"Lo stile di vita spirituale (cioè che nasce dallo Spirito) è, al tempo stesso, proclamazione della vita nuova che è dono e amore e accusa della vita vecchia, che è egoismo e chiusura!". Alcune delle parole dell'omelia l'Abate dom Tonino per la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per la Pentecoste
Anche alla Christiana Fraternitas, presso Abbey House, si è celebrata la Pentecoste. La lode della Comunità per i doni dello Spirito si è tenuta in due momenti: la veglia ecumenica venerdì 21 maggio e la Celebrazione della Parola con la Commemorazione della Cena del Signore sabato 22 maggio 2021.
I momenti di preghiera si sono svolti presso i giardini di Abbey House. Suggestivo il segno dell'unzione fatto in entrambi le occasioni.
Riportiamo qui sotto i testi integrali delle meditazioni
del Rev. mo Abate dom Antonio Perrella
in occasione della veglia di Pentecoste
Testo di riferimento Gen 1, 1-5
Prima meditazione
Cari fratelli e sorelle, la terra era vuota e informe. Tutto era tenebra, statica, immobile, che ricopriva ogni cosa. Vi è solo un movimento: lo spirito di Dio che aleggia. In realtà, l’immagine presente nel testo masoretico è molto più incisiva e dice così: mentre la terra era vacua e vuota, la tenebra era al di sopra dell’abisso; e l’alito di Dio aleggiava al di sopra delle acque. E Dio disse: sia!
L’immagine è potente: questo soffio di Dio non è solo il suo respiro, ma è l’emissione dell’aria dai suoi polmoni nell’atto di parlare. Sappiamo che la nostra voce è il risultato dell’aria che esce da noi e mette in movimento le nostre corde vocali. Bene! Genesi usa proprio questa immagine.
Dio parla: da lui escono alito-soffio e parola; e tutto ciò che era informe e tenebroso prende forma e colore. Questo alito, però, non si perde: aleggia, ovvero continua a danzare in volo sul creato che prende forma.
Dio crea con la sua Parola (il suo Verbo) e con il suo Alito (lo Spirito); e questo Spirito continua a danzare il canto della vita su tutto ciò che esiste. Da lui siamo venuti e grazie a Lui rimaniamo nell’esistenza, per questo è invocato come Spirito vivificante e vivificatore: dà l’esistenza e mantiene nell’esistenza. Senza di Lui ricadremmo nel nulla, nell’abisso del niente, nel vacuo e nel vuoto delle tenebre.
Quando la vita sembra difficile, pesante, alziamo lo sguardo verso il cielo, ascoltiamo il vento, guardiamo le fronde degli alberi che danzano mentre il vento le accarezza e le sferza: è Lui, lo Spirito di Dio, che ci ricorda: io ci sono, sono rimasto qui, dalla notte dei tempi, perché la tua sia vita vera!
Seconda meditazione
Testo di riferimento Gen 11, 1-9
E gli uomini dissero… Ancora una volta una parola da cui prende inizio un’opera, proprio come nella creazione. Quando Dio crea, però, dà l’esistenza alle creature perché esse siano se stesse. Non le vuole come una brutta copia di sé; devono essere se stesse, nella pienezza della loro identità e natura. Dio dona l’esistenza e lascia semplicemente che essa sia. Sfiora la creatura con al delicatezza del suo amore ma non la vìola.
L’uomo, invece, no! La sua parola esprime progetto di conquista di ciò che non è suo. Non è contento di ciò che è e di ciò che ha; pensa che superare il proprio limite è prendere il posto di Dio, il posto di un altro e che questo possa renderlo più felice. La sua smania di conquista non nasce dal desiderio di migliorare se stesso, ma da quello di possedere, di non avere limiti, di prevaricare tutto, persino Dio.
L’uomo ha perso la capacità di sfiorare, di accarezzare; sa prendere, afferrare, impugnare. La delicatezza del tocco, che scorre sul confine senza varcarlo, è per noi esperienza persa, quasi sconosciuta. Siamo passati dal brivido emozionante della carezza alla bramosìa dell’afferrare.
Fermiamoci. Impariamo, alla luce dello Spirito, a guardare i confini, a riconoscere i limiti, ad amare le demarcazioni: sono la porta dell’infinito, la gioia dell’incontro che non invade, della vicinanza che non sovrasta, della presenza che non incombe.
