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La risurrezione di Lazzaro. La parola dell'Abate dom Antonio Perrella

La risurrezione di Lazzaro: l'inarrestabile potenza della vita e della condivisione contro i profeti di sventura... in abito talare.

Meditazione del nostro Padre Abate dom Antonio Perrella

sul Vangelo della V domenica di Deserto (quaresima) Gv 11, 1-57


l'inarrestabile potenza della vita e della condivisione


Cari Fratelli e Sorelle,

Il brano della risurrezione di Lazzaro ci viene donato in questa V domenica del deserto pre-pasquale come un vero dono dal cielo. A Betania, ed in modo particolare nella famiglia di Lazzaro, regnava l’oppressione della malattia e della morte, e lì Gesù si rende presente come colui che ridona la vita.


Sappiamo che al tempo di Gesù la questione della risurrezione dei morti non era comunemente accettata. In Mc 12,18-27 i sadducei pongono una domanda a Gesù su una donna, moglie di sette mariti, che l’avevano lasciata senza figli. Era evidentemente una domanda polemica, posta col fine di ridicolizzare Gesù, che invece sembrava affermare la verità della risurrezione. I sadducei erano gli eredi di una casta sacerdotale aristocratica, ricca e proprietaria terriera. Per essi la ricchezza e la prosperità su questa terra erano la ricompensa per la fedeltà alla Legge di Dio, quindi non bisognava aspettarsi alcuna vita eterna ed alcuna risurrezione. Sebbene non fossero amati dal popolo, di cui non si prendevano cura, impegnati com’erano a detenere il loro potere politico-religioso, non si può certo negare che mantenevano tutta la loro influenza culturale, proprio perché la vita ed il salario di molti dipendevano da loro. Pur essendo un gruppo elitario e ristretto, il loro potere economico forniva loro una buona capacità di penetrazione culturale delle masse e di influenzare la cultura diffusa.


Del resto, un popolo lungamente provato dall’oppressione di un impero straniero, sottoposto ad una triplice legge (quella di Roma, quella del re locale e quella del Tempio), con tutte le angherie connesse, doveva certamente essere un popolo stremato moralmente, per il quale il massimo di speranza doveva essere la quotidiana sopravvivenza. Ciò che i sadducei teorizzavano, cioè il non esserci vita eterna e risurrezione, la gente comune forse lo riteneva, occupata com’era a strappare uno scampolo di vita ogni giorno su questa terra.


Alla luce di questo contesto culturale e religioso è più facile comprendere l’evento della risurrezione di Lazzaro e la grande eco che essa ebbe, tanto da far decidere al sommo sacerdote che Gesù doveva morire (cf Gv 11,53). Il segno della risurrezione era troppo eloquente ed incontrastabile per temporeggiare ancora, quel Gesù andava eliminato.

Ora, cari amici ed amiche, anche noi stiamo vivendo un tempo di apprensione e, per certi versi, di oppressione. La pandemia mondiale che ci ha colpiti ci fa ascoltare ogni giorno bollettini di guerra, tanto da essere arrivati al punto quasi di gioire quando sentiamo che in Italia i nuovi ammalati sono 3400 circa al giorno. Tiriamo un sospiro di sollievo perché sono oltre 2000 malati in meno rispetto alla settimana scorsa, ma non pensiamo che si tratta comunque e sempre di 3400 persone, 3400 famiglie che stanno vivendo quella sofferenza. Il dolore prolungato corre il rischio di causare e radicare una certa forma di cinismo. Abbiamo imparato a sentirci sollevati per un danno limitato, senza pensare che quel danno riguarda comunque la vita di migliaia di persone. In questo contesto, esattamente come in quello in cui Gesù visse ed operò, forse, anche la nostra speranza nella potenza della vita, della vita eterna e della risurrezione, si affievolisce. Ci accontentiamo di non leggere in quel bollettino il nome nostro o di qualche nostro caro. Dico queste cose non certo perché ci sentiamo accusati, ma solo per sottolineare come, talvolta, nella nostra mente scattano degli involontari meccanismi di difesa. Ce ne dobbiamo accorgere, per neutralizzare, finché possiamo, la capacità che questi meccanismi mentali hanno di avvelenare il nostro animo.


In questo tempo di sofferenza e morte diffuse, la forza della vita si fa strada: il coraggio e la tenacia dei medici e degli infermieri, che stanno pagando un prezzo altissimo in termini di vita, di salute, di lavoro, di rinuncia a vivere i propri affetti, i molteplici volontari, le donazioni dei cittadini alla Protezione civile. Abbiamo vissuto momenti di una tenerezza infinita quando, affacciati dai balconi, abbiamo cantato l’inno nazionale, abbiamo scherzato con le persone che abitano nel nostro palazzo, magari persone che incontrando per le scale o in ascensore a stento salutavamo. Ci siamo messi in gioco offrendo le nostre seconde case per l’accoglienza di chi deve fare la quarantena o deve curarsi ma non trova posto in ospedale. Ci siamo prestati ad andare a fare la spesa agli anziani, che – essendo tra i più vulnerabili – hanno maggior bisogno di stare a casa.

