"la convivialità della comunità, la permanente presenza del Signore che si dona ed il servizio amorevole e vicendevole del fratello. Solo quando queste tre dimensioni sono ugualmente presenti e ugualmente operanti noi ci troviamo dinanzi ad una vera Chiesa di Cristo. Sono queste dimensioni che costituiscono e caratterizzano una comunità come Chiesa di Cristo". Alcune parole dell'omelia l'Abate dom Tonino per la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per la vigilia del giovedì santo.
Anche alla Christiana Fraternitas, presso la Cappella di Abbey House, mercoledì 13 aprile si è dato inizio al triduo pasquale con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola, la commemorazione della Cena del Signore e la lavanda dei piedi moderata dal nostro Abate dom Antonio Perrella.
Quattro sono state le persone alle quali è stato rivolto il segno della lavanda, quattro Presidenti di Associazioni che si sono strette alla Christiana Fraternitas per far fronte alle esigenze dell'accoglimento e l'accompagnamento di una famiglia ucraina, rifugiata di guerra, ospite presso la Casa d'Amministrazione della nostra Famiglia monastica. I nostri amici sono: Francesco Riondino, Presidente del CSV (Centro Servizi Volontariato) della provincia di Taranto; Alicia Minutillo, Vicepresidente di Migrantes; Filippo Stellato, Presidente della Pro Loco - Pulsano; Angela Pietra Blasi, Presidente di Ehtra Accademia Sociale.
Qui sotto il testo integrale dell'omelia del nostro
Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
Testi di riferimento Gv 13, 1-20
Carissimi fratelli e sorelle, care amiche ed amici!
Con questa celebrazione, nella nostra famiglia ecumenica, anticipiamo il primo giorno del Triduo santo: centro e culmine dell’anno liturgico perché si celebrano i misteri principali della nostra fede cristiana: la passione, morte e risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo. Con la cena del Signore, primo tra i misteri celebrati dal Triduo, eleviamo la nostra gratitudine al Signore Gesù, perché ci ha donato la sua presenza permanente in mezzo alla Chiesa. È a partire da questa sera, che noi sappiamo il modo con cui Gesù ha mantenuto fede alla sua promessa: io sarò con voi sino alla fine del mondo (Mt 28, 20).
Sappiamo che e tradizioni evangeliche differiscono sul racconto dell’ultima cena: i sinottici (Matteo, Marco e Luca) si concentrano sulla istituzione della Cena del Signore, mentre Giovanni, tralasciando la Cena, si concentra sul comandamento dell’amore e del servizio vicendevole. Le due cose si completano e – in un certo senso – si correggono a vicenda; mi spiego: una comunità cristiana non può fare solo memoria – per così dire “rituale” – della Cena, senza che essa non permei tutta la vita dei credenti perché assumano lo stesso spirito amorevole ed oblativo di Cristo; né una comunità cristiana può concentrarsi solo sul servizio dell’uomo, senza che questo scaturisca dalla memoria dell’amore donato da Gesù, nell’offerta di se stesso, così come viene vissuta nella Cena.
La Cena del Signore, quindi, ci ricorda tre dimensioni fondamentali e coesistenti della identità e della vita cristiana: la convivialità della comunità, la permanente presenza del Signore che si dona ed il servizio amorevole e vicendevole del fratello. Solo quando queste tre dimensioni sono ugualmente presenti e ugualmente operanti noi ci troviamo dinanzi ad una vera Chiesa di Cristo. Sono queste dimensioni che costituiscono e caratterizzano una comunità come Chiesa di Cristo, non certo gli istituzionalismi, il peso e l’influenza socio-politica di una società di persone. Al centro della Chiesa sta la presenza permanente di Cristo e del suo amore e da questa presenza ed amore scaturiscono, poi, l’amore tra i fratelli e l’amore verso tutti gli uomini e le donne.
