"Silenzio e presenza di Dio (shekinah) sono legati tra di loro: tace, chi vive alla presenza di Dio! Chi sperimenta che ogni singolo istante della sua esistenza sta davanti a Dio non ha bisogno di inutili parole". Benedetto da Norcia e il Capitolo della Regola De taciturintate oggetto di approfondimento nell'omelia del Padre Abate, dom Antonio Perrella, dell'11 luglio 2021, in occasione della Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per giornata di memoria di Benedetto da Norcia.
Benedetto da Norcia ha inteso e trasmesso un monachesimo dove il monaco è in continua ricerca e mai nel suo comprendere l'esperienza spirituale può pensarla statica bensì sempre dinamica. Per questo motivo la Comunità della Christiana Fraternitas ha deciso di consolidare la tradizione di passare la giornata in sua memoria "fuori porta" e ricordare a se stessa che il cammino monastico o del cristiano è sempre una strada e mai una meta.
La giornata si è svolta in Basilicata presso il Parco Letterario di Carlo Levi e nelle vicinanze. La Famiglia Monastica ha vissuto la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola con la Commemorazione della Cena del Signore ospitata in un Santuario dedicato alla Madre di Gesù.
La giornata "fuori porta" si è conclusa con la preghiera dei secondi Vespri della solennità. Qui sotto l'omelia integrale del Padre Abate dom Antonio Perrella e un piccolo reportage fotografico.
Testo integrale del sermone
del Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
Carissimi Fratelli e Sorelle, cari Amici ed amiche!
La solennità di Benedetto da Norcia, che riconosciamo come padre della nostra Regola e come anche ispiratore del nostro carisma, ci permette di contemplare le opere meravigliose che Dio ha compiuto in questo suo servo fedele, la cui fecondità spirituale ha irrigato le vene della storia, ha attraversato i secoli ed è giunta fino a noi.
Nella prima lettura che abbiamo ascoltato il profeta ci ha ricordato il senso, l’essenza della nostra vita monastica: quaerere Deum – cercare Dio – Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino! Lo abbiamo detto più volte, eppure non è mai abbastanza! Siamo monaci, perché instancabili cercatori di Dio! Lo cerchiamo nella Parola, nella contemplazione; lo cerchiamo nelle gioie e nelle prove della vita; lo cerchiamo in tutto ciò che ci circonda; lo cerchiamo nei segni della bellezza naturale; lo cerchiamo nel corso della storia, anche in quel groviglio di vie e viuzze, che spesso a noi appaiono ingarbugliate, ma che nella luce della sua grazia e della sua provvidenza hanno sempre un senso; lo cerchiamo nelle persone e nelle loro vite, nei loro volti e nei loro occhi; lo cerchiamo in noi stessi. Come ci ricorda il nostro santo padre Benedetto: Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto (Regola, cap. 19).
Sempre il profeta ci ricorda anche che tra Dio e noi c’è poi una distanza, un’assoluta differenza: Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri. Questa distanza e differenza non devono farci paura; non sono l’allontanamento di Dio da noi; anzi! Tutt’altro! I filosofi cristiani la chiamano la differenza ontologica: Dio non è noi, non è la somma del tutto; presente in tutto ed in tutti, è però irriducibile a qualsiasi sua creatura, ma anche all’insieme delle sue creature. Mi spiego meglio: Dio è tutto, ed in tutto, ma non è semplicemente il Tutto, come un cumulo magmatico di cose. Dio è sempre majus, di più, oltre (Anselmo d’Aosta).
È solo in forza di questa distanza che possiamo allora gioire della sua presenza: sebbene totalmente Altro rispetto a noi, si degna costantemente di stare con noi, di rimanere in noi. Questa distanza e differenza di Dio non è un vuoto, non è una separazione; è invece lo spazio che egli concede per cercarlo e desiderarlo; è lo spazio che Egli ci lascia, perché noi prendiamo coscienza di noi stessi e del nostro bisogno di Lui, così che solo liberamente, con un atto di scelta, Gli andiamo incontro. La distanza di Dio da noi è il beatifico spazio che Egli ci dona per poterLo incontrare. Ma per fare questo dobbiamo presupporre come necessario il fatto che occorre che ognuno riconosca nel proprio cuore che solo Dio è il suo vero tesoro nascosto, la perla preziosa della propria vita, il porro unum necessarium (Lc 10,42), l’unica cosa veramente necessaria.