Terza meditazione
Testo di riferimento Es 3, 1-8a. 13-15
Dio parla a Mosè e lo chiama con il suo nome. Poi, persino, gli rivelerà il proprio nome.
Nella tradizione ebraica il nome indica, è la persona!
Qual è il nome di Dio? Io sono colui che sono; così viene tradotto. Io sono, è il nome con cui Dio si lascia chiamare. Ed è da qui che prenderà forma il tetragramma sacro che i nostri fratelli ebrei non pronunciano mai per rispetto alla santità dell’Altissimo. C’è, però, un’altra possibilità: indubbiamente ci troviamo dinanzi ad una forma del verbo essere (hāyâ) ma potrebbe trattarsi di una forma causativa. In questo modo Dio è, ma è anche Colui che fa essere, che crea. In questo caso ci troveremmo di nuovo dinanzi a Dio che esce, si muove, per far essere il suo popolo quello che avrebbe dovuto essere: un popolo libero e non oppresso.
Nel brano della vocazione di Mosè ci troviamo dinanzi ad un imponente contrasto: il roveto che arde ma non si consuma è il segno del modo con cui Dio si rapporta all’uomo: lo ama, gli dà l’esistenza, ma non lo consuma, perché non vuole possederlo. L’Egitto ed il faraone, invece, possiedono quel popolo e lo consumano con lo sfruttamento. Ma Dio è fedele alla sua parola di vita e non può più tollerare che ciò che Lui ha creato come libero e degno in sé venga ulteriormente calpestato.
Il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe è colui che, nello scorrere del tempo e delle generazioni, rimane fedele alle sue promesse di vita donata.
Per questo Dio chiama Mosè per nome e gli rivela il Suo Nome: sono due nomi, due “persone” che si riconoscono reciprocamente. Sono un “io” e un “tu” che stanno di fronte l’uno all’altro, si guardano in faccia e lasciano che ognuno sia, sia se stesso, sia per se stesso, non per quello che uno può trarre dall’altro.
Alla luce dello Spirito, torniamo a guardare il Volto di Dio, a stare in silenzio davanti a Lui, a non far altro che guardarLo e lasciarci guardare; in contemplazione silenziosa. Da lì impareremo a guardare in modo nuovo il volto dell’altro : è l’immagine di una dignità inviolabile e incalpestabile. Togliamoci i sandali dell’arroganza, della supremazia, dello sfruttamento. Il volto ed il nome dell’altro sono un terreno sacro che non possiamo calpestare. Quel volto è il roveto in cui arde il fuoco dello Spirito della vita, senza consumarlo. Perché solo quando avremo imparato a bearci del volto di Dio e del nostro fratello, potremo guardare senza vergogna al nostro stesso volto.
Quarta meditazione
Testo di riferimento Ez 37, 1-14
Ezechiele: uno dei profeti maggiormente amati ed usati da Gesù. Da lui trae l’immagine dei cattivi pastori, l’interpretazione spirituale del tempio, l’asinello sulla cui sella entra a Gerusalemme.
Ezechiele chiamato a profetare alle ossa morte perché si ricompongano e si ricostruiscano i tessuti; ma anche chiamato a profetare allo Spirito perché dia vita nuova. Sembra strano quest’ordine di Dio: profetizza allo Spirito. Come è possibile che un uomo profetizzi a Dio?
Profeta deriva da pro-femì, che vuol dire al tempo stesso “parlare al posto di qualcuno” e “parlare dinanzi a qualcuno”. Ciò è possibile perché la mano del Signore (altra immagine per indicare lo Spirito Santo) sta sul profeta: dallo Spirito egli trae la potenza di parlare dinanzi agli uomini in nome di Dio e di parlare dinanzi a Dio a nome degli uomini.
A Dio egli innalza il grido degli uomini, ridotti ad ossa e scheletri, a causa della violenza e della guerra; agli uomini egli rivolge la parola di Dio che è capace di donare loro una vita sempre nuova. Il profeta, quindi, è colui che dice e compie azioni che danno vita. No, il profeta non è un parolaio; egli è uno che si compromette in prima persona e parla della vita, protegge la vita, promuove la vita e la dona. Egli è la parola e l’azione di vita in un campo di morte.