La sofferenza e la morte hanno steso sui nostri cuori la loro coltre nera e pesante, eppure la potenza dell’amore e della vita ha reagito e quella coltre è costellata di lacerazioni che, prima o poi, la porteranno a frantumarsi. Questa è anzitutto la potenza della risurrezione che Gesù viene a portare in mezzo a noi, come la portò a Betania.

Più volte in questo tempo ho ascoltato domande come queste: Ma perché Dio ci ha mandato questo castigo? Perché il Signore ci sta mettendo alla prova? Dov’è Dio in tutto questo? Sono le stesse domande che ogni volta l’umanità si pone dinanzi al mistero del male e della sofferenza. Anche qui la risposta la troviamo nella Parola di Dio, unica fonte di vita e conoscenza vera.


Il brano della risurrezione di Lazzaro è molto conosciuto proprio per la manifestazione di potenza divina da parte di Gesù attraverso la risurrezione dell’amico. Purtroppo, questo brano non è altrettanto conosciuto per la uguale manifestazione della potenza umana di Gesù. E quale sarebbe la potenza umana?


Andiamo al testo per comprenderlo! Questo brano è uno di quelli in cui le emozioni ed i sentimenti umani non solo vengono sdoganati, ma addirittura la fanno da padroni.

L’amicizia e l’affetto di Gesù verso Lazzaro sono espressi ben due volte: nel v. 3 e nel v. 5. C’è, però, una differenza! Nel v. 3 l’amore di Gesù è espresso con il verbo phyleo, che indica l’amore amicale, l’affetto umano. Nel v. 5, invece, lo stesso sentimento è espresso con il verbo agapao, che vuol dire sempre amare ma è un verbo usato solo nel Nuovo Testamento e sta ad indicare l’amore divino. Tutti gli studiosi sono concordi nel dire che il v. 5 è un’aggiunta successiva; quasi a dire, che ad un certo punto si volle aggiungere il verbo agapao perché sembrava quasi scandaloso attribuire a Gesù, il Figlio di Dio, un sentimento troppo umano come quello della phylia. Ma il testo più antico proprio questo ci dice: che Gesù amava con un cuore umano, si legava, provava affetto e probabilmente non aveva paura di dire alle persone “ti voglio bene!”.


Anche la reazione di Gesù davanti alla morte dell’amico ci parla di sentimenti estremamente umani ed è espressa anche qui per due volte. La prima, nel v. 33, l’evangelista scrive che Gesù enebrimésato tō pneúmati (si commosse nello spirito, nel suo intimo più profondo) e etáraxen heautón (si turbò). Nel v. 38, quasi a rafforzare questa commozione intima di Gesù, che lo pervade fin nelle fibre più profonde del suo cuore e del suo essere, si ripete embrimómenos en heautó (commosso dentro se stesso). Il fatto che l’evangelista per ben due volte senta il bisogno di esprimere la commozione di Gesù dinanzi al medesimo evento è davvero significativo. Tuttavia, un’attenzione particolare merita il v. 33 nel quale la reazione di Gesù è espressa con due verbi: commuoversi e turbarsi. Secondo alcuni si tratta di una endiadi, cioè dello stesso concetto ripetuto due volte con due termini differenti. In realtà, esiste una seconda possibilità interpretativa, che a partire da una comparazione con altri testi dimostra che il versetto potrebbe essere tradotto anche in questo modo: Gesù si turbò in se stesso e sbuffò adirato.


Ma come? Gesù sbuffò? E con chi ce l’aveva? Quella reazione nasce dopo che Gesù ha visto il pianto di Maria e di tutti gli astanti. Quindi, sbuffa e si adira contro la morte! Sì, perché Dio si adira dinanzi a tutto ciò che opprime l’uomo, a ciò che gli toglie la gioia della vita. Dio si lega e si compromette così tanto con la vita della sua creatura, da condividerne la situazione ed i sentimenti.


Questa manifestazione dell’umanità di Gesù è meravigliosa! Proprio mentre egli manifesta la sua divinità, con la potenza della risurrezione, così anche manifesta la sua umanità, con la potenza della compassione e della capacità di condividere il dolore. Per questo motivo, prima ho detto che la solidarietà umana è la manifestazione della potenza della risurrezione in questo contesto di morte. Più siamo umani e più si manifesta la presenza di Dio in mezzo a noi; più siamo solidali e più la risurrezione si fa strada in noi.


