Il 28 giugno 2019, presso la Casa d'Amministrazione dell'Ordine, il Rev. mo dom Antonio Perrella , Abate della Christiana Fraternitas e membro della Chiesa Episcopale Anglicana, ha tenuto una lectio sulla parabola del Padre misericordioso fermandosi su Lc 15,1-32
Il Testo della Lectio di dom Antonio Perrella
Premessa
1. Anzitutto alcune considerazioni sulla figura dell’evangelista. Sappiamo che Luca appartiene a quella che viene chiamata la seconda (o terza) generazione cristiana, cioè quelli che sono diventati credenti non perché abbiano conosciuto Gesù direttamente ma perché lo hanno conosciuto tramite la predicazione degli Apostoli.
Dal libro degli Atti, anch’esso di paternità lucana, sappiamo che il medico evangelista è stato discepolo di Paolo e suo collaboratore nel ministero ed in alcuni viaggi apostolici. Possiamo riconoscere dal testo degli Atti quali sono le tappe del cammino di Paolo a cui Luca ha partecipato personalmente. Egli infatti, narrando quei viaggi, talvolta usa la prima persona plurale (noi) e altre volte terza persona plurale (essi). È evidente che quelle sezioni con il “noi” corrispondono a quei viaggi ed eventi a cui Luca ha partecipato personalmente.
Di lui e della sua opera, sappiamo anche che ha raccolto la narrazione orale dei testimoni oculari dei fatti riguardanti Gesù, che erano accaduti – a seconda delle ipotesi circa la datazione del Vangelo di Luca – da trenta a cinquant’anni prima. Questo ascolto risale al periodo in cui Luca rimane a Gerusalemme. Egli poi si confronta anche con i testi scritti che già circolavano nella comunità e a cui fa riferimento nel prologo del suo vangelo che dedica all’illustre Teofilo. Circa questi scritti esistenti, esistono fondamentalmente due ipotesi: la prima, semplicistica, è che Luca faccia riferimento al Vangelo secondo Marco (che certamente era già stato scritto) e forse a quello secondo Matteo; la seconda ipotesi, più complessa, ma certamente più realistica, ritiene che oltre al vangelo secondo Marco, che è il più antico, Luca (come del resto gli altri evangelisti) avesse a sua disposizione delle fonti pre-evangeliche, che contenevano particolari aspetti della vita e delle parole di Gesù. La più conosciuta, e quasi universalmente accettata, di queste fonti è la cosiddetta fonte Q, utilizzata anche da Matteo, che conteneva i detti di Gesù. Recenti studi parlano anche di un precedente racconto della passione, di un “libro delle parabole” e di una “fonte dei segni”. Certamente, mentre contemporaneamente si sviluppano la tradizione orale (la predicazione) ed una prima tradizione scritta, si venivano a creare molteplici filoni di notizie circa la persona, la vita e l’insegnamento di Gesù, che se da un lato portavano una grande ricchezza di conoscenza, dall’altro lato richiedevano un’operazione sistematica, per ordinare il ricco materiale a disposizione. Questo fu proprio l’intento di Luca.
Dalle sue stesse parole conosciamo qual è il suo approccio: egli assume le informazioni dalla viva voce dei testimoni e dagli scritti esistenti (di sicuro circolava già nella comunità il vangelo di Marco, da cui trae molte informazioni). Quindi si pone a scrivere una narrazione che corrisponda a criteri ben precisi: criticità, cioè un lavoro serio di verifica di ciò che viene narrato per escludere la narrativa fantasiosa, e storicità degli eventi. Tutto questo per far comprendere al destinatario che la sua fede si fonda su fatti realmente accaduti: perché tu riconosca la solidità delle parole intorno alle quali sei stato istruito (1,4).
L’opera lucana, quindi, che comprende due tomi – vangelo e atti – ha un chiaro intento storico e catechetico. I contenuti della fede da lui raccolti, elaborati, interpretati e trasmessi non si basano su possibili convinzioni di persone o di gruppi, ma su dati storici.
