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Querida Amazonia è l'esortazione post-sinodale di Papa Francesco

La parola del Reverendissimo Padre Abate

dom Antonio Perrella

sull'esortazione di Papa Francesco.


Beati monoculi in terra cæcorum.

Beati quelli che hanno un occhio solo in una terra di ciechi

Considerazioni sull’esortazione apostolica postsinodale «Querida Amazonia» e sull’acceso dibattito sulla questione del celibato sacerdotale e dei “viri probati”


Taranto 13 febbraio 2020


Le riflessioni che voglio proporre riguardano un argomento specifico e determinato del dibattito che si è acceso sulla recente esortazione di papa Francesco. Il documento, di per sé, richiederebbe una lettura decisamente più ampia su tematiche fondamentali ed urgenti, che valgono per l’umanità tutta: la questione ambientale, la necessità che i popoli che si ritengono civilizzati abbiano l’umiltà di reimparare qualcosa dai popoli indigeni, la centralità del ben-vivere sul ben-essere, l’inculturazione della fede e delle strutture ecclesiali. Questo documento, come molti altri, è finito nel tritacarne delle polarizzazioni, tipiche di dibattiti poco intelligenti, e di conseguenza rischia di non essere compreso nella sua portata rivoluzionaria. Chissà, forse, è proprio quello che alcuni vogliono esattamente fare.


Sin da quando è stato pubblicato l’Instrumentum Laboris del Sinodo sull’Amazzonia l’attenzione degli interessati si è concentrata sulla questione dei cosiddetti viri probati e sull’eventuale diaconato femminile. Dopo che il vescovo di Roma ha riferito che la commissione, da lui voluta per lo studio del diaconato alle donne, non era riuscita ad addivenire a risultati convincenti, tutta l’attenzione è rimasta concentrata sulla questione dei viri probati, che poi è diventata la questione del celibato dei preti.


Ora che finalmente è uscita l’esortazione apostolica post-sinodale Querida Amazonia i cori di vittoria ed i lamenti funebri si sono nuovamente alzati attorno alla questione dei viri probati e del celibato sacerdotale.


È davvero sconfortante la miopia con cui molti si sono approcciati a questa tematica. Miopi molti teologi, nonché vescovi e cardinali, miope l’opinione pubblica e la stampa. Ma davvero qualcuno poteva pensare realisticamente che un Sinodo particolare, su una regione specifica del mondo, con un numero di cattolici romani neppure estremamente significativo, potesse divenire il luogo per prendere una decisione che avrebbe poi inevitabilmente investito tutta la chiesa di Roma? Erano davvero convinti che si sarebbe potuti procedere in questo modo? Sarebbe stato sconcertante se un papa avesse strumentalizzato una situazione specifica e limitata, per inserire quello che sarebbe apparso come un “cavallo di Troia” (espressione realmente usata da qualcuno) per far passare una decisione già presa. Così, tanto i detrattori a tutti i costi tanto i laudatori idolatranti di papa Francesco hanno dimostrato o di avere poca considerazione reale di lui o di essere annebbiati dalla loro ideologia. È evidente che la questione del celibato potrà essere discussa solo in un’assise davvero rappresentativa della chiesa cattolica tutta: o un Sinodo Generale ad hoc o, come avrebbe voluto il cardinal Martini, in un Concilio, magari più frequentemente convocato, proprio perché i mutamenti culturali oggi sono velocizzati in modo esponenziale rispetto al passato.


Appare davvero sconcertante, però, che questo sguardo miope continui anche dopo la pubblicazione dell’esortazione. C’è chi canta vittoria e c’è chi piange delusione. Tutto quel Sinodo e tutta l’esortazione post-sinodale sono diventati quell’unica questione. In questo modo, questi commentatori ciechi ed annebbiati non si sono accorti che il testo, uscito dalla penna del vescovo di Roma, è potenzialmente ancora più rivoluzionario – per la chiesa cattolica romana – di quanto sarebbe stata l’accettazione dei viri probati o l’eventuale abolizione dell’obbligo del celibato.


Se questi ciechi urlanti avranno la bontà di zittirsi un attimo, proviamo a spiegarglielo. I numeri che ci riguardano più da vicino sono i nn. 85-90, che stanno sotto il titolo di inculturazione della ministerialità.