Torniamo a parlare con Dio e a parlare di Dio, riscopriamo le parole che hanno veramente senso, perché donano vita. Riappropriamoci delle parole che nascono dal silenzio della preghiera e della contemplazione. Saranno poche, ma potenti, perché saranno come le Parole che escono dalla bocca di Dio e provengono dal suo silenzio: saranno parole di vita eterna!
Meditazione all'Evangelo
Testo di riferimento Gv 7, 37-39
Cari Fratelli e Sorelle,
per comprendere queste parole del Signore, è necessario ricostruire il contesto rituale in cui esse si inseriscono. L’evangelista ci dice che Gesù le pronuncia nell’ultimo e più solenne giorno della festa dei tabernacoli o delle capanne. Era inizialmente una festa autunnale per il raccolto. Per celebrarla, il popolo costruiva delle capanne di rami d’albero. Da qui iniziò ad essere vissuta come ricordo dell’esodo nel deserto, quando il Israele viveva nelle tende. Nel giorno più solenne, due riti venivano compiuti: la libagione dell’acqua e l’accensione delle luci. Le parole pronunciate da Gesù nel corso di questa festa suonano come una attribuzione mistagogica a se stesso dei due riti: lui è la sorgente dell’acqua viva (7,37-39) e sempre lui è la luce del mondo (8, 12-20). E con lui lo sarà anche chi crede in lui.
Nella nostra pericope si fa riferimento alla libagione dell’acqua. Un corteo scendeva dal tempio fino alla piscina di Siloe e vi attingeva dell’acqua con una brocca d’oro. Quell’acqua veniva portata al tempio ed il sacerdote faceva la libagione sull’altare con quell’acqua e con il vino. Il rivolo che scendeva dall’altare veniva alimentato fintanto che non usciva dal tempio. Questo rito sembra richiamare la visione di Ezechiele (47,1-12) ma in qualche modo prelude anche all’immagine giovannea del Cristo crocifisso dal cui costato scaturiscono acqua e sangue (Gv 19,34).
È alla luce di questo contesto rituale che possiamo comprendere bene la pericope appena proclamata.
Gesù si mette in piedi. Probabilmente si trovava nel cortile del tempio ed insegnava stando seduto. Ad un certo punto vuole pronunciare qualcosa e vuole che il maggior numero di persone lo senta. Si alza e grida a gran voce le parole: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva». Il versetto seguente è una interpretazione che potrebbe persino essere una glossa aggiunta al testo originario di Giovanni.
La punteggiatura del testo pone un problema, perché esistono due redazioni-interpretazioni e tutte e due sono possibili. La prima è quella che noi abbiamo letto. In questa traduzione la citazione della Scrittura è riferita a Gesù. Praticamente il Signore sta dicendo: se hai sete vieni a me e bevi. Se credi in me, bevi da me perché fiumi di acqua viva sgorgano dal mio grembo. L’altra invece suonerebbe così: «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me - come dice la Scrittura – fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo grembo». In tal caso la citazione della Scrittura si riferirebbe al credente che, abbeveratosi a Cristo, diventa egli stesso a sua volta fonte zampillante.
Ambedue le interpretazioni sono possibili e da sempre sono coesistite e questo vuol dire che sin dagli inizi i discepoli di Gesù hanno compreso che il Signore ha condiviso con loro tutto ciò era suo, ha dato loro la possibilità di essere partecipi della sua vita, della sua natura, della sua grazia. Lui è la roccia da cui sgorga l’acqua viva, che è lo Spirito, ma chi beve all’acqua di quella roccia è, a sua volta, trasformato in una fonte zampillante ed inesauribile.
Nelle sue istruzione, l’abate Colombano commenta con parole mirabili (Istruzione su Cristo fonte di vita, n. 13,1-2):
Fratelli carissimi, ascoltate attentamente. Ciò che vi dirò è necessario al vostro bene. Sono verità che ristoreranno la sete della nostra anima. Vi parlerò infatti della inesauribile sorgente divina. Però, per quanto sembri paradossale, vi dirò: Non estinguete mai la vostra sete. Così potrete continuare a bere alla sorgente della vita, senza smettere mai di desiderarla. […] Beve di lui chi lo ama. Beve di lui chi si disseta della parola di Dio; chi lo ama ardentemente e con vivo desiderio. Beve di lui chi arde di amore […]. Con tutta la forza del nostro amore beviamo di lui che è la nostra sorgente; attingiamo da lui con tutta l’intensità del nostro cuore e gustiamo la dolcezza del suo amore. […] Questa fonte è per chi ha sete, non per chi è sazio. […] E’ dunque necessario, o fratelli, che noi sempre desideriamo, cerchiamo e amiamo «la fonte della sapienza, il Verbo di Dio altissimo » (Sir 1, 5 volg.), nel quale, secondo le parole dell’Apostolo, «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza » (Col 2, 3)».