Naturalmente nel lavoro redazionale, cioè nella stesura dei suoi testi, anche lui ha una prospettiva teologica ben precisa e questa prospettiva coincide o comunque è determinata dall’esperienza della sua fede. Cioè Luca scrive per evidenziare delle linee teologiche che dovevano averlo colpito circa la persona e la missione di Gesù. Chi conosce l’Evangelo di Luca sa che il filo rosso dei suoi racconti è costituito da un messaggio preponderante: in Gesù si rivela e si dona la misericordia di Dio e con essa la salvezza è offerta a tutti e a tutte. La salvezza è universale. Per questo la Chiesa è di natura sua missionaria e deve andare incontro ad ogni uomo perché ogni uomo è il destinatario della misericordia di Dio ed il beneficiario del dono della salvezza.
Lo stesso nome del destinatario (Teofilo) – sia che si tratti di una persona concreta sia che si tratti di uno pseudonimo, per indicare una categoria di persone – resta comunque un nome greco e non ebraico. Questo dato ci fa pensare ad un destinatario di origine pagana, ma che era timorato di Dio. Erano quelli che gli ebrei chiamavano simpatizzanti, di cui faceva parte lo stesso Luca: pagano di nascita, attratto dalla fede ebraica e divenuto cristiano. L’opera lucana contiene molti elementi di attenzione al mondo imperiale, sia nella collocazione storica degli eventi, sia nel modo di presentare gli stessi accadimenti. Meno attento è alla tradizione giudaica, con cui non entra in conflitto, come invece fanno Marco e Matteo. Evidentemente egli è culturalmente e religiosamente meno coinvolto dalla situazione religiosa ebraica, tant’è che non conosce la disputa sul puro e impuro, né le contrapposizioni con il giudaismo farisaico. Proprio per questo sembra nutrire un profondo rispetto verso l’ebraismo come “matrice religiosa originaria” del cristianesimo. Questo rafforza la convinzione che Luca sia un pagano, simpatizzante dell’ebraismo, che ha riconosciuto in Gesù il Messia (secondo la tradizione ebraica) e Salvatore (secondo la cultura imperiale).
Un altro elemento della vita e della personalità di Luca è la sua capacità di compromettersi. Dalle lettere paoline e dagli Atti sappiamo che negli anni della prigionia – o meglio degli arresti domiciliari di Paolo – egli gli è rimasto vicino. Questa scelta doveva essere rischiosa. Stare con Paolo significava immediatamente essere assimilato a lui e al cristianesimo che era ritenuto una setta pericolosa. Molti avevano abbandonato Paolo in quel momento ed egli stesso se ne lamenta in una sua lettera (2Tim 4,16: Tutti mi hanno abbandonato). Luca invece no. Rimane al fianco del suo maestro e compagno di missione (2Tim 4,11: soltanto Luca è con me). Ha il coraggio di compromettersi e rischiare in prima persona la reputazione e la vita.
Contesto della Parabola
1. Gesù veniva ascoltato e condivideva del tempo con coloro che venivano considerati lontani. Potremmo definirli i “peccatori manifesti” che quindi potevano essere individuati, additati.
2. I “vicini”, ovvero la casta teocratica (scribi: esperti della religione, oggi li potremmo paragonare agli esegeti; farisei: la parola significa “separati” in quanto erano osservatori attenti e scrupolosi di tutte le leggi e le norme religiose) mormorano di questo fatto: “costui riceve i peccatori e mangia con loro”. L’utilizzo del pronome dimostrativo “costui” indica disprezzo.
3. Gesù risponde con una parabola: il testo greco dice che Gesù rispondeva loro con "ten parabolen tauten": il testo greco, quindi, parla di un racconto unico, che, per quanto composto da tre segmenti letterari, ha tuttavia nel suo svolgersi una unità tematica, narrativa, logica e contenutistica tale che nessuno dei tre segmenti è pienamente comprensibile se non nell’insieme. Ed, infatti, a mo’ di anticipazione possiamo dire che l’insegnamento di questa parabola vorrà progressivamente dimostrare che ci si può perdere, essere lontani, andando geograficamente o idealmente lontano (come la pecora perduta che si smarrisce fuori di casa) ma anche restando in casa - anche idealmente – come la dramma perduta (che viene persa in casa). Entrambi questi insegnamenti vengono raccolti e meglio argomentati insieme nella parabola cosiddetta del figliuol prodigo.