Ma come Gesù – nel brano di Giovanni che abbiamo ascoltato – manifesta la sua presenza ed il suo amore? Anche in questo caso ci troviamo dinanzi ad un segno, ôt. Nel testo del quarto Evangelo, anzi, i segni assumono un significato del tutto particolare. Gli esegeti sono abbastanza concordi nel dire che l’evangelista abbia attinto – nella redazione del testo proclamato – ad una fonte pre-esistente. Come esisteva una sorta di “manualetto” in cui erano riportati i detti di Gesù (chiamata fonte Q) così probabilmente ne esisteva uno in cui erano riportati i segni compiuti da Gesù (libro dei segni). Sebbene la Cena nel vangelo di Giovanni non sia inserita nella sezione che egli dedica ai segni (miracoli), ma stia subito dopo, ciò non di meno quello che Gesù compie è un insegnamento composto da un segno (la lavanda dei piedi) e dalla sua spiegazione (quello che ho fatto io, il Maestro, dovrete fare anche voi).
Fratelli e sorelle, tenendo presente tutto quello che abbiamo detto sul segno in senso biblico nella Celebrazione delle Palme ora soffermiamoci sul segno che la pericope odierna ci offre. Gesù depone le sue vesti: è il segno della spoliazione di Dio o kenosi, dello svuotarsi della sua gloria, per assumere l’umanità e la condizione di servo, come brillantemente dirà l’inno di Filippesi 2. Si cinge i fianchi con un asciugatoio: cingersi i fianchi era tipico di chi si metteva in cammino. Praticamente serviva ad alzare la veste, perché l’orlo non strofinasse il suolo e non si consumasse ma anche per camminare più speditamente, agevolmente. Nell’Evangelo di Giovanni, questo verbo tornerà, quando Gesù risorto apparirà ai discepoli ad a Pietro dirà: un altro ti cingerà ai fianchi la veste e ti porterà dove tu non vuoi (cf. 21, 15-19). In quel gesto è quindi racchiuso un duplice significato: il Signore sta per iniziare il suo pellegrinaggio di amore e si cinge i fianchi perché chiunque voglia essere pellegrino con lui dovrà mettersi a servizio; ed il secondo significato è che questo pellegrinaggio di servizio dovrà essere vissuto fino alle sue estreme conseguenze, cioè a spogliarsi di se stessi fino alla morte per amore del fratello. Infine, preparati brocca e catino, come faceva il servo, si mette a lavare i piedi dei discepoli.
Per comprendere meglio il senso di tutto questo, dobbiamo farci aiutare dalla semiotica, la scienza che aiuta a decodificare i segni. Nella semiotica un movimento di qualcuno verso un altro è detto codice prossemico, ovvero un movimento di avvicinamento. Se il segno è compiuto attraverso un tocco, allora ci troviamo dinanzi al codice tattile. Quando sono uniti il codice prossemico ed il codice tattile ci troviamo dinanzi ad un segno di grande significato. Non ci facciamo caso ma sono cose che ci accadono ogni giorno, pensiamo: due persone si avvicinano e si tendono la mano. Non solo sono andate l’una verso l’altra, ma hanno annullato tutte le distanze, toccandosi; se, poi, invece di darsi la mano, si abbracciano, il legame è ancora più forte; ed, infine, se si baciano, il legame è divenuto intimo.
Con quell’andare verso i discepoli, avvicinandosi a loro e chinandosi ai loro piedi (parte più sporca e impura poiché allora non si indossavano calzini e scarpe), fino a toccarli per lavarli, Gesù sta creando un legame di identificazione con loro: d’ora innanzi ciò che il discepolo farà, sarà il maestro a farlo in lui; ciò che sarà fatto al discepolo, risulterà fatto al maestro. No esisterà più alcuna distinzione tra i due: servo si è fatto il maestro e servo dovrà farsi il discepolo; e, quando il discepolo si sarà fatto servo di un altro discepolo, solo allora starà servendo il suo maestro. La portata semiotica di quel segno è dirompente!
Perché quel linguaggio funzioni, però, non è solo necessario che il maestro tocchi, ma anche che il discepolo si lasci toccare. Il rifiuto a lasciarsi toccare spezzerebbe questa comunione ontologica e questa identificazione del maestro nel discepolo e del discepolo nel maestro. Per questo motivo Gesù, al riluttante Pietro – come abbiamo ascoltato - dirà: se non ti laverò non avrai parte con me. Non si tratta di un “lavare morale”, altrimenti non avrebbero senso le parole successive, in cui Gesù dice che i suoi discepoli che sono già puri. Evidentemente il significato di quel lavacro deve essere un altro: ed è esattamente questo toccare e lasciarsi toccare, che vuol dire lasciare che Gesù entri in comunione con noi e ci trasmetta la sua potenza di vita, di amore e di dono di se stesso! Solo la relazione vitale con lui ci permette di vivere in lui e come lui, che è esattamente il fine del nostro discepolato cristiano!
Il tocco, il tatto è uno dei sensi più potenti e intimi. Pensiamo a quando eravamo bambini: per sapere se avevamo la febbre, i nostri genitori ci mettevano una mano sulla fronte e, per fugare ogni dubbio, dopo poggiavano le loro labbra sulla fronte, pelle nuda a contatto, più sensibile al tocco e alle variazioni termiche.
Il Vangelo di oggi ci riporta al senso del tatto e all’uso che ne facciamo. Il tocco esprime sentimenti: c’è quello che avvolge, come l’abbraccio, e quello che respinge, come una spinta per allontanare qualcuno. C’è il tatto che accoglie (pensiamo a due mani protese con il palmo in su, la parte concava, che riceve) e quello che rapina (pensiamo alle mani protese, con il dorso in su e le dita che arraffano). Esiste, però, anche il rifiuto del tatto e del contatto, ricordiamo ancora: se Pietro non si lascerà toccare, non entrerà in comunione con Gesù.
Il tocco è uno dei nostri sensi più potenti; fintanto che vediamo o ascoltiamo -specialmente quando vittime di superficialità - la cosa sta fuori ed anche lontano da noi, ma quando la tocchiamo entra in relazione con noi in un modo del tutto particolare, tanto che il modo con cui tocchiamo esprime chiaramente il modo con cui ci relazioniamo al mondo ed alle persone.
Nell’Antico Testamento le proibizioni riguardo al toccare erano molteplici: non si poteva toccare un morto, né una donna con il ciclo mestruale o che aveva partorito, non si potevano magiare alcuni cibi, perché entrare in contatto con queste cose o persone rendeva impuri secondo la legge religiosa. La proibizione del tocco creava muri, separazioni, divisioni, distinzioni, discriminazioni. Lo indicava lo stesso lavaggio dei piedi nella società contemporanea a Gesù: era una consuetudine data dal fatto che spesso si camminava scalzi, era un segno di ospitalità rendere puri gli ospiti prima di accomodarsi in casa; a compiere questo sevizio era il servo – non ebreo - verso il padrone, della moglie verso il marito, dei figli verso il padre, del discepolo verso il maestro. Nel Vangelo che abbiamo ascoltato Gesù rovescia l’ordine delle cose: lui, il Maestro, tocca i piedi dei discepoli e li lava, nel bel mezzo di una cena e non prima di entrare in casa; quest’ultimo è un altro aspetto su cui oggi non possiamo soffermarci per non dilungarci. E ancora, i Vangeli ci mostrano che Gesù tocca continuamente: tocca la figlia morta del capo della sinagoga (Mc 5, 41) ed il lettino funebre del figlio della vedova di Nain (Lc 7, 14), si lascia toccare dall’emorroissa (Mc 5, 27). Ed è dal contatto con lui, dal suo tocco che si sprigiona la forza della vita, che sconfigge la morte, ogni sorta di morte.
Ora, dobbiamo chiederci: ed io come dispongo di questo senso che mi lascia percepire le realtà fuori di me e viceversa? come tocco? Il mio tocco è fonte di vita o di morte? Tocco e mi lascio toccare? Con quale disposizione psicologica, emotiva mi “gioco” questa mia dimensione sensoriale?
Ci sono alcuni che amano toccare, ma non essere toccati: e le due cose non sono identiche. Perché toccare significa protendersi veramente verso qualcuno solo se si è disposti a lasciarsi toccare.
Il tatto crea prossimità, vicinanza, perché permette di superare, varcare quella soglia di intimità che ognuno, idealmente, costruisce attorno a sé. Quando mi avvicino a qualcuno per toccarlo, al tempo stesso, permetto a quella persona di toccarmi. Gesù, nell'atto di lavare i piedi a Pietro, vuole toccare il discepolo, ma consente anche al discepolo di essere toccato da lui, di toccarlo a sua volta. Vuole, cioè, creare quella comunione che supera le differenze e le distanze. Ciò che è “intoccabile” – invece - ci rimane estraneo. Per questo il Verbo di Dio si è fatto carne, proprio per lasciarsi toccare da noi e toccarci intimamente. Lo dirà, con particolare afflato, la prima lettera di Giovanni: “Il Verbo della vita si è fatto carne e noi lo abbiamo visto, lo abbiamo udito, lo abbiamo toccato” (cf 1Gv 1,1-4).
Esiste, però, anche un modo sbagliato, persino perverso di toccare: è quello di chi vuole prendere, afferrare, rapire. È il tocco selvaggio e irrispettoso di chi vuole possedere senza volersi donare; di chi vuole prendere, senza lasciarsi accogliere; chi vuole usare, senza concedersi. Il tatto o esprime reciprocità e comunione o esprime violenza.
La semiotica del corpo e dei gesti – cioè la scienza che studia il linguaggio non verbale del corpo e delle sue posture – dice che il modo con cui una persona tende la mano per salutare esprime molto della sua personalità: ci sono persone che tendono la mano mettendo il palmo sotto ed il dorso sopra. Sono atteggiamenti tendenti al domino, che sovrasta, che non rispetta, che non consentono il mettersi alla pari, ma insinuano il bisogno di un’affermazione smisurata di se fino a schiacciare il prossimo.
Anche i nostri gesti liturgici esprimono questo significato: le nostre mani si elevano a Dio dalla parte del palmo, perché da lui attendiamo di ricevere, perché tendiamo le mani a lui che sulla croce ha già teso le sue verso di noi. Solo in un caso stendiamo le mani con il palmo in giù: quando invochiamo lo Spirito Santo perché scenda su di noi. Già gli Atti degli Apostoli conoscevano questo gesto, chiamato imposizione delle mani. Lì però la mano è il segno simbolico dello Spirito che scende dall’alto e ricopre della Sua grazia, della Sua potenza, della Sua ombra. Solo Dio può avere questo diritto a stare sopra, perché la Sua signorìa è signorìa di Amore e non di sorpruso. Noi tutti, invece, ci tendiamo reciprocamente la mano di lato, palmo a palmo, perché abbiamo il sacrosanto dovere di accoglierci reciprocamente.
Verso tutta la realtà, verso il mondo della natura e delle cose, e soprattutto verso le persone, ci si può accostare con il tocco manipolatore e con il tocco estatico, con una mano che sovrasta e schiaccia, respinge o una mano che sfiora, accarezza ed accoglie.
In un modo o nell’altro, il modo in cui tocchiamo e ci lasciamo toccare, riveleremo sempre, e più perfettamente alla luce della Parola di Dio, chi siamo veramente…
«Hanno mani e non toccano» (Sal 114) - da mani avide, possessive, inespressive e rapinatrici salvaci, Signore, con il tocco della tua Risurrezione. Amen.
dom Tonino +
Qui sotto il video della preghiera. Ci scusiamo ma il video si è interrotto durante l'omelia
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