"Il consacrato è il canto della nostalgia e della memoria; le sue ore sono le note di un canto di amore a Dio, che ci mostra la bellezza della vita umana; i suoi giorni sono gli accordi di un’armonia che ci coinvolge nel saper tenere assieme il cielo e la terra, Dio e l’uomo, le opere e la fede, le azioni e la contemplazione; i suoi anni sono l’inno gioioso – e talvolta travagliato – di chi si apre simultaneamente e totalmente a Dio e agli altri. " alcune delle parole tratte dall'omelia dell'Abate dom Tonino .
Mercoledì 2 febbraio 2022 alle ore 19:30, presso la Cappella della Casa Apostolica della Christiana Fraternitas si è svolta la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per la festa della "Presentazione di Gesù al tempio" ai più conosciuta come la "Candelora". La preghiera è stata trasmessa in diretta Facebook per raggiungere quanti desideravano condividere con la Famiglia Monastica l'attesa del Natale.
Omelia del Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella
in occasione della Celebrazione della Parola
per la festa della "Presentazione di Gesù al tempio"
e la giornata mondiale della vita consacrata 2022
Testo di riferimento Lc 2, 22-40
Carissimi fratelli e sorelle, cari Amici ed Amiche!
Secondo le norme della purità rituale del libro del Levitico e della tradizione di Israele (cf Lv 12,1-8), quaranta giorni dopo il parto, la donna che aveva partorito doveva presentarsi al tempio a presentare l’offerta per il suo sacrificio. Se il partorito era il primogenito maschio, andava poi riscattato, perché era proprietà di Dio.
La famiglia di Nazareth si attiene a questa norma religiosa e compie il suo dovere. Essa, infatti, vive la sua vita quotidiana come vita di fede, così come si esprimeva in quel tempo. La famiglia di Gesù, Giuseppe e Maria ci mostra come, per chi prende sul serio Dio, non esiste una vita quotidiana accanto alla quale si affianca la vita di fede, semplicemente la vita quotidiana è vita di fede, vita nella fede, vita in Dio. Questo è il fulcro della vita spirituale: la piena identificazione di se stessi e di tutta la propria realtà con la relazione a Dio. Solo in questo modo possiamo comprendere per quale motivo il 2 febbraio – festa della purificazione di Maria e della presentazione di Gesù al tempio – è anche la giornata della vita consacrata. I tre di Nazareth, infatti, ci mostrano il nucleo stesso della vita consacrata: la mia vita è la mia relazione con Dio e la relazione con Dio è la relazione determinante il senso della mia vita, è la relazione che dà senso a tutte le altre relazioni (con me stesso, con gli altri, con gli affetti, con le cose, con il mio tempo).
Celebrare questa festa, allora, vuol dire ritrovare il centro unificatore di tutta la nostra esistenza, che spesso appare schizofrenica. Viviamo come schegge impazzite, che si agitano tra mille cose, senza che riusciamo a dare un senso unitario e unificatore. La vita spirituale, la vita di ricerca di Dio (Quærere Deum), invece, è una vita che non si dispensa dalle incombenze, dagli impegni, dai doveri, ma li assume con gioia e con equilibrio, perché sa dare a tutto lo spazio necessario, proprio perché ha in Dio il centro ed il vertice unificante da cui tutto discende. Quando ci sembra di essere sbattuti, come canne al vento, dobbiamo sempre domandarci non se realmente abbiamo troppe cose da fare, quanto piuttosto dobbiamo chiederci se realmente Dio è ancora il centro della nostra vita. Se smarriamo Dio, smarriamo il senso di tutto e non riusciamo più ad orientarci bene neppure tra le incombenze di ogni giorno.
Nel brano del Vangelo che abbiamo ascoltato campeggia la figura di Simeone, questo vegliardo, vigile, che attende la venuta del Messia. Quando finalmente può stringere Gesù tra le sue braccia e vedere con i propri occhi l’Atteso, che è venuto, egli innalza il suo cantico di gioia. Quel cantico – conosciuto con il nome di Nunc dimittis – contiene due frasi sulle quali vorrei brevemente riflettere assieme a voi.
La prima frase coincide con l’incipit del cantico: «Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace». Simeone chiede a Dio di poter finalmente morire, perché ha raggiunto la pienezza e lo scopo della sua vita, ha raggiunto la fonte della sua pace piena. L’incontro con Gesù è il senso della sua vita, dà pienezza alla sua vita. Era un vegliardo, di dichiarata fede e stimato da tutti. Questa stima generalizzata è dimostrata dal fatto che egli può liberamente entrare nel tempio e – pur non avendo alcun ruolo – intromettersi nel rito dell’offerta e prendere parola e pronunciare una formula di benedizione. Se non fosse stato da tutti riconosciuto come uomo pio e mosso dallo Spirito Santo, allora il sacerdote incaricato lo avrebbe cacciato in malo modo. Bene, quest’uomo che aveva raggiunto un così alto stato di considerazione pubblica non dice che la sua vita è piena e felice perché è stata lunga, né perché è circondata dalla stima di tutti, né per qualsiasi altro traguardo umano. Nulla di tutto questo! La sua vita è piena e felice – tanto da potersi concludere – solo ed unicamente perché ha visto Gesù. Quell’unico istante dell’incontro con Gesù racchiude in sé il senso di tutti gli anni passati, che assumono il loro significato proprio nel momento in cui essi raggiungono il loro scopo: vedere il Signore!