Iniziamo il nostro viaggio nel testo:
La realtà in cui stiamo per entrare potrebbe avere un effetto shock su qualche ascoltatore di oggi, ma sicuramente l’ha avuto sugli ascoltatori di ieri. La dinamica che stiamo per affrontare è veramente fuori ogni logica che si voglia comprendere secondo la ragione umana, per questo allacciamo le cinture poiché potremmo avere paura di questo viaggio che ci porterà spediti al cuore di Dio.
Contesto prossimo
1) Il contesto precedente è caratterizzato dai due segmenti parabolici, che con il nostro testo compongono una unità inscindibile: la pecora smarrita e la dracma perduta. Si tratta di due unità letterarie costruite con il medesimo schema. Un protagonista smarrisce qualcosa, mette in campo tutte le sue energie per ritrovare ciò che aveva smarrito e, dopo averlo trovato, esprime la sua gioia per l’oggetto ritrovato. Diversa è invece l’ambientazione: nel primo caso si tratta di una scena di allevamento, nel secondo di una scena domestica; nel primo caso si tratta di un uomo, nel secondo di una donna; nel primo di una persona ricca, nel secondo di una persona povera. Queste differenze sono probabilmente l’elemento più importante. Gesù, infatti, sta dicendo che non importa chi sia a perdere qualcosa, rimane un’esperienza comune, condivisa: chi perde qualcosa, sente di aver perso qualcosa di importante, da ritrovare a tutti i costi; e, se tutti gli uomini e donne mettono in campo tutte le proprie energie per ritrovare ciò che hanno smarrito, Dio non dovrebbe o non avrebbe il diritto di fare la stessa cosa con i suoi figli, che si sono smarriti e allontanati? Inoltre, come abbiamo detto, queste due unità letterarie ci dicono che ci si può ugualmente perdere fuori di casa quanto in casa.
2) Più difficile è individuare il legame con il contesto successivo. Nel cap. 16 infatti Gesù pronuncia un’altra parabola: quella dell’amministratore disonesto e scaltro, da cui prende le mosse per alcuni insegnamenti sul rapporto con il denaro ed i beni terreni. Se da un lato, sembra non esserci alcun legame, se non quello di una sezione del vangelo dedicata ad insegnamenti che prendono le mosse da parabole, dall’altro lato forse un legame tematico, per quanto sottile, può essere individuato. La parabola del padre misericordioso si trova incastonata tra tre parabole che trattano di beni materiali: la pecora, la dracma, i beni su cui l’amministratore infedele fa la sua fortuna. In mezzo c’è invece un padre, per il quale l’unico bene sono i figli, per quanto questi facciano difficoltà a comprendere il suo cuore ed il suo amore. Forse Luca ci sta dicendo che, mentre gli uomini si affannano anzitutto per ciò che possiedono o perdono, Dio invece si affanna per l’unico bene che ha: l’uomo.
La Parabola
"Disse ancora: Un uomo aveva due figli".
Nell’esordio di questo racconto non possiamo far finta di non notare un’assenza: la madre. Talvolta il non detto è importante quanto il detto. Gesù allora racconta di una famiglia reale, non ideale. Una famiglia in cui non c’è la madre.
Chiedere l’eredità del padre è come chiedere la vita del padre. L’eredità infatti è qualcosa che si pretende e si discute dopo la morte di un genitore.
"E il padre divise tra loro le sostanze". In greco l’espressione andrebbe tradotta: “divise tra loro la vita” (ton bion). Non si può non notare che la pretesa del figlio minore è assurda: nulla gli spettava, prima della morte del padre, ed anche dopo gli sarebbe spettato in relazione alla decisione del padre, che poteva disporre delle quantità. In genere si garantiva a ciascuno il necessario, senza frammentare troppo il patrimonio, per non ridurre eccessivamente la ricchezza.
"In paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto". Quando la casa diventa una prigione si vuole andare lontano. La casa può essere la nostra persona, la famiglia in cui viviamo, il lavoro, la chiesa… per vivere nuove esperienze… Una lontananza vissuta come illusione di emancipazione da un luogo e da una condizione in cui, tuttavia, si è veramente liberi e degni, non può che essere uno sperpero di vita.
"Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava".
1. Per un ebreo era impossibile compiere un lavoro come mandriano di porci. Il maiale era inteso come animale impuro, solo i pagani potevano fare un lavoro del genere poiché contaminati.
2. Se si mise a servizio come mandriano, possiamo presumere che quindi si occupasse anche di dare da mangiare ai porci. Perché non ha preso qualche carrubo per mangiarselo? Si ha sempre bisogno che qualcuno si prenda cura di noi. L’uomo è bisognoso di qualcuno che prepari qualcosa da mangiare per sentirsi accolto, coccolato. Ciò di cui questo ragazzo avverte la fame, dietro quella dello stomaco, è la relazione d’amore: essere qualcuno per qualcun altro. In casa di suo padre era figlio. Qui è niente.
Toccato questo fondo, che equivale alla morte, avviene la crisi. Il Sal 49,21 recita: L’uomo nella prosperità non comprende,è come gli animali che periscono. Quando si trovava nella prosperità, con beni materiali a disposizioni, non comprendeva il bene più grande a cui aveva rinunciato: l’amore del padre. Adesso è povero di beni materiali, ma è ancora ricco della sua superbia e del suo egoismo, per questo ancora non comprende quale sia il vero bene da ricercare e trovare.
La crisi lo mette in condizione di pensare e il pensiero ci fa ragionare, specialmente in stato di bisogno secondo convenienza. Molti dicono che in questo momento avviene la conversione di questo figlio ma non è così. Egli ragiona sulla convenienza e vuole tornare al padre esattamente come se ne andato: Trattami come uno dei tuoi garzoni. Ovvero impone al padre, usando un nuovo imperativo: il primo era “dammi”, il secondo è “trattami”. Egli pensa, quindi, di poter pretendere: la prima volta pretende la parte di eredità, che non gli spettava, e la seconda volta pretende un posto, quello di salariato, che il padre mai sarebbe disposto a dargli. L’esegeta Vittorio Fusco dice che la sua mancanza di lucidità si dimostra proprio dal fatto che non compreso che in quella casa per lui o c’è posto come figlio o semplicemente non c’è posto.
Terminata la descrizione di ciò che si agita nel cuore del figlio minore, che si mette in cammino verso il padre, Luca – con tratti sintetici ma di grande efficacia – concentra l’attenzione sull’atteggiamento del padre. Egli “da lontano lo vide”: evidenzia un’attesa diuturna, paziente, continuata, nella quale sembrano intrecciarsi sentimenti contrastanti: da un lato il timore che il figlio non ritorni e dall’altro la speranza che invece lo faccia. “Si commosse profondamente” (esplanchniste): è il verbo che indica il contorcimento delle viscere materne pronte a partorire la vita. Si accendono dei colori muliebri nella descrizione dell’amore di questo padre. “Gli corse incontro”: un tratto ed un portamento disdicevole per un signore (proprietario e padrone) di quel tempo. In questo correre, il padre, "perde la faccia" per il figlio. Eloquente è il richiamo a quello che avverrà più tardi a Gesù stesso: il Padre per "correre" incontro all'umanità perduta "perde la faccia" nella crocifissione e morte del Cristo. “Gli si gettò al collo e lo baciò”: ancora una volta manifestazioni corrispondenti più al modo materno di vivere il rapporto con il figlio. La narrazione in questo segmento sembra sincopata, con un ritmo incalzante, ripetuto, scandito da verbi che, da un lato, interrompono e dall’altro prolungano l’azione. Se si potesse tradurre in musica questo modo di narrare ci ritroveremmo dinanzi a suoni ripetuti e incalzanti, quasi volti, a mo’ di onomatopea, a voler riprodurre il ritmo del cuore dove ogni battito è a se stante, ma al tempo stesso legato al successivo, perché è quel legame di battiti ripetuti che fa sgorgare la vita e l’amore.
Occorre soffermarsi sul momento dell’abbraccio. Nel momento in cui il padre lo abbraccia e lo bacia, il figlio inizia a pronunciare il discorso che si era preparato. Egli, però, non riesce a portare a termine la commedia che aveva studiato, pur di ritagliarsi un posticino che gli garantisse il salario ed il cibo. Il padre lo ferma e dà vita ad una scena di vestizione e all’ordine di un bacchetto eccezionale (il vitello si uccideva una volta l’anno), che non avrebbe senso nella realtà e per questo è ancora più simbolica ed evocativa. Il figlio lo lascia fare, accetta ciò che il cuore del padre ha in serbo per lui, non rivendica e non impone, non chiede e non pretende: qui sta la sua vera conversione. Ha finalmente compreso che egli è se stesso solo rimanendo nell’amore del padre, lasciandosi da lui amare.
