Il 24 maggio 2019, presso la Casa di Preghiera dell'Ordine, sr. Chiara Francesca Lacchini, Monaca Clarissa Cappuccina, ha tenuto una lectio sulla parabola del granello di senapa in Mc 4
APPUNTI di Madre Chiara Francesca Lacchini
Il centro del messaggio di Gesù, e una delle chiavi di lettura del vangelo secondo Marco, è il Regno di Dio. Gesù non dà mai una “definizione” di cosa sia il Regno di Dio: dice solo che sta per venire, anzi che è già qui, che bisogna prepararsi con urgenza a riceverlo, che le sue origini sono modeste e nascoste, e che determinate persone sono «beate» perché è soprattutto per esse che il Regno di Dio viene. Ma cosa intende Gesù con “Regno di Dio”?
In diversi libri del canone ebraico la categoria della regalità è posta in relazione con Dio, anche se solo in una decina di testi si riscontra la formula Regno di Dio (malakut YHWHin ebraico). Cosa intende dire la Scrittura con tale espressione? Si intende evidenziare il fatto che Dio è melek,“re”, che Egli malak, cioè “regna”. Detto diversamente: parlare del “Regno di Dio” è parlare del modo con cui Dio esercita la sua regalità, la sua signoria, cioè il modo con cui Dio è Dio!
Il tema del Regno di Dio, dunque, non è antropologico (cosa deve fare l’uomo di bene o di male), bensì squisitamente teologico (chi è Dio? cosa fa Dio per essere Dio?).
Dio è re perché ha liberato il suo popolo e lo ha fatto aderire a sé mediante il dono della legge in un rapporto di alleanza; la regalità divina si manifesta e attua nell’ambito della creazione e della storia; Egli, che fin d’ora rende giustizia agli oppressi, alla fine eliminerà il male dalla storia.
È su questo sfondo biblico che si colloca la parola di Gesù, per il quale la categoria del Regno di Dio ha un ruolo centrale.
Al tempo di Gesù molte persone attendevano il Regno di Dio: generalmente, cioè, ci si attendeva che Dio regnasse condannando tutti i nemici, distruggendo tutti i peccatori, eliminando tutti i malvagi, così che il popolo potesse vivere tranquillo nella sua casa, nella sua terra, nella sua città di Gerusalemme. Ma c’erano sottolineature diverse:
· - per i farisei, il Regno di Dio sarebbe venuto quando Israele avesse praticato in modo perfetto la legge di Dio
· - per gli zeloti, il Regno di Dio si sarebbe manifestato nella sovranità religioso-politica di Israele, ottenuta anche con la lotta armata e con la cacciata dei romani
· - per gli apocalittici (e lo stesso Giovanni Battista: si veda al riguardo la risposta che Gesù dà agli inviati del Battista: Mt 11,2-5; Lc 7,18-23), il Regno di Dio sarebbe coinciso con la fine di questo mondo, e con la venuta dei cieli nuovi e della terra nuova, di cui si scrutavano con cura i segni premonitori.
Gesù ha un suo modo originale di concepire il Regno di Dio che non si lascia inquadrare negli schemi del suo tempo, anche se esiste una certa parentela: concepisce il Regno pensando ad un cambiamento già nella storia, e non ad una fine violenta del mondo e della storia, inoltre il Regno di Dio che Gesù annuncia non coincide con l’adempimento perfetto della legge, visto che sono proprio i peccatori - Lc è molto insistente su questo -, o i fragili e i marginali - questo secondo mc - i destinatari primi dell’annuncio del Regno di Dio.
In sintesi: Dio è Dio... perché è sempre vicino agli uomini, perché è Dio “bravo” a cercare gli uomini, non perché gli uomini siano bravi ad andare alla ricerca di Dio.
Nel Vangelo secondo Mc la sezione che va da 3,20 a 6,6 potrebbe avere come titolo “la Parola come lampada”. Dentro questa sezione vi sono alcune brevi parabole che ci dicono non cosa sia il regno, ma a cosa sia simile il regno di Dio.
In particolare il cap. 4 inizia con la parabola del seminatore che esce, e veniamo a sapere che non tutto il seme che cade a terra ha lo stesso “destino”: molto sembra dipendere dal terreno che trova.
Dal racconto risulta che ben tre quarti del campo seminato non rispondono alla fiducia che ha posto il contadino nell’incontro tra il seme e la terra.
La motivazione dell’infruttuosità non sta ovviamente nel seme, ma sta piuttosto nella natura della terra o, semmai, nella mancanza di preparazione adeguata della terra stessa. Il seme era buono, ma il terreno non ha corrisposto alle attese e alla fiducia del seminatore.
Tuttavia la conclusione della parabola ci dice che quando il seme buono incontra la terra buona, la vita fiorisce. La provocazione della parabola sembra essere tutta qui.
Oltre ad offrirci un criterio solido per la vita: non tutti rendono la stessa quantità, ma ciascuno rende secondo la propria identità. Quale che possa essere la quantità del raccolto, ciò che preme è il realizzarsi di una relazione.
“Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!” (v. 9), cioè non a tutti è richiesto tutto, ma a tutti è richiesto ciò che ciascuno può dare.
Questa è una premessa importante: il Vangelo chiede una risposta corrispondente a quella parte di verità che qui e ora ciascuno riesce a cogliere con le proprie possibilità.
Tutti seguono il Vangelo, ma ognuno secondo la propria misura, tant’è che il contadino della parabola è contento della mietitura, tanto del 30, come del 60, come del 100 per uno. Questa è intanto una buona novella, è un annuncio liberatorio da sensi di colpa o ansie da prestazione, che riponiamo nel tesoro del nostro cuore; una indicazione per il cammino verso questo Regno di Dio.
In Mc 4,10-20 troviamo la spiegazione della parabola ai discepoli, fatta dallo stesso Gesù, che ci rivela non tanto la identità del seminatore quanto la identità del seme - che è la Parola - e la natura del terreno.
- In alcune circostanze la vita è come una strada calpestata da tutti (v. 15), e il seme non trova luogo per “fare casa”, non tocca neppure terra se non per un attimo. Talvolta navighiamo a vista, senza grandi convinzioni o obiettivi chiari se non la sopravvivenza.
- In altre circostanze siamo speirómenoi(v 16), lasciamo che il seme ci “insemini”, ma o perché deboli o perché guidati eccessivamente dalla emotività, viviamo proskairos- alla giornata - improvvisando passi momentanei che non diventano cammini, percorsi (il seme germoglia ma non mette radici).
- In altre ancora ascoltiamo ma poi ci ingolfiamo, ci lasciamo soffocare dalle molte cose da fare, anche attorno o in nome della Parola stessa. Non riusciamo a stabilire un primato della Parola e insieme ci dedichiamo anche ad altro. Ed è molto misteriosa questa constatazione che la Parola non ce la fa a superare quegli ostacoli che noi poniamo.
- Infine ci sono anche i tempi dell’ascolto e dell’accoglienza, che sono quelli della fruttificazione e della vita che cresce, nella misura delle nostre possibilità.
Mc 4,21-34 il discorso sembra differente, ma in realtà c’è una linea di fondo che collega questi versetti a quanto detto precedentemente.
Se prima la Parola era il seme, adesso la Parola è la luce, la lampada. E questo segno è ambivalente tanto quanto il seme: una lucerna può creare un incendio, ma può anche essere spenta da una debole folata di vento.
Come il seme, così la lampada è qualcosa di fragile che tuttavia possiede una potenzialità enorme.
Non nasconde la sua fragilità e perciò ci investe della responsabilità di proteggerla, magari mettendole qualcosa attorno. Ma richiede anche di essere messa in un posto visibile in alto, in modo che possa essere davvero orientamento per tutti.
Quale è la conseguenza di tutto ciò? Che la Parola non è stata inviata per lasciare le cose come stanno; se è paragonata alla luce, non è inviata per essere messa nel cassetto o per farla spegnere (pensiamo alla importanza di mantenere il fuoco acceso in un contesto antico). La sua funzione è quella di illuminare e, dice Gesù, “non vi è nulla di segreto che rimane tale e nulla di nascosto che non debba essere manifestato” (v 22). Quale mistero viene a svelare la Parola - seme/luce? Quello del Regno di Dio.
vv. 26-27 “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa”.
L’evangelista ci dà un’altra notizia importante: il seme, una volta gettato a terra, reagisce da solo alla terra stessa cominciando a germogliare, e cresce senza che il contadino debba fare nulla.
Chi è il contadino di questa parabola? Οάνϑρωπος, un uomo, un tizio di cui sappiamo solo che ha una grande fiducia sia nel seme sia nella terra sia, infine, nella relazione reciproca che seme e terra vivranno.
Questo contadino è un uomo che fa il suo lavoro, poi sembra non curarsi più del seme; delega tutto alla relazione reciproca tra questo seme e la terra, e non interferisce: il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa! (v. 27), lasciando intravvedere qualcosa di più, perché alla fine sembra che tutto venga affidato alla responsabilità della terra.
È la terra a produrre αυτοματη, cioè secondo natura, in modo ordinato, armonico, con gradualità, con ordine prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco ... Cioè non agisce e reagisce in maniera miracolosa, imprevedibile, ma secondo la sua natura.
Quando il frutto è maturo, entra di nuovo in scena il contadino, che manda la falce perché è arrivata la mietitura (v. 29).
Qui si fa più chiaro che chi “comanda” è il frutto maturo: tutto è in funzione del frutto e tutto si decide per volontà del frutto.
“Quando il frutto è maturo “otan de paradoi o karpos”; viene usato questo strano verbo παραδιδομι, di cui l’evangelista si serve per parlare con riferimento a Giovanni il battista o a Gesù (cfr. Mc 1,14; 10,33; 14,41; 15,10). Il verbo indica un consegnarsi e un essere consegnati, simultaneamente con l’ambiguità contenuta nelle due possibilità: la maturità del frutto è data/donata, non è conquistata.
Ma chi è questo frutto?
Abbiamo già scoperto nella parabola introdotta all’inizio che questo seme è il Logos. Qui scopriamo che quel seme, divenuto frutto, diventa di fatto l’artefice di tutto, decidendo che è arrivato il momento in cui consegnarsi alla falce per la mietitura.
E così il testo ci pone di fronte al mistero della obbedienza e della libertà, che riguarda il Logos ma riguarda tutti noi: è una sottomissione ma è anche una consegna libera e personale. Ognuno che accoglieil seme o decide di custodire la luce, apre la sua vita alla possibilità certa che seme e luce facciano il loro corso. Che seme e che luce è necessario accogliere?
Dal v. 31 il seme di cui si parla è micróteron, cioè il più piccolo che si possa immaginare. L’evangelista aggiunge ancora qualcosa alla comprensione del mistero del Regno di Dio.
A cosa possiamo paragonare il Regno di Dio? È simile ad un seme dalle dimensioni insignificanti, a cui nessuno darebbe peso. Eppure lui che è il più piccolo, diventa un ortaggio piuttosto ampio, tanto da offrire riparo e ombra agli uccelli.
Abbiamo già trovato gli uccelli, all’inizio di questo racconto, ma erano pericolosissimi, perché beccavano il seme appena toccava terra (cfr. Mc 4,4); alla luce di quanto letto adesso evidentemente non erano gli uccelli ad essere un pericolo, perché qui, un seme minuscolo ma ben interrato, diventa addirittura uno spazio di riposo per quelli che, da nemici, si ritrovano amici.
E anche questa informazione ci offre ulteriori “notizie” circa il Regno di Dio. Il riferimento potrebbe essere certamente al Logos, a quel seme - chicco di grano che, caduto a terra, se muore produce molto frutto. Ma è probabile che la comunità che ascoltava la predicazione dell’apostolo dovesse comprendere un messaggio ben preciso sulla chiesa: dentro la fragilità di un seme, nella precarietà di una fiammella, in un granello di senape si nasconde una potenzialità straordinaria: il più piccolo che diventa il più grande diventerà legge evangelica (cfr. Mt 18,4; Lc 9,48; Mc 9,35; 10,14.35-45).
Se il regno di Dio è simile a quanto abbiamo detto, viene aperta anche a noi una strada: siamo benedetti nella nostra condizione di fragilità, di complessità, di caducità, di caoticità. La fede non c’innalza al di sopra della condizione umana. Essa è la ferma fiducia che Dio ci ama per quello che siamo, e che non ha altro strumento per operare nella storia se non la terra che noi siamo.
Il considerare la nostra vita di credenti su uno sfondo vasto come quello del regno di Dio, che procede nei solchi ordinari della storia, rispettando la natura delle cose e delle persone, può aiutarci a non rimanere incagliati nella preoccupazione eccessiva per noi stessi, per il destino delle nostre istituzioni, opere e presenze, in un tempo di crisi come il nostro, che accresce, per tutti, l’esperienza della fragilità.
In senso generale, il termine fragilità (dal latino frangere), denota qualcosa che può spezzarsi, che non ha resistenza e può [inter]rompersi; ma, lo stesso termine, può indicare qualcosa di delicato, che richiede cura.
Se fragile è ciò che si può spezzare e rompere, inter-rompere, si comprende come il culmine della fragilità sia la morte, ultima tappa della nostra esistenza personale, ma anche la morte che viviamo attraverso la perdita di persone care, lo sradicamento da situazioni e tempi cui è legato molto di noi, l’interruzione di relazioni affettivamente importanti, le limitazioni dei nostri desideri, della salute etc.
La fragilità rimanda insieme a una dimensione della persona e alla sua condizione nella storia, nel senso che il modo in cui la fragilità viene vissuta e valutata dipende molto dai propri valori di riferimento, dalla socio-cultura in cui si vive, dallo “spirito del tempo”. Ma per chi è credente dipende anche - direi soprattutto - dal senso che la fragilità riceve dalle Scritture sante.
La fragilità ha molte espressioni, potremmo dire che ha molti volti. Essa racconta i nostri limiti, confina con le zone d’ombra della nostra vita, è conseguenza di qualcosa che manca, ma si insinua anche nei nostri pregi o positività, nel senso che il proporsi come gratuiti in un mondo che non sempre e non in modo ovvio accorda accoglienza e riconoscimento, espone ad essere in posizione di debolezza anche quando si vivono atteggiamenti di fiducia, di dono e di speranza nell’altro. Si può parlare di esposizione del volto alla mercé degli altri, in quanto soggetti all’accoglienza parziale, alla non comprensione, alla critica, all’invidia, fino all’indifferenza, alla calunnia ed al rifiuto, come scrive il filosofo Lévinas: “La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia: anche nel volto c’è una povertà essenziale […] il volto è esposto, minacciato.”.
Già il salmista ci ha ricordato che siamo come il fiore del campo, esseri di tempo, non ci siamo dati la vita, non possiamo darci l’immortalità. Siamo esposti agli imprevisti, a cose che accadono e stravolgono la nostra esistenza, ci cambiano i progetti. Siamo fragili a motivo di malattie, condizioni difficili di vita, di condizionamenti, che pesano sull’equilibrio della persona, labilità dell’amore. Siamo esposti a sbagliare, a peccare, a distruggere la vita anziché a promuoverla.
Il nostro stesso essere incompiuti ci rende fragili: “l’uomo non è mai nato né cresciuto del tutto, deve nascere continuamente, continuamente partorire se stesso, crearsi il proprio mondo, il proprio posto” in ogni tappa della vita. Questa bellezza e fatica del nascere non è un percorso su strada rettilinea, incontra ostacoli, possibilità di sconfitta.
Siamo esposti alla fragilità spirituale, a motivo di deboli motivazioni di senso ( anche la questione del senso oggi perde di senso), di scelta, non tali da reggere impegni importanti e duraturi; siamo fragili davanti a Dio del quale ci sfugge il volto e la modalità di accesso. Nella fede conosciamo il dubbio, anche se il dubbio non indica sempre fragilità. “La scelta di abitare il limite, non è sinonimo di fallimento o di impotenza, perché quando scegliamo di accettare il limite per amore, allora il limite diventa evento creativo”. ( Simone Weil ).
La prospettiva dell’annuncio di Gesù, nel vangelo secondo Mc, ci dice che la fragilità è luogo dove il Regno di Dio può fiorire e diventare albero, luogo in cui le ostilità possono essere disinnescate (vedi gli uccelli) e la vita
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