Poniamoci una domanda seria e senza maschere, guardandoci sinceramente nel profondo del cuore: possiamo dire di noi stessi la stessa cosa? Anche per noi l’incontro e la relazione con Gesù dà senso a tutti gli istanti della nostra vita? Se ci guardiamo indietro e ci domandiamo: “cosa ha dato senso a tutti i giorni della mia esistenza sinora?” e “cosa dà senso alle mie attese per il domani?”, qual è la vera risposta che siamo capaci di darci? Anzi, qual è la vera risposta che saremmo onestamente costretti a darci?
La seconda frase, che risuona nel Nunc dimittis, e su cui vorrei riflettere è questa: luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo, Israele. Con queste parole Simeone saluta Gesù e ne svela la missione. È lui che deve dare la luce ai popoli pagani e deve essere la gloria del popolo eletto.
Dobbiamo comprendere bene queste due espressioni e la relazione che esiste tra di loro nel mondo biblico, per capirne fino in fondo il vero significato.
Possiamo dire che nella Scrittura esistono almeno due strati di rapporto tra queste espressioni.
Il primo strato è quello in cui esiste un rapporto di correlazione. Israele, popolo amato e scelto da Dio, è eletto sulla terra come strumento perché Dio sia conosciuto da tutti i popoli. La elezione di un solo popolo era come un passo propedeutico, pedagogico alla comprensione dell’amore di Dio verso tutti i popoli, verso tutti gli uomini e le donne. Voi, forse, mi domanderete: ma perché era necessario un passaggio propedeutico? Guardate: per noi oggi è facile dire che Dio è amore e che Dio ama tutti. Ma non è sempre stato così. La concezione antica della divinità guardava a Dio come ad un Motore immobile, ad un Essere supremo senza passioni (impassibile). Dio crea il mondo ma non lo ama, perché l’amore è una passione e la divinità non può subire i mutamenti della passione. Dio, così, si manifesta ad un popolo, elegge un popolo, perché il mondo comprenda che l’idea che aveva di Dio era sbagliata. Dio si lega, Dio ama, Dio accoglie i patimenti dell’amore. Ed Israele sapeva di essere lo strumento affinché questo amore giungesse a tutti. Lo attesta l’alleanza di Abramo in Gen 12,3: in te saranno benedette tutte le famiglie della terra; lo ricorderà il profeta Isaia (49,6): io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la salvezza fino alle estremità della terra.
Ad un certo punto il rapporto di correlazione viene deturpato in un rapporto di contrapposizione. Le guerre e le difficoltà di Israele lo inducono a pensare che la sua elezione lo erga al di sopra degli altri popoli e lo separi dai popoli pagani. Così la gloria di Israele diventa la vittoria sui nemici, la linea di demarcazione e di inviolabile separazione dal resto dell’umanità.
Un esempio eclatante lo abbiamo nel libro dei Salmi. Essi sono poetiche composizioni di preghiere, che coprono un vasto arco temporale nella storia di Israele. In realtà non si tratta di un libro unico e unitario e dentro di esso si possono scoprire come dei libelli (libretti più piccoli) che tengono assieme dei Salmi composti in una stessa epoca, che quindi fanno riferimento ad un contesto storico, sociale e religioso ben preciso. I Salmi dal 90 al 106 costituiscono uno di questi libretti e vengono indicati come Salmi del Regno. Essi corrispondono al periodo persiano ed ellenistico della storia di Israele e alla costruzione del secondo tempio di Gerusalemme. Tornati dalla deportazione gli Israeliti, sebbene ancora dipendenti dai persiani, possono ricostruire le mura della città ed il tempio. In qualche modo si riappropriano della terra che era stata loro sottratta. Rifiorisce un orgoglio identitario e nazionalista, che va di pari passo con quello religioso. Così nella preghiera si chiede che Dio manifesta la sua gloria (cioè la sua forza) sconfiggendo i nemici di Israele. La gloria di Israele viene a coincidere con la sconfitta e la caduta dei nemici, con le tenebre degli altri popoli.
Così se prima gloria di Israele e luce delle genti erano uniti, adesso finiscono con il contrapporsi.