Ecco, cari amici ed amiche, occorre avere sete, bisogna non estinguere la sete. Spesso chiediamo al Signore si dissetarci e sfamarci. Il vero punto è che dovremmo chiedergli di mantenerci assetati di Lui.
Lo Spirito dilata il cuore e la vita, sempre verso orizzonti più grandi ed estesi, verso gli orizzonti dell’amore. Solo la dinamica di questo inestinguibile desiderio ci fa abbeverare a Lui.
Agostino parla di tutta la vita del credente come di una ginnastica del desiderio. Egli fu instancabile cercatore di Dio; assetato di Dio e del suo amore: più ti cerco e più ti trovo; più ti trovo e più ti desidero. Questo è ciò che ha vissuto e ci ha trasmesso. Con parole efficaci lo dice nel suo Trattato sulla prima lettera di Giovanni:
«Se tu devi riempire un recipiente e sai che sarà molto abbondante quanto ti verrà dato, cerchi di aumentare la capacità del sacco, dell’otre o di qualsiasi altro contenitore adottato. Ampliandolo lo rendi più capace. Allo stesso modo si comporta Dio. Facendoci attendere, intensifica il nostro desiderio, col desiderio dilata l’animo e, dilatandolo, lo rende più capace. Cerchiamo, quindi, di vivere in un clima di desiderio perché dobbiamo essere riempiti. La nostra vita è una ginnastica del desiderio» (Tratt. 4, 6; PL 35, 2008-2009).
Spirito di Dio, acqua viva e zampillante, che sgorghi dal grembo e dal cuore di Cristo, dissetaci di te, ma suscita in noi un sempre e nuovo desiderio di dissetarci ancora. Placa la nostra sete, senza estinguerla; riempi il nostro cuore, accendendolo di un desiderio sempre più grande.
Qui sotto il video integrale della veglia di Pentecoste
Riportiamo qui sotto il testo integrale dell'omelia
del Rev. mo Abate dom Antonio Perrella
in occasione della Celebrazione della Parola in Pentecoste
Testo di riferimento Gv 15 ,26-27; 16, 12-15
Cari Fratelli e Sorelle,
il testo dell’Evangelo di Giovanni, che abbiamo appena ascoltato, è il risultato di un “taglia e incolla”: 2 versetti sono presi dal capitolo 15 e 4 del capitolo 16. Sembra un collage arbitrario, eppure ha una profonda logica interiore perché ci descrive due delle più importanti azioni che lo Spirito compirà nella vita dei credenti e della Chiesa di Cristo: 1. darà testimonianza di Gesù e darà la forza della testimonianza di Gesù ai discepoli; 2. e poi li condurrà alla comprensione della verità, ricorderà ai discepoli le cose dette da Gesù e manifesterà loro quelle future. Così lo Spirito appare come colui che guida e sorregge il futuro cammino dei discepoli e delle discepole del Signore.
Tutto questo, però, è collocato in un contesto ben preciso: l’odio da parte del mondo verso il nome di Gesù, ovvero verso la rivelazione di Dio che lui ha compiuto, e, di conseguenza, verso coloro che credono nel nome di Gesù.
“Dare testimonianza” in questa pagina evangelica è espresso con un linguaggio forense: è la testimonianza processuale che difende dall’accusatore, anzi che accusa l’accusatore!
Ma perché l’evangelista dice che lo Spirito ed il credente danno testimonianza, accusando il mondo, che li odia? Perché lo stile di vita di colui che nasce dallo Spirito e cammina secondo lo Spirito è insopportabile per il mondo. Il mondo è tutto ciò che, a livello personale e a livello di sistemi, si oppone al Vangelo dell’amore e della grazia. È tutto ciò che fa della vita un’affermazione di se stessi, dei propri capricci sugli altri e contro gli altri. Lo stile di vita spirituale (cioè che nasce dallo Spirito) è, al tempo stesso, proclamazione della vita nuova che è dono e amore e accusa della vita vecchia, che è egoismo e chiusura!
