spaventava. Così si comprende meglio perché – quasi stizzito – subito dopo preannuncerà a Pietro che, nonostante le sue parole da spaccone, lo rinnegherà per ben tre volte (cf Mc 14,30) e poi ancora per ben tre volte chiederà ai suoi di vegliare con lui, mentre egli si allontana per pregare. Veniamo messi, qui, di fronte alla prima delle grandi paure e fragilità umane che Gesù sperimenta fino in fondo: la paura della solitudine, in un momento così decisivo, la paura di essere abbandonato, la paura della morte la paura della morte. Sì, Gesù, come noi, ha avuto paura della morte, la stessa paura che oggi noi proviamo in questo momento di tribolazione mondiale. Lui, che era abituato ad essere seguito dalla folla, ascoltato da fiumane di persone, lui che si era potuto persino prendere il lusso di dettare le condizioni per stare dietro a lui, adesso sembra elemosinare un po’ di compagnia, sembra supplicare perché non venga lasciato solo. Il testo di Marco ci mostra un Gesù combattuto tra due esigenze: da un lato quella di rimanere solo per pregare il Padre e dall’altro il timore di rimanere solo. Al v. 32 fa sedere i discepoli in un luogo del Getsemani; ma al v. 33 prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. Il modo con cui questa scelta viene descritta nel testo greco è interessante: il verbo è paralambano, che già di suo significa prendere assieme, ma vi si aggiunge met’autou (con sé); la traduzione letterale sarebbe, quindi: prese assieme con sé. È evidente che Gesù non voglia privarsi della compagnia di almeno qualcuno dei suoi discepoli, ai quali candidamente confida il suo stato d’animo interiore: Sono triste fino alla morte (v. 34a). E quando a questi tre dà ordine di rimanere vigilanti, non dice anzitutto: pregate e state qui, ma state qui e vegliate (v. 34b). Il primo comando o forse – più opportunamente – supplica che Gesù rivolge ai suoi discepoli è quella di rimanere lì, con lui. Il v. 35, poi, ci dice che Gesù si allontana dai tre, ma – attenzione – solo di pochi passi, di un pochino (mikròn), diremmo noi. Se Gesù abbia voluto che quei tre compagni vedessero la fragilità della sua umanità o se piuttosto abbia voluto averli vicino, per poter sentire la loro presenza, non lo sappiamo con precisione. Certo, però, non vuole rimanere solo.
L’ulteriore elemento che Marco ci offre è la preghiera che Gesù rivolge al Padre (vv. 35-36). Alcuni esegeti sono concordi nel dire che l’ora veramente drammatica della passione di Gesù comincia proprio qui. Gesù sta pregando il Padre, ma – anche se si rimette alla sua volontà – gli sta chiedendo di cambiare quella volontà, di risparmiargli quel calice. Anche qui le parole sono gravide di significato: il calice – sia nell’antico testamento (cf Ger 25,15-29; Ez 23,31-34) sia nella letteratura extrabiblica – indica il destino dell’uomo, mentre il verbo risparmiami era la supplica di chi chiedeva di poter sopravvivere ad uno sterminio. È evidente che Gesù sente incombere su di sé la morte, come uno sterminio devastante e che tutto ciò sta accadendo per volere del Padre suo. Contemplando questa preghiera di Gesù, è facile ritrovare i sentimenti di uomini e donne che oggi, da un estremo all’altro della terra, implorano il proprio Dio con l’angoscia di un’epidemia che devasta il quotidiano, il lavoro, le politiche, i sentimenti e gli affetti, la vita. Gesù supplica: Abbà, ma gli sembra di avere dinanzi un Dio distante, che ha un progetto e deve realizzarlo indipendentemente dall’uomo e da ciò che egli possa desiderare. Solo così si comprende per quale motivo, sulla croce Gesù, citando il Sal 22,2, gridi: Eloì, Eloì, lema sabchtani – Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Alcuni esegeti mitigano la scandalosità di quel grido dicendo che probabilmente Gesù usa un metodo rabbinico di citare i salmi, attraverso l’indicazione del primo versetto, ma volendo intendere invece tutto il testo. Questa pindarica spiegazione è finalizzata a ricordare che quel salmo finisce con un grido di speranza: E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: «Ecco l’opera del Signore!» (Sal 22,30b-32). Un’operazione del genere sarebbe infondata e minimizzerebbe il dato storico ed esegetico: Gesù ha sperimentato l’impensabile frattura tra ciò che desidera lui e ciò che desidera il Padre. Lui, che aveva vissuto sempre in comunione con il Padre, tanto che il suo desiderio e volere coincidevano con il desiderio ed il volere del Padre, fa fino in fondo l’esperienza degli uomini peccatori il cui desiderio e la cui volontà talvolta si scontrano ed entrano in conflitto con il desiderio e la volontà di Dio. Ed anche qui la lettura psicologica ci può venire in aiuto: immaginiamo una persona che ha piena consapevolezza di ciò che deve fare e che ciò che deve fare è anche esattamente ciò che vuole fare, perché corrisponde all’orientamento fondamentale della sua vita che, in ambito di fede, chiamiamo vocazione. Ad un certo punto della sua vita – e non un punto qualsiasi ma quello sommo, ultimo e decisivo – si ritrova a fare i conti con la frattura interiore e lancinante tra ciò che deve fare e ciò che invece vorrebbe fare. È una crisi vocazionale ed esistenziale totale! Qui emerge la paura di aver sbagliato tutto, di essersi illusi, unitamente alla paura di non farcela ad andare fino in fondo, di aver preteso troppo da se stessi.
C’è poi un versetto, anzi una parola soltanto che, sempre in questo contesto, è assolutamente determinante. Dopo essere andato a cercare il conforto dei tre discepoli ed averli trovati sempre addormentati, l’ultima volta Gesù, al v. 41, dice una frase tremenda, drammatica: Voi dormite ancora e riposate ed aggiunge un verbo: apéchei. È una di quelle che vengono chiamate croci degli esegeti. La Vulgata latina traduce con sufficit-è sufficiente e la traduzione della CEI del 2008 le fa eco traducendo basta! Ma questa interpretazione non ha radice nel contesto. Il verbo apécho vuol dire allontanarsi; quindi la traduzione esatta sarebbe la seguente: Voi dormite ancora e riposate; se n’è andato (si è allontanato): viene l’ora: ecco il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Se n’è andato: Dio si è allontanato ed adesso il potere delle tenebre può prendere possesso della vita di Gesù e farne ciò che vuole. Si compie, si realizza così la più temibile delle paure umane e cioè che nella prova non si possa contare più su nessuno, neppure su Dio che si è allontanato ed ha abbandonato la vita dell’uomo. Diciamocelo apertamente: Gesù rimane uno scandalo! Rimane uno scandalo per noi che ci aspettiamo il dio interventista a nostro uso e consumo! Ma in quello scandalo ci siamo tutti e tutte noi e ci accorgiamo di questo ancor più nel tempo della pandemia da CoVid-19. Sì! Preghiamo Dio, ma ci chiediamo dov’è? Lo abbiamo pensato anche noi, ma per i nostri “religiosismi” non abbiamo osato dirlo: Se n’è andato! La grandezza di Gesù è questa! Ha il coraggio di realizzare nel suo cuore e condividere con i suoi amici l’assenza di Dio. Gesù si è fatto nostro compagno anche fino alle contraddizioni più profonde dell’umanità e della sua anima. Ecco perché nella lettera agli Ebrei abbiamo letto: Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio.
Ed, infine, si affaccia sulla scena l’ultima delle paure e fragilità peggiori che un uomo possa provare (vv. 43-46): si accosta Giuda che lo chiama Rabbì e lo bacia più volte. Si realizza il timore del tradimento da parte delle persone più vicine e, per di più, neppure un tradimento a viso aperto, ma viscido, sottile, ammantato di affetto e riverenza. Il potere delle tenebre ha preso il sopravvento se colui che è la verità viene consegnato nelle mani della menzogna, della finzione, della doppiezza. La lacerazione del cuore è piena: i discepoli addormentati, Pietro che promette di non abbandonarlo e lo rinnegherà, il Padre che lo ha lasciato solo ed, infine, l’amico che lo consegna e lo tradisce riempiendolo di baci.
La tragedia è già tutta compiuta; il resto quasi è solo una naturale conseguenza!
Scandagliando questo testo prendiamo consapevolezza che in esso Gesù ci viene mostrato in tutta la sua fragilità umana. Il limite mortalmente umano che ha assunto nell’incarnazione qui lo sperimenta nei suoi accenti più temibili e devastanti. Eppure noi sappiamo che questa fragilità è lo spazio in cui si rivela a noi l’amore di Dio: Gesù si è caricato dei nostri peccati! Lui e lui soltanto li prende su di sé e ci redime, ci crea come creature nuove. Ma questo prodigio di redenzione avviene proprio nel limite e nella fragilità, non nella manifestazione della gloria e del potere. Proprio qui e solo qui si rivela in pienezza il volto d’amore di Dio.
Questa pagina così ci insegna che la fragilità ed il limite non sono una maledizione, anzi! Il nostro bisogno di non essere lasciati soli non è una dipendenza che ci avvilisce, ma è lo spazio beato in cui possiamo costruire rapporti veri, relazioni durature.
Il nostro dover costantemente combattere tra le nostre passioni ed il nostro voler fare la volontà di Dio non è la preannunciata sconfitta della nostra umanità, ma è lo spazio meraviglioso della nostra fedeltà verso di lui e, ancor di più, lo spazio della sua fedeltà verso di noi, perché la frattura l’ha vinta Gesù e per questo a noi non è più imputato alcun male.
Le nostre intime paure non sono il limite che ci paralizza, ma è ciò che rivela a noi stessi, a Dio e agli altri chi veramente siamo e di cosa veramente abbiamo bisogno.
A partire dalla preghiera di Gesù nell’orto non dobbiamo mai più vergognarci di dire queste parole: ho bisogno! Ho bisogno di te, ho bisogno che tu ami, che tu sorrida al mio mattino, che accolga sulle tue gambe il mio capo stanco, che tu raccolga le mie lacrime, che tu ascolti i miei sfoghi. D’ora in avanti possiamo gioire e vantarci di dover dire: ho bisogno!, perché quello sarà il momento in cui veramente saremo uomini e donne fino in fondo.
Signore che non ti seri risparmiato di visitare l'umanità nelle sue più grandi contraddizioni e limiti, ci sentiamo abbandonati! Tu, Gesù, puoi capirci! Stacci accanto. Amen!
Dom Tonino +
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