Il nostro caro e buon Simeone recupera l’unità originaria: Gesù sarà assieme la gloria del popolo benedetto e la luce di tutti i popoli, perché egli verrà a fare dei due un popolo solo, come più tardi dirà l’apostolo Paolo (Ef 2, 14). Nel suo cantico Simeone compie una inversione di schema e di mentalità: Israele non deve più ritenersi separato, ma unito a tutti i popoli.
Ascoltare queste parole di Simeone in questo giorno, non può che avere un significato per noi: anche la vita consacrata per lungo tempo è stata interpretata come vita staccata dal mondo. Il monaco era un uomo separato dagli altri, perché sacro a Dio. Più il monaco appariva separato, tanto più sembrava unito a Dio. Così abbiamo assistito anche alla vita eremitica (un uomo solo), alla vita reclusa (uomini e donne che si sono fatti murare in celle, che comunicano con l’esterno attraverso una ruota, per il solo passaggio dei cibi e dei medicinali), ed anche al fenomeno degli stiliti, uomini che vivevano su una stele (una colonna) separata ed alzata da terra per non avere contatto con alcuno.
Oggi noi, invece, comprendiamo che la vita consacrata è vita nel mondo, non del mondo ma nel mondo. Il consacrato è un uomo o una donna che – immerso nelle cose di tutti i giorni – non cambia le cose da fare, ma il modo con cui le fa, la ragione ultima e unificante della sua vita.
Occorre coraggio profetico – che noi abbiamo cercato di avere e di realizzare – per capire che una consacrazione che ti separa, che ti rinchiude in un recinto protetto, in un abito che ti distingue, in un linguaggio che ti esclude, perché oramai incomprensibile, non è certo la vita consacrata di cui il mondo ha bisogno oggi, per poter vedere la luce di Gesù.
La vita consacrata, oggi, non può che essere una vita pienamente spirituale e dedicata indivisamente a Gesù, ma nei luoghi e nelle dinamiche della vita di tutti. Altrimenti si corre il rischio di rimanere in quella visione dei Salmi, schiavi di un certo mondo veterotestamentario, che poco ha a che fare con la novità di Gesù. Inoltre, è urgente che si comprenda che la vita consacrata è di per sé carismatica, è cioè un movimento libero dello Spirito Santo che suscita a uomini e donne forme sempre nuove di incarnare la piena consacrazione a Dio nei mutamenti del mondo e della cultura e dei bisogni sociali. Non ha senso ingabbiare il carisma in norme stringenti che mortificano la effervescenza carismatica. Questa smania di controllo altrimenti segnerà per sempre la fine della vita consacrata o, comunque, lo svuotamento del suo nucleo essenziale, che è la risposta libera ad una libera chiamata di Dio, il cui Spirito soffia dove vuole e come vuole (cf Gv 3, 8).
Il consacrato è solo la profezia della vita portata da Gesù a tutti. Fare di Gesù il centro della propria esistenza non è qualcosa che riguarda i monaci e le monache; riguarda tutti, perché tutti siamo consacrati nel battesimo. Il consacrato esiste solo per far sorgere in tutti la nostalgia della umanità nuova e vera che Gesù ci ha donato. Egli è il modello a cui guardare, per comprendere che è possibile vivere oggi, come in tutte le epoche, la umanità di Gesù, la umanità secondo il modello di Gesù.
Per questo non si può e non si deve guardare al consacrato come ad una sorta di privilegiato, ad una persona sacra in cui si concentrerebbero le benedizioni di Dio, come se agli altri non giungessero. Non si deve guardare al consacrato come ad uno che è stato investito dal Paradiso e come la porta di accesso alle cose di Dio. Anzi, quando la vita consacrata viene presentata così, bisognerebbe scappare a gambe levate. Il consacrato è il canto della nostalgia e della memoria; le sue ore sono le note di un canto di amore a Dio, che ci mostra la bellezza della vita umana; i suoi giorni sono gli accordi di un’armonia che ci coinvolge nel saper tenere assieme il cielo e la terra, Dio e l’uomo, le opere e la fede, le azioni e la contemplazione; i suoi anni sono l’inno gioioso – e talvolta travagliato – di chi si apre simultaneamente e totalmente a Dio e agli altri.
Cari fratelli e sorelle, attingiamo di nuovo con gioia a questa sobria ebbrezza dello Spirito (Ambrogio) e ricordiamoci che staremo veramente ed efficacemente nel mondo solo quando Gesù sarà davvero il centro unificante della nostra vita; ma ricordiamoci anche che Gesù sarà davvero il senso della nostra vita, quando noi impareremo ad abitare fino in fondo questo mondo in cui ci ha chiamati ad essere la sua gloria e la sua luce per tutti. Amen.
dom Tonino +
Qui sotto il video della Celebrazione
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