Già di per sé il titolo dovrebbe far drizzare le orecchie a chi oggi canta vittoria, perché – a suo dire – la tradizione sarebbe salva. Per una chiesa, come quella romana, la cui struttura è fortemente gerarchica e basata sul ministero degli ordinati in sacris, parlare di inculturazione della ministerialità vuol dire che la struttura stessa della chiesa deve fare i conti con la cultura, ovvero con le mutazioni culturali e sociali. Ciò vuol dire che la chiesa non dovrebbe essere preoccupata, anzitutto, di mantenere immobili le sue strutture, ma dovrebbe occuparsi di adattarle continuamente. Già basta questo per capire che la prospettiva in cui l’esortazione papale pone i cattolici romani è quella di un cambio di mentalità che ponga la comunità ecclesiale in uno stato di perenne riforma delle sue strutture: ecclesia semper reformanda, direbbero i nostri fratelli luterani.


Andiamo, ora, più da vicino al contenuto delle riflessioni e delle proposte del papa. Secondo la prospettiva specifica della chiesa di Roma, egli pone il centro dell’argomentazione sulla necessità dell’eucaristia per l’esistenza della chiesa stessa. Naturalmente questa esigenza intrinseca al cattolicesimo si lega anche alla necessità del ministero ordinato per la celebrazione dell’eucaristia stessa. E fin qui tutto fila liscio nella teologia e nella prassi cattoliche.


Come suol dirsi, nessuna nuova, buona nuova! Peccato, però, che a furia di cercare le espressioni «viri probati» e «celibato sacerdotale» non si sono accorti della “bomba atomica” che il Papa ha lanciato; e chissà se ne accorgeranno in futuro. Cito testualmente i passaggi salienti:


n. 86. Occorre far sì che la ministerialità si configuri in modo tale da essere al servizio di una maggiore frequenza della celebrazione dell’Eucaristia, anche nelle comunità più remote e nascoste.


n. 87. Perciò è importante determinare ciò che è più specifico del sacerdote, ciò che non può essere delegato. La risposta consiste nel sacramento dell’Ordine sacro, che lo configura a Cristo sacerdote. E la prima conclusione è che tale carattere esclusivo ricevuto nell’Ordine abilita lui solo a presiedere l’Eucaristia.


n. 88. Ci sono altre parole che solo lui può pronunciare: «Io ti assolvo dai tuoi peccati». Perché il perdono sacramentale è al servizio di una degna celebrazione eucaristica. In questi due Sacramenti c’è il cuore della sua identità esclusiva.


Ciò che Papa Francesco sta affermando è che, sempre nella prospettiva cattolica, i due sacramenti che spettano al presbitero in modo esclusivo sono la celebrazione dell’eucaristia e della riconciliazione. Questi due sacramenti sono la sua identità esclusiva.


Con ciò apre straordinariamente al fatto che tutti gli altri atti di culto, sacramentali e di guida della comunità possono essere serenamente e tranquillamente affidati ad una più ampia ministerialità laicale. Ed anche qui le parole che usa sono inequivocabili e contro tendenza nell’universo linguistico cattolico: “I laici potranno annunciare la Parola, insegnare, organizzare le loro comunità, celebrare alcuni Sacramenti, cercare varie espressioni per la pietà popolare e sviluppare i molteplici doni che lo Spirito riversa su di loro” (n. 89).


Altro che nessuna nuova! Qui è tutto nuovo perché finalmente si sta dando seguito a ciò che il Concilio Vaticano II aveva detto riguardo ai fedeli battezzati nel capitolo II della Lumen Gentium e che poi aveva trovato una codificazione conseguente nel libro II del Codice di Diritto Canonico del 1983. Si tratta dei cosiddetti tria munera: la funzione di insegnare, santificare e governare. Nella dottrina cattolica romana (almeno sulla carta) era chiaramente detto che i battezzati non ordinati hanno il diritto e dovere nativo di esercitare le loro funzioni sacerdotali, profetiche e regali, derivanti dal battesimo. Purtroppo nella prassi questo era rimasto finora inespresso, anzi pressoché impedito. E guai se qualche fedele osava vivere il Concilio ed il Diritto Canonico: doveva aspettarsi lo strale di qualche vescovo! Vi immaginate un battezzato (non diacono o non prete) nella chiesa di Roma che prova a benedire? “Abuso!” avrebbero gridato! E non conoscono neppure la loro storia, perché nella Abbazie, gli Abati e le Abbadesse (che quasi mai erano ordinati in sacris) sempre hanno impartito benedizioni, hanno accolto voti religiosi ed hanno presieduto celebrazioni liturgiche proprie.


Nel Diritto Canonico della Chiesa di Roma si distingue tra potestas (potestà) e facultas (facoltà). Di solito si era legato questo linguaggio ai fedeli ordinati in sacris. Per esempio, in ragione dell’ordinazione presbiterale un presbitero aveva la potestas di rimettere i peccati, ma per esercitarla necessitava che il vescovo gli conferisse anche la facultas. Ora, se il Papa dice che i battezzati non ordinati possono celebrare alcuni sacramenti, sta in fondo affermando che essi hanno in sé, in ragione del loro battesimo e del sacerdozio battesimale, la potestas di farlo e che la chiesa dovrà solo dare la facultas. Da questo discorso non si scappa: nel costrutto teologico e normativo della chiesa cattolica romana la facultas può essere data solo a chi ha la potestas, altrimenti l’atto è inefficace. Oggi il Papa dice che un laico può celebrare, annunciare, insegnare, organizzare la comunità; quindi, vuol dire, ex sese, che egli ha in ragione del proprio battesimo la potestas di farlo.


Questa è una vera rivoluzione nella chiesa cattolica romana! Ed è l’unica cura veramente efficace e necessaria per combattere il clericalismo cattolico. Né la questione si risolve, come qualcuno spaventato ventila, facendo un “parroco” laico o una “parroca” laica, perché semplicemente nel Nuovo Testamento la guida monocratica (o meglio monarchica) delle comunità non è mai esistita. Lo stesso episcopato, nella chiesa delle origini, non dava il diritto di governare sul gregge in modo assolutistico. Bisognerà aspettare Ignazio di Antiochia perché questa forma di conduzione delle comunità venga teorizzata. Agli inizi, come tra poco mostreremo attraverso un esperto cattolico del Nuovo Testamento, la responsabilità di guida delle comunità era condivisa, collegiale, sinodale.


Spiace leggere, poi, chi si lamenta che non sia stata prevista una più ampia ministerialità femminile. Dopo il documento Ordinatio sacerdotalis di Giovanni Paolo II (1994), - Lettera Apostolica definitive tenenda - un Papa cattolico non potrà più tornare indietro, salvo la necessità di rivedere internamente (e forse interamente) la questione della infallibilità del Papa. Inoltre, è evidente che, quando l’esortazione postsinodale Querida Amazonia parla di laici, non fa alcuna distinzione tra uomini e donne. Ciò che finora è stato prerogativa del clero ora può tornare ad essere, come sempre era stato nella chiesa delle origini, dono e servizio di tutti, uomini e donne indistintamente. Questo era il massimo sperabile dalla chiesa cattolica romana, per come stanno le cose. E non è giusto né intelligente cassarlo come un’occasione persa o un’apertura insignificante. Anche dal punto di vista ecumenico si tratta di un significativo passo in avanti. Avvicinandosi le prassi ecclesiali, si avvicinano le Chiese. La Chiesa di Roma torna a valorizzare il ruolo dei battezzati ed il loro sacerdozio comune, apre alla loro ministerialità liturgica, senza far distinzione di uomo e donna. Questi appaiono come semi di speranza di un dialogo più aperto e fluido con quelle Chiese cristiane che tutto ciò già lo vivono da tempo. Minimizzare tutto ciò sarebbe essere come quei profeti di sventura, contro i quali – all’apertura del Vaticano II – tuonò Giovanni XXIII.


Vorrei, ora, chiudere con due ulteriori riflessioni.


Anzitutto uno sguardo ai testi neotestamentari, che sono per tutti i cristiani vincolanti. Un grande esegeta cattolico, esperto del Nuovo Testamento, può aiutarci a comprendere ciò di cui abbiamo fin qui discusso. Il Nuovo Testamento non conosce affatto la distinzione tra sacerdote e laico, anzi queste parole in quei testi non esistono affatto: «La diversificazione laico-sacerdote […] non compare nei testi del Nuovo Testamento, che sono gli scritti cristiani più antichi ed anche normativi. Là invece si dà una paritaria convergenza nel costruire tutti insieme una nuova realtà ecclesiale, cioè comunitaria, i cui membri comprendono indistintamente i ministri ecclesiali (mai chiamati sacerdoti) insieme a tutti gli altri membri della comunità (mai chiamati laici)» (R. Penna, Un solo corpo. Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle orgini, Carocci Editore, Roma 2020).


Infine, a latere alla questione amazzonica, rimane da prendere atto che un dibattito si è mosso. In tutta questa vicenda, emerge che il cosiddetto sensus fidei del popolo di Dio guarda al celibato dei presbiteri come ad una questione su cui dover discutere, discernere e decidere. Il Sinodo delle Chiese Cattoliche della Germania lo mostra in modo evidente. Se una considerevole parte del mondo cattolico oggi si interroga su questo dato, allora evidentemente sta giungendo l’ora che chi deve decidere attui le procedure e le modalità previste perché se ne parli. Ciò che era apparso necessario in un determinato contesto storico, può non esserlo più in un contesto del tutto differente. Questo dato positivo delle vicende legate al Sinodo dell’Amazzonia merita di essere ripreso e di essere fatto oggetto di una più matura, serena ed ampia discussione aperta a tutto il corpo ecclesiale.


dom Antonio Perrella +



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