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IV domenica d'Avvento. Expectantes beatam Spem: la Chiesa canta l'avvento del Regno

Sul Veni Redemptor gentium: "Il meraviglioso mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio ha come fine la salvezza dell’uomo; salvezza, tuttavia, intesa non solo come restituzione di una condizione perduta a causa del peccato, ma come dono di una condizione ancor più grande, qual è appunto la partecipazione alla natura divin". Alcune parole tratte dall'omelia dell'Abate Antonio Perrella per la IV domenica d'Avvento alla Christiana Fraternitas.


Sabato 17 dicembre 2022, IV domenica d'Avvento, presso la Cappella monastica ecumenica "Santi Benedetto e Scolastica" si è tenuta la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum". Ogni settimana d'Avvento l'Abate dom Antonio Perrella ha tenuto la predicazione sugli inni della liturgia delle ore propri di questo tempo forte. Il Quarto ed ultimo inno commentato è stato il Veni Redemptor gentