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Lectio Divina Ecumenica "E se parlasse proprio me?" a cura dell'Abate Antonio Perrella

Il 2 agosto 2019, presso la Casa d'Amministrazione dell'Ordine, il Rev. mo dom Antonio Perrella , Abate della Christiana Fraternitas e membro della Chiesa Episcopale Anglicana, ha tenuto una lectio sulla parabola dei talenti in MT 25, 14-30




Appunti per la Lectio divina su Mt 25,14-30

(il testo pubblicato contiene gli appunti usati dal Rev.mo Abate per la Lectio)


Matteo-Identità e composizione:

* anticamente si identificava l’autore del Vangelo con l’esattore delle imposte Levi. Come sappiamo, le prime notizie ci vengono dalla testimonianza, indiretta, di Papia. Egli scrive che “Matteo ordinò in lingua ebraica i detti, però ognuno li tradusse come meglio potè” (Eusebio, Storia Ecclesiastica, 3,39,3). Da questa testimonianza di Papia nacquero alcune convinzioni: 1) l’esistenza di un primitivo vangelo di Matteo in lingua ebraica, 2) che Matteo fosse il più antico e 3) che Matteo quindi fosse uno degli apostoli. A questa convinzione contribuì anche una contraddizione presente nel Vangelo secondo Marco: egli narra la chiamata di Levi (Mc 2,14) ma quando elenca i nomi degli apostoli (Mc 3,16-19) non lo include nella lista. Sarà proprio il Vangelo secondo Matteo (10,3) ad inserire la qualifica di “pubblicano” all’apostolo Matteo ed a facilitare l’equivoco dell’identificazione con Levi, l’esattore delle tasse.


* Dell’autore del Vangelo, chiamato secondo Matteo, gli studi critici degli ultimi due secoli hanno chiarito alcuni dati importanti: certamente scrive per una comunità di ebrei, ma entra in radicale polemica con l’ebraismo farisaico (non con l’ebraismo in genere, alla cui tradizione spirituale attinge invece a piene mani). Questo atteggiamento non sarebbe facilmente plausibile in un discepolo della prima ora. Abbiamo ripetutamente visto la difficoltà che i discepoli della prima ora avevano fatto per comprendere la prospettiva di Gesù. Per questo motivo si deve ritenere che il Matteo, autore del Vangelo, sia in realtà non un cristiano della prima, ma della seconda generazione. Del resto, se egli fosse stato un membro del gruppo dei dodici, certamente, avrebbe delineato meglio il proprio profilo biografico. Mentre dal Vangelo secondo Matteo apprendiamo più cose di Pietro che non di Matteo stesso.


* Per molto tempo fu il Vangelo maggiormente copiato, trascritto e diffuso e ciò probabilmente non solo perché era fatto risalire ad un apostolo ma proprio per il suo contenuto catechetico. Con il gruppo di ben cinque lunghi discorsi (discorso della montagna capp. 5-7; discorso missionario cap. 10; discorso parabolico cap. 13; discorso ecclesiologico cap.18; discorso escatologico capp. 24-25) si prestava meglio degli altri all’insegnamento della dottrina cristiana. Matteo risulta essere il Vangelo più lungo, composto da ben 28 capitoli.


La preoccupazione del Vangelo secondo Matteo di presentare la comunità cristiana come una fraternità, nella quale nessuno deve farsi chiamare padre e maestro, rivela che è in atto (o forse si è già conclusa) una rottura tra la chiesa e la sinagoga dei farisei. La comunità cristiana deve intendere se stessa come l’eredità di Israele, a patto che essa non incorra negli stessi errori della sinagoga.


Per questi motivi, tra i temi più cari a Metto ci sono: Gesù è il maestro mite e umile, sempre presente nella Chiesa; Gesù ci rivela il vero volto di Dio; la Chiesa di Gesù è serva e non padrona del Regno ed è seme di esso se rimane in cammino verso di esso; la benedizione di Israele è donata in Gesù a tutte le nazioni. Quest’ultimo tema è rafforzato dalla inclusione geografica in cui l’evangelista racchiude la sua opera: Gesù inizia il suo cammino dalla Galilea (cf Mt 3,13) e lo conclude in Galilea, dove – già Risorto – si fa vedere dai suoi discepoli (cf Mt 28, 10.16). Il luogo geografico è eloquente: la Galilea era la regione del crocevia dei popoli, delle culture e delle religioni. Questo luogo porta con sé il richiamo all’universalismo della salvezza e alla natura aperta ed inclusiva della nuova comunità ed umanità che Gesù sta creando.


Contesto:

capitolo 25 di Matteo, discorsi escatologici, prima degli eventi che porteranno alla sua condanna e morte. La parabola di oggi è un monito alla corretta comprensione del dono di Dio in sé e della “persona” di Dio; quale Padre che dà fiducia e merita fiducia, non come qualcuno da temere che provoca paralisi esistenziali.


Testo: L’uomo della parabola doveva compiere un viaggio e “consegnò” i suoi beni ai “servi”. Analizziamo innanzitutto due termini per proseguire in una corretta lettura: il termine consegnare(paradidomi)sta ad indicare qualcosa che viene concesso senza pretenderne la restituzione. Il padrone “affidò” e “consegnò” i suoi beni come un’eredità; più avanti lo si evincerà meglio con la risposta che darà il padrone ai primi due “servi”. L’altro termine che vale la pena affrontare a scanso di equivoci è “servi” (doulos): in oriente tutti i dipendenti venivano chiamati “servi”al di là della mansione, del ruolo che occupavano. Questi “servi”erano funzionari di rilievo e lo si comprende da ciò che viene loro consegnato. Il testo in lingua corrente interconfessionale traduce con “monete d’oro” ma la traduzione della CEI 2008riporta il termine “talento”.Ed è con questo termine che voglio proseguire la meditazione. Se da un lato può risultare ermetico, per il fatto che nella lingua italiana ha assunto un altro significato, tuttavia, ad esso in qualche modo legato (cioè, capacità intellettuale non comune associata a genialità o estro vivace)– dall’altro lato trasmette l’importanza di ciò che viene dato ai “servi”e rivela l’importanza degli stessi, il loro alto incarico. Un talento – al tempo di Gesù – stava ad indicare un’unità di misura corrispondente a 26-36 kg d’oro che a loro volta corrispondevano a 6000 denari: 20 anni di un salario medio. Con queste precisazioni, ora, possiamo compiere passi avanti all’interno della storia che ha raccontato Gesù. Nell’uomo risiede una capacità enorme di doni, non comuni a tutto il creato, si tratta della vita stessa dell’uomo. Dio, datore del dono della vita, non ci pensa come servi bensì come “alti funzionari”.


L’uomo che consegna i suoi beni è un uomo di grande ragionevolezza: egli infatti dà a ciascun servo “secondo le sue capacità”. Ad un funzionario dà cinque talenti, ad un altro ne dà due e ad un altro ancora ne dà uno. Quante volte nella vita l’uomo credente si trova in situazioni difficili o complesse che gli fanno apparire questioni o fatti più grandi di ciò che egli ritiene di poter affrontare? Sono quelle circostanze però a mostrare all’uomo quanta dote risiede in lui.


Il Signore – datore di lavoro – parte ma dopo tanto tempo, al suo ritorno, vuole vedere come se l’erano cavata gli addetti. “Venne il primo, quello che aveva ricevuto cinquecento monete d'oro (cinque talenti), portò anche le altre cinquecento e disse:Signore, tu mi avevi consegnato cinquecento monete. Guarda: ne ho guadagnate altre cinquecento.E il padrone gli disse:Bene, sei un servo bravo e fedele! Sei stato fedele in cose da poco, ti affiderò cose più importanti. Alla luce di quanto abbiamo chiarito circa l’importanza di quanto viene dato ai servi – dal primo che ne ha ricevuti cinque all’ultimo che ne ha ricevuto uno – non possiamo sorvolare sulla risposta che il padrone da all’addetto: “Sei stato fedele in cose da poco, ti affiderò cose più importanti”. Cinque talenti erano circa180kg d’oro ovvero 30.000,00 denari, ovvero 100 anni di stipendio. Tutto questo è reputato poco dal padrone innanzi alla fedeltà e alla fiducia del servo che non si è negato – forse – anche all’azzardo ed ha raddoppiato quanto gli era stato affidato, mostrando al padrone altri cinque talenti guadagnati. Ora quel servo viene chiamato ad amministrare cose più importanti della casa del padrone. La stessa cosa avviene col secondo servo al quale vengono affidati due talenti. Il padrone ha dato ai suoi servi la possibilità di una crescita tale da divenire “co-padroni”. Ciò è reso evidente dalla sua risposta:“ti affiderò cose più importanti”. Ecco ancor meglio spiegato il termine “consegnare” che abbiamo trovato all’inizio del testo; in questa risposta si esplicita ciò che avevo già detto: si tratta di una vera e propria eredità. Allora possiamo presumere che il padrone abbia operato una sorta di pedagogia con i suoi addetti. Ha affidato loro dei beni secondo le loro capacità perché in esse, tutti in egual modo, potessero mostrare, mettere fuori le capacità di amministrare: il talento come oggi lo si intende. Amministrare significa rendersi conto delle risorse di cui si è in possesso, progettare ed attuare un miglioramento di queste per migliorare il proprio status. Dalla risposta dell’uomo che torna a verificare i conti dei servi possiamo comprendere che il suo fine era donare una partecipazione piena dei suoi beni. E come non ricordare a questo punto quanto scrive Giovanni 15,15: “Io non vi chiamo più schiavi, perché lo schiavo non sa che cosa fa il suo padrone. Vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto sapere tutto quel che ho udito dal Padre mio”.


È il turno dell’ultimo funzionario al quale è stato consegnato un solo talento, che ormai sappiamo essere non poca cosa. Si rivolge al padrone e dice: “Signore, io sapevo che sei un uomo duro, che raccogli anche dove non hai seminato e che fai vendemmia anche dove non hai coltivato. Ho avuto paura, e allora sono andato a nascondere i tuoi soldi sotto terra. Ecco, te li restituisco”.Il servo non ha compreso la fiducia del padrone e dove egli voleva portarlo. È una persona che non ha neppure fiducia in sé stessa, non ha provato, non ha azzardato minimamente. Il padrone infatti gli dirà:“dovevi almeno mettere in banca i miei soldi e io, al ritorno, li avrei ritirati con l'interesse”. Ha preferito seppellirli. Nell’immagine del seppellire è inevitabile vedere l’uomo che muore, che non si dà alcuna possibilità, non si cura di sé. La scelta di seppellire era data dal fatto che questo addetto voleva garantirsi. Il diritto rabbinico infatti prevedeva che qualora – in questo caso – il talento fosse stato rubato, il servo non era chiamato a rispondere personalmente per tale avvenimento. Il funzionario ha paura e cerca nella “paralisi” un rifugio sicuro. Il profilo umano di questo servo è misero, non ha passione, ha una percezione sbagliata delle sue capacità e possibilità ma anche un’immagine scorretta del padrone. Il funzionario non sa che la strada per affrontare la vita è la passione, l’amore; ancora nella Prima Lettera di Giovanni al capitolo 4 versetto18 si legge: “perché chi vive nell’amore di Dio non ha paura. Anzi, l’amore perfetto caccia via la paura”. Così Matteo sta mostrando che a Dio non interessa quanto produciamo, a Lui interessa che noi mettiamo a frutto i talenti che con abbondanza ci ha donato. Preferisce uno che per fare si sporca, piuttosto di uno che, per non sporcarsi, preferisce non fare. La paura di sbagliare, la paura di peccare non possono essere un alibi alla paralisi. Lutero diceva: pecca fortiter sed fortius fide – pecca fortemente purché tu creda più fortemente ancora. Si discute molto sull’origine agostiniana di questa frase. Nei testi di Agostino non esiste; e tuttavia, ben comprendendo il suo senso paradossale, quella frase di Lutero è profondamente agostiniana. Il vescovo di Ippona scrisse: ama et fac quod vis – ama e fa’ ciò che vuoi! Quando le scelte sono spinte e motivate da un amore vero, allora non ci si può frenare per le paure. Dio, datore della vita, non può essere il paralizzatore della vita.

Quando il padrone ammonisce il servo ripete le sue parole ad eccezione, però, della parte nella quale il servo dice “sei un uomo duro”. In questa dinamica il padrone ha mostrato al servo di avere distorto, mal compreso la sua immagine; sì, era un padrone esigente: “sapevi che io raccolgo dove non ho seminato e faccio vendemmia dove non ho coltivato”ma non “un uomo duro”.Forse è stata proprio questa immagine scorretta del padrone a dare vita alla paura nel servo ormai definito “cattivo e fannullone”. Ormai il funzionario è fuori, viene mandato via togliendogli anche il talento che gli era stato affidato; non gli resterà che piangere come “un disperato”.


Ogni uomo sulla faccia della terra ha talenti, ha possibilità, ha vita. Il dono della vita e con essa le sue occasioni non sono cose da poter trascurare. Oggi più che mai l’uomo vive una crisi identitaria, si comprende male per la paura di amarsi ed amare. Rifiuta la speranza di una vita più ampia, orientata all’eternità. Cerca di mettere al sicuro ciò che pensa di essere e possedere. Tutte le sue energie sono spese in questo vortice di continuo ripiegamento su sé stesso che lo condurrà nei baratri del relativismo più assoluto. Forse la causa è nascosta dietro ad una società che non offre possibilità di formazione seria, non garantisce lavoro per tutti, dove le politiche sanno “di contentino” riducendo il bene comune al bene del singolo dando vita alla “cultura delle monadi”. La vita non è più vista come lo spazio aperto della realizzazione di se stessi nella piena armonie con gli altri, ma della realizzazione di se stessi contro gli altri. Abbiamo creato una giungla selvaggia nella quale il più debole soccombe. Così si genera spesso la paura paralizzante.


La paura fa spazio all’incertezza: questa incertezza non ci fa più leggere le cose dalla prospettiva di Dio e non siamo più capaci di accorgerci che ogni istante della vita stessa è un talento, cioè un’occasione che Dio ci dona per compiere qualcosa di grande. La parabola odierna ci invita a prendere coscienza del grande valore che l’uomo, anzi, che ognuno di noi ha in sé e di quanto grandi siano le possibilità che ci sono offerte. Solo a partire da qui potremo ricevere anche di più: “Perché chi ha molto riceverà ancora di più e sarà nell'abbondanza; chi ha poco, gli porteranno via anche quel poco che ha”.Carlo Maria Martini in un discorso ai giovani diceva:“Niente paura della vita, rischiate: Dio si sporge, perde l’equilibrio, si compromette, si mette dalla nostra parte, però anche noi siamo chiamati a sporgerci”.


Abbiamo detto all’inizio che questa parabola fa parte dei discorsi escatologici, cioè ci parla della fine di questo mondo e dell’avvento definitivo del Regno di Dio. Questo argomento porta con sé sempre un pizzico di smarrimento, di paura. In realtà, se abbiamo compreso il senso della parabola, ci accorgiamo che non solo non abbiamo da temere nulla, ma anzi che senza guardare a quel giorno rischiamo di non vivere al meglio la vita che ci è data. Solo guardando al di più che ci è stato preparato possiamo apprezzare e valorizzare il già molto che ci è stato elargito. Non abbiamo assolutamente nulla da temere da un Signore che a ciascuno ha dato i giusti talenti. Lo ha fatto nella sua sapienza, dando a ciascuno secondo le sue possibilità e capacità: questa non è ingiustizia, è delicatezza! Dio non ci pone sulle spalle se non quelle responsabilità che siamo capaci di portare. La sua delicatezza è attenta e piena di fiducia verso di noi. Ma noi ci fidiamo di noi stessi come Lui si fida di noi? Quante volte seppelliamo i suoi doni nella terra della disistima di noi e degli altri, nei fossi del disimpegno, nelle buche del lamento… Quante occasioni sprecate con i nostri “non è per me, non ne sono capace, non è compito mio”… Quante volte anziché vivere ci accontentiamo di sopravvivere.

Dio non fa così con noi! Noi siamo e restiamo la sua creatura meravigliosa, abbellita di tutte le capacità e possibilità che Lui ha voluto e potuto darci, in base a noi stessi. Il primo scatto da compiere per far fruttificare i talenti è accorgerci che li abbiamo: intelligenza, affetti, relazioni di amicizia, comunità, tempo, beni, fantasia… Ognuno potrebbe e dovrebbe fare la lista dei talenti che ha ricevuto da Dio e, se facesse difficoltà a farla, allora vorrebbe dire che ha iniziato a dare tutto per scontato e non si accorge più di quanta bellezza Dio ha arricchito la sua vita.


Proviamo a fare la nostra lista, e alla fine non potremo che dire: tu mi hai fatto come un prodigio! (Sal 138,14).


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Per aiutare la riflessione si può leggere questa bella filastrocca di Gianni Rodari (poi anche musicata da Endrigo e Bagalov), che ci ricorda come spesso teniamo la scorza delle cose e ne sprechiamo il frutto migliore.


Un signore di Scandicci buttava le castagne e mangiava i ricci. Un suo amico di Lastra a Signa buttava via i pinoli e mangiava la pigna. Suo cugino in quel di Prato mangiava la carta e buttava il cioccolato. Un parente di Figline buttava le rose e odorava le spine. Un suo zio di Firenze buttava in mare i pesci e mangiava le lenze Tanta gente non lo sa non ci pensa, non si cruccia la vita la butta via e resta soltanto la buccia!



Qui sotto la poesia di Rodari musicata.


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