Come, però, il monaco può incontrare Dio; e come può egli riconoscere Dio come l’unica cosa veramente necessaria, in un mondo così vorticoso che non sa discernere tra utile ed inutile, e neppure tra utile e necessario?
Qual è lo strumento che maggiormente ci viene messo a disposizione in particolare modo nella nostra vita consacrata? Lo strumento privilegiato è il silenzio! Sì, questo sconosciuto, così tenuto a distanza e forse persino odiato, perché ci mette a nudo davanti a noi stessi. Il silenzio!
Il santo padre Benedetto lo richiama a più riprese nella Regola e vi dedica un intero capitolo – il sesto – significativamente titolato: de taciturnitate. Si tratta di un concetto non facilmente traducibile in italiano: non si tratta solo del fatto del silenzio, né servono circonlocuzioni come quelle di chi traduce l’amore del silenzio. In italiano conosciamo l’aggettivo (talvolta usato persino come dispregiativo) taciturno; ma non conosciamo abbastanza il sostantivo taciturnità, che esiste ma non è affatto comunemente usato. Si tratta di un’attitudine, ovvero di uno stile che manifesta uno stato interiore: la taciturnità è quell’atteggiamento di ascolto che nasce dal silenzio e matura nel silenzio.
La taciturnità è azione al tempo stesso attiva e passiva: attiva, perché deve essere coltivata, custodita, maturata; passiva, perché apre l’animo ed il cuore a ricevere, ad accogliere. In questo – potremmo dire – essa corrisponde alla prima delle beatitudini (beati i poveri in spirito), perché il povero di Jahvè – che pone la sua ricchezza e la sua sicurezza solo in Dio – è sempre disposto ad accogliere tutto ciò che viene da Dio. La lingua che parla troppo manifesta un cuore intasato e, come tale, incapace di accogliere; la lingua invece che sa tacere manifesta un cuore desideroso di essere riempito da ciò che conta veramente.
È per questo motivo che la letteratura profetica e sapienziale, a cui Benedetto attinge a piene mani nella stesura della Regola, lega il silenzio alla presenza di Dio.
Di questa sacra letteratura vorrei citare solo due testi emblematici.
Il primo è il noto episodio di Elia in 1Re 19,9-16. Il profeta è sull’Oreb, in un momento delicato e burrascoso della sua vita e del suo ministero. Ha bisogno che il Signore manifesti la sua presenza e gli parli. Vi sono diversi accadimenti grandiosi, ma Elia riconosce la presenza di Dio in una sola manifestazione, che è stata tradotta in diversi modi: il momorìo di un vento leggero (CEI 1974), un lieve sussurro (TILC), il sussurro di una brezza leggera (CEI 2008). In verità nel testo non tradotto, le tre parole ebraiche del v. 12 sono: qôl demamah daqqah, che di per sé significano una voce di silenzio sottile. Il testo masoretico non si accontenta di dire che Dio parla, fa udire la sua voce nel silenzio, ma addirittura lo definisce sottile, quasi a dire un silenzio che riempie e avvolge ogni cosa. In italiano dovremmo tradurre una voce di silenzio silenzioso. E questo ci dà l’idea di quanto profondo doveva essere quel silenzio a cui il testo fa riferimento. Quanto profondo deve essere il silenzio cui conquistare per trovare Dio.
L’altro testo, sempre della tradizione profetica, è tratto dal minuscolo libro di Sofonia. Nel versetto 7 del primo capitolo, appare un imperativo: silete – fate silenzio – tacete, e ne viene espresso il motivo: alla presenza del Signore – perché siete davanti al Signore. Qui, con Sofonia ci troviamo in un contesto cultuale: Jahvè, disgustato dalla idolatria del suo popolo, prepara Lui stesso un sacrificio, un culto santo: dinanzi alla sua presenza tutti devono stare in silenzio.