Cari amici ed amiche, lo Spirito – che in abbondanza ci è stato donato e che oggi celebriamo – spezza le catene della nostra schiavitù e ci sospinge verso la libertà della vita piena e felice, esattamente come lo è stata quella di Gesù. Invochiamo lo Spirito no perché debba scendere in noi; è già sceso in tutti e tutte noi con la pentecoste; già dimora dentro di noi! Invochiamolo perché Dio ci dia la grazia di non soffocarlo mai!
Soffia su di noi, anzi scatena in noi la tua tempesta, o Spirito Paraclito, che procedi dal Padre per il Figlio.
Donaci sempre il tuo consiglio che ci fa scoprire in ogni evento il progetto meraviglioso che Dio ha su di noi. Spirito di consiglio, ricordaci che siamo fatti per essere un capolavoro nelle tue mani, ad immagine di Gesù, per la gloria del Padre. Dacci il tuo respiro ampio e vertiginoso nella vita, perché non stiamo rannicchiati ma dilatiamo il nostro cuore. Rendici consiglieri audaci dei fratelli, perché – attraverso la gioia della nostra vita in te – anch’essi sentano la nostalgia di ciò che possono essere.
Spirito di fortezza, custodiscici dallo scoraggiamento dinanzi alla fatica di essere costanti. Ricordaci che le cose che valgono nella nostra vita sono quelle per cui mettiamo impegno costante. Difendici dall’assalto costante della tentazione di pensare solo a noi stessi, di affermare noi stessi, e rendici liberi e gioiosi nel dono del nostro amore.
Portaci, o Spirito di intelletto, nella profondità delle cose. Non permettere che ci accontentiamo della superficie e dell’apparenza. Rivelaci il mistero infinito ed inebriante che tu hai posto nel mondo, nella storia, nelle persone, negli eventi, in noi stessi. E, se siamo a noi stessi una magna quaestio, una grande domanda, non è perché non comprendiamo, ma perché gustiamo la vertigine della grandezza che tu hai posto in noi.
E mentre scopriamo l’ineffabile mistero d’amore che è presente in tutto, risveglia in noi la pietà, ovvero il legame intimo e famigliare che c’è tra noi ed il Padre. Concedici di abbandonarci sempre al dolce abbraccio dell’amore di Dio, donaci di gustare sempre la gioia pacata e rasserenante di essere bimbi tra le braccia, degne di fiducia, del Padre loro.
Sapienza infinita, che esci dalla bocca dell’Altissimo, e pronunci il Verbo dell’esistenza, penetra nelle vene più profonde della nostra mente e del nostro cuore, perché riconosciamo che tutto sgorga dalla mano creatrice di Dio e che tutto – cosmo e uomini e donne – porta impresso il sigillo divino del Creatore.
Donaci sempre la Scienza che pure viene dall’alto, perché non pretendiamo di chiudere ogni cosa negli schemi rachitici delle nostre convinzioni, perché non assoggettiamo la realtà al nostro punto di vista, ma ci apriamo alla novità delle cose, che sono ciò che sono, perché così tu le hai plasmate. Dacci la grazia di stupirci ancora; di conoscere, amando, di amare, conoscendo, per non perdere la semplicità dei bimbi che sanno ancora meravigliarsi e gioire di ciò che hanno davanti a sé, come un prodigio al quale aprirsi amorevolmente, e non come un oggetto verso il quale protendersi rapacemente.
Spirito del timor di Dio, ricordaci la grandezza del Padre, da cui tutto proviene, la grandezza del Figlio, da cui tutto è stato redento, la grandezza tua, che rende santa e benedetta ogni cosa. Ricordaci la grandezza del mondo, la vastità del cosmo, la potenza ineffabile del mistero che è in ogni persona umana, ricordaci la grandezza che c’è in noi. Dacci il respiro dell’inifinito, la sobria ebbrezza della vita vera, la gioia mozzafiato provata da chi scopre di portare in sé le vestigia di un amore che tutto vince, di un progetto che tutto supera, di una grazia che tutto sostiene.
Spirito Paraclito, che procedi dal Padre per il Figlio, scuotici ancora una volta, e sempre. Amen.
Qui sotto il video integrale della veglia di Pentecoste
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