In questi giorni, non poche persone mi hanno contattato, turbate da ciò che hanno ascoltato in alcune omelie, anche di ecclesiastici con ruoli di responsabilità e guida importanti, nelle quali non parlano apertamente di castigo di Dio o di prova da parte di Dio, ma alla fine, pur senza usare le parole, esprimono esattamente questo concetto.

Un predicatore radiofonico – di una nota emittente radio cattolica – si è cimentato in una ricostruzione di tutte le pandemie dell’ultimo secolo e, legandole a dei presunti messaggi mariani, ha usato toni e contenuti apocalittici, quasi che Dio ci stiano dando degli avvertimenti di pazienza finita. Domenica scorsa, commentando il vangelo del cieco nato e riportando la famosa domanda dei discepoli di Gesù sull’origine di quella malattia (ha peccato lui o i suoi genitori?), un vescovo ha iniziato bene, dicendo: «Questo è un messaggio chiaro per dire che questa pandemia, in cui ci troviamo, non è una punizione, un castigo di Dio, ma è un’occasione perché si manifestino le opere di Dio». E fin qui ci può stare. Peccato che subito dopo abbia aggiunto: «è un avviso, è un richiamo, è un’allerta perché non possiamo continuare a vivere così da sconsiderati. È un richiamo, non una punizione, è un’opportunità che abbiamo nel dolore, nel dramma, nella sofferenza».


Ed ecco la catastrofe biblica, teologica e spirituale! E nessuno si senta offeso, perché offesi ci sentiamo noi a dover ascoltare questo fiume in piena di “considerazioni sconsiderate”. Ma – Dio sia benedetto – dire che questa pandemia è un richiamo di Dio in cosa sarebbe diverso dal dire che è un suo castigo? Sempre da Dio viene, sì, magari, per risvegliare le nostre coscienze, ma poco importa il motivo, il problema è sempre l’attribuzione alla volontà di Dio di una situazione che crea la sofferenza e la morte delle persone! Questa – con buona pace di tutti – è ignoranza della Sacra Scrittura e del Nuovo Testamento in particolare.


E non finisce qui! Che le situazioni ci interpellino e ci devono portare a porci delle domande, è pacifico: non saremmo uomini e donne, cioè persone dotate di intelletto e responsabilità. Ma, ancora una volta, attribuire a Dio la volontà di darci uno scossone attraverso la pandemia è davvero insopportabile. Le parole sono chiare: «Capite? Allora questo è il metodo in cui noi reagiamo di fronte alla realtà: quando non riconosciamo la realtà, non riconosciamo i fatti, perché il Signore si manifesta attraverso i fatti. Questi fatti ci provocano, questa pandemia che sta succedendo mette in discussione tutto l’orgoglio del mondo. Abbiamo creato un mondo: siamo autonomi, siamo capaci; siamo fragili! E quindi i fatti li dobbiamo riconoscere, riconoscere i fatti e non essere chiusi, farci provocare e nei fatti è presente il Signore, che ci viene incontro scuotendoci in questa situazione».


Vi supplico: basta! Dite chiaramente quello che pensate! State dicendo che Dio ci ha mandato questo male perché noi abbiamo usato male della nostra libertà e siamo stati irresponsabili. Assumetevi la responsabilità di dire con chiarezza quello che pensate! Perché state dimostrando che non avete il coraggio di essere chiari, perché sapete che il buon popolo di Dio si ribellerebbe a tanto condensato di Medioevo al quale voi siete rimasti bloccati, mentre il popolo di Dio vi ha superati. È un fatto di onestà intellettuale: o pensavate davvero che le persone non se ne sarebbero accorte? Ma così basso è il concetto che avete del vostro popolo? Pensate davvero che la gente sia così ignorante da non accorgersi dei voli pindarici che fate per coprire di “politicamente corretto” i pensieri teologicamente scorretti che propinate dai vostri pulpiti?


Dire che Dio ci scuote con la morte delle persone, dire che Dio ci richiama e ci dà un’allerta con il coronavirus è corruzione del significato della Parola di Dio che avvelena il cuore dei fedeli che dovreste guidare e consolare.


Fratelli e sorelle, non ascoltate questi profeti di sventura! Bene farebbero ad usare questa quarantena forzata per tacere un po’ e studiare un po’ di più la Parola di Dio, per non spacciare più come Parola di Dio le loro depravazioni teologiche e moralistiche.

La sofferenza, la malattia e la morte sono l’imponderabile della vita, frutto della libertà assoluta (che anche Dio rispetta) data dal Signore sia a noi sia alla natura. Questa è la vita! Se poi dai drammi della vita noi sappiamo trarre un insegnamento per migliorarci e per aprire il cuore alla condivisione del dramma, alla condivisione di come lo si affronta e alla condivisione degli sforzi che tutti faremo per rialzarci, allora sì in quella forza di umanità positiva, lì e solo lì c’è Dio. Il resto è idiozia, se non addirittura bestemmia!


Dom Tonino +






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