Così dominante sarà il tema del silenzio alla presenza di Dio che arriverà sino ad Apocalisse (cf 8,1): all’apertura dell’ultimo sigillo, quando il mistero di Dio è del tutto rivelato, cielo e terra non possono fare altro che tacere.
Silenzio e presenza di Dio (shekinah) sono legati tra di loro: tace, chi vive alla presenza di Dio! Chi sperimenta che ogni singolo istante della sua esistenza sta davanti a Dio non ha bisogno di inutili parole.
Ed è solo alla luce di questa sapienza biblica che si può comprendere l’insegnamento della Regola sul silenzio. Benedetto ci ricorda di tacere certamente sulle cose inutili, ma persino - pensate - su quelle utili, buone e sante. Il silenzio sulle opere e sulle cose sante è frutto di umiltà, perché si corre il rischio di essere tentati nella vanità per i nostri bei discorsi su Dio, delle descrizioni magniloquenti delle nostre opere buone quando compiute. Così si parla di cose buone, ma l’animo delle parole cede all’arroganza e all’orgoglio. Ovviamente ci troviamo dinanzi ad una di quelle prescrizioni che risentono del tempo in cui sono state scritte; e, tuttavia, esse – pur contestualizzate – ci mettono davanti ad una possibile verità. Nel mondo della globalizzazione e della comunicazione nevrotica di tutto, in cui è smarrita la linea di demarcazione tra privato e pubblico, anche il mondo della fede corre il rischio di cedere alla tentazione della esteriorizzazione: tutto viene raccontato via web, tutto viene narrato on-demand. C’è, però, da domandarsi se tutto ciò corrisponda davvero ad una esigenza di evangelizzazione legata al tempo presente, o se non si corra anche il rischio di far diventare la fede uno spettacolo e le opere buone uno spot pubblicitario. La sovraesposizione mediatica può far correre il rischio di stare molto alla presenza del mondo, con un profluvio di parole, e molto poco alla presenza di Dio, con un silenzio abitato di ascolto.
Benedetto ci ricorda che «se parlare e insegnare è compito del maestro, il dovere del discepolo è tacere ed ascoltare». Sta tutta qui la regola aurea per verificare come comprendiamo noi stessi a questa massima: se ci riconosciamo come discepoli, amiamo il silenzio e l’ascolto; se presumiamo di essere maestri del mondo intero, mettiamo parola su tutto, anche su ciò che di per sé non ci compete, non riguarda.
Miei cari fratelli e sorelle, il silenzio è un’arte da imparare. Ed è difficile, perché quest’arte, da un lato, ci scarnifica, e dall’altro, ci ricostruisce. Come bene ha spiegato la sapienza orientale di matrice buddista, il silenzio e l’interiorità ci spogliano del nostro “io artificiale”, di quello che abbiamo costruito con le nostre relazioni sociali, ovvero l’immagine che di noi stessi amiamo dare, ma che spesso non corrisponde al nostro vero io. Avvertiamo tutti una frattura tra ciò che siamo in noi e ciò che tentiamo di essere dinanzi agli altri. Il silenzio erode quell’immagine, la scarnifica, ci mette davanti al nostro vero io. E questo ci fa paura, perché siamo troppo abituati a dare peso e forza non a ciò che siamo ma a ciò che gli altri pensano di noi e a ciò che noi vogliamo che gli altri pensino di noi. Lasciarci scarnificare dal silenzio, per stare davanti a Dio e a noi stessi nella verità, fa male, ma ci fortifica, perché ci rende liberi. I castelli ovattati di immagine di noi stessi cadono nel silenzio ed il frastuono delle macerie ci impressiona e ci spaventa, ma alla fine gustiamo di nuovo l’aria fresca della libertà e della verità, della vita! Della libertà di essere noi stessi e della verità di essere amati così come siamo, di una vita piena che sa lasciarsi accompagnare dalla Grazia.
Signore, tu che per sola tua Grazia hai dato a Benedetto da Norcia il coraggio, l’ardore, la costanza, la saggezza, la disponibilità, e hai chiamato anche noi a seguirti sul sentiero della sua testimonianza donaci di scoprire e abitare quella taciturnità dove ti celi Tu, unico e sommo bene, sacturigine di libertà, felicità, verità e vita piena. Amen.
Dom Tonino +
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