La figura del padre che Luca ci descrive è quella di un genitore che non limita: di questo figlio accoglie le pretese esagerate, attende il tempo della scelta del suo ritorno, lo riaccoglie con la stessa dignità che aveva prima di andarsene in modo scriteriato.
Fa, a questo punto, ingresso nella scena "il figlio maggiore che si trovava nei campi". Il suo stare nei campi a lavorare lo rappresenta immediatamente come “il bravo ragazzo”, che compie il suo dovere di bravo figlio di famiglia, così stridente con l’altro che invece se ne va e sperpera. Inoltre, il termine greco che sta al posto della parola “maggiore” è presbyteros. Sulla scelta di questo aggettivo occorre soffermarsi un attimo. Il contesto originario di questa parabola, cioè quello in cui Gesù l’ha pronunciata, è un contesto giudaico. In questo contesto di origine l’aggettivo presbuterovrimanda o allude ad un componente del sinedrio che aveva quindi potestà di giudicare. Tuttavia, il contesto di destinazione è diverso: Luca scrive per una comunità cristiana ed abbiamo detto che egli è pagano di origine e scrive per una comunità di origine pagana. Quando egli scrive, la comunità ha già i suoi presbiteri, i suoi anziani. Non entriamo nel merito delle funzioni che essi avevano, ma comunque rimane che erano coloro che avevano una funzione di guida e di discernimento nella comunità. Con la scelta di questo aggettivo, Luca lega la sua narrazione al passato della sua origine, ma anche al presente e al futuro della sua narrazione di chi poi leggerà questo testo. Sta dando un insegnamento a chiunque abbia una funzione di giudizio, perché non commetta lo stesso errore del figlio maggiore.
"Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò".
Questo figlio maggiore si mostra come colui che fa il suo dovere, che probabilmente intende la vita e le relazioni, anche quelle di amore come quella con il padre, come un dovere, con uno schema ben preciso. Certamente, rientrando dal lavoro, si sarebbe aspettato di trovare il padre ancora affranto, un senso di mestizia e di lutto per quel fratello scapestrato che era smarrito, e magari – perché no – una profonda gratitudine verso di lui che, invece, era sempre rimasto al suo posto. Si tratta di uno schema ragionevole e persino rassicurante: tutto è controllato e controllabile da un preciso regolamento di pesi e contrappesi anche nel campo dell’amore, del merito, del giusto e dell’ingiusto.
Tuttavia, nulla di tutto questo accade! Egli si trova dinanzi a qualcosa di inatteso, che sembra andare oltre la sua capacità di comprensione e la sua possibilità di accettazione. Si trova dinanzi allo sbaragliamento di ogni schema. È intervenuta una forza, a lui misteriosa (come del resto lo era stata per il fratello minore) che ha destabilizzato ogni misura di buon senso: la forza dell’amore del padre.
Chiama un servo per farso spiegare cosa stia accadendo. Una scelta astuta! Non entra in casa a rendersi conto di persona, per non doversi trovare dinanzi alla forza travolgente della gioia del padre. Rimane fuori, in un luogo per lui sicuro, dove ancora può resistere con le sue convinzioni schematiche. E per avere informazioni chiede a un suo subalterno. Cosa avrebbe potuto dirgli quel malcapitato? Avrebbe potuto forse esternare gioia, sapendo di trovarsi davanti il figlio maggiore che certamente non avrebbe gradito? Si fa raccontare l’accaduto esattamente come lui lo avrebbe raccontato: come l’assurda reazione di un padre che ha perso il buon senso, riaccogliendo con tanta esultanza un figlio, che non meritava assolutamente nulla.
E qui il padre, ancora una volta, sbaraglia gli schemi e non pone limiti. Avrebbe potuto mandare un servo ad ordinare al figlio maggiore di entrare ed unirsi alla festa per rispetto e per salvare le apparenze. Ma quel padre, come era uscito incontro al figlio più piccolo, esce incontro al figlio più grande e gli parla, gli spiega, gli apre il cuore, perché è lì che anche questo figlio ha bisogno di abitare, perché non ha senso abitare sotto lo stesso tetto del padre, senza abitare anche il suo cuore.
Il maggiore esprime tutta la sua indignazione. Quel figlio degenerato aveva sperperato tutti i suoi (del padre) averi: si tratta in senso stretto di una esagerazione, perché ne aveva sperperato solo la metà. Ma la rabbia è tale da perdere il senso del reale e della misura. E li aveva "sperperati con le prostitute": tentativo malizioso e meschino. Luca ci dice che il giovane aveva vissuto da dissoluto, ma non dice che lo aveva fatto con le prostitute. È la calunnia, che non viene disdegnata da chi presume di essere giusto, per colpire e magari distruggere chi ha sbagliato ed ha avuto l’ardire di tornare.
Quando poi questo figlio descrive se stesso ed il suo rapporto con il padre, lo fa in termini di merito, pensa di descrivere se stesso in modo positivo. Vediamo se è proprio così:
1. Ecco, io ti servo (douleuo): il salariato (mistios) era sottoposto ad un duro lavoro, ma era libero; il doulovinvece era sottomesso e schiavo. Questo figlio, pur vivendo e lavorando con il padre, non ha compreso il suo rapporto con lui e soprattutto non ha compreso il posto che lui ha nella casa e nel cuore del padre. È davvero poi tanto differente dal fratello minore?
2. da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando: Luca gioca con allusioni letterarie: è evidente che sta facendo riferimento ai comandi della Legge della Torah e all’osservanza delle leggi per ottenere una ricompensa. Anche in questo, è così diverso dal fratello che voleva tornare a casa del padre, per assicurarsi uno stipendio e del cibo? In fondo anche lui non fa tutto per utilitarismo?
3. e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici: ritenere di aver bisogno del permesso in casa propria mostra la lontananza di questo figlio dal padre. È furbo perché parla di “capretto” mentre per l’altro è stato ucciso il “vitello”, ma la sostanza non cambia ed il padre glielo dirà chiaramente, gli darà la porta di accesso, la chiave di comprensione di come egli deve sentirsi figlio e vivere questo rapporto: “ciò che è mio è tuo”. Anche in questo il fratello maggiore, nella sua presunta assennatezza, non è diverso dalla dissennatezza del minore: il più piccolo pretende ciò che non gli appartiene ed il più grande neppure sa cosa gli appartenga. E tutto ciò dipende dal fatto principale: nessuno dei due ha compreso e vissuto bene il proprio rapporto con il padre.
Qui si evidenzia e si priva ciò che avevamo detto all’inizio: ci si può perdere fuori di casa, ma ci si può perdere ugualmente in casa. Il punto nevralgico sta nell’accettazione e nell’esercizio della propria libertà: il primo la sperpera andandosene, abusandone, pensando di poterla trovare lontano dal padre; il secondo ugualmente la sperpera, non usandone, pensando di non averla per aver impostato un rapporto sbagliato con il padre. Tanto l’uno tanto l’altro sprecano il dono della loro libertà.
Rimane, però, un fatto: il figlio minore, con le se pretese sfacciate, con il cumulo dei suoi errori, forse con l’antipatia quasi innata che attira, rientra in casa. Ed il figlio maggiore, con il suo lavoro vissuto come obbligo e non come condivisione della vita del padre, formalmente corretto ma sostanzialmente lontano dal cuore del padre, forse con l’empatia quasi innata che suscita, cosa fa? Entra? Rimane fuori? Non lo sappiamo! Luca non ce lo dice, lascia una conclusione aperta, quasi a dire: adesso scegliete!
E parlasse proprio di noi questa parabola? Noi, chi siamo di questi personaggi? Il figlio più grande, quello più piccolo, un pericoloso e terribile mix dei due? Una cosa è certa: nessuno di noi potrà mai identificarsi con il padre, il cui amore è totale e raggiunge tutti, che compie la sua giustizia nella sua misericordia, che esce ripetutamente dalla casa per andare incontro ai suoi figli e per questo è giusto perché rende giusti, è giusto perché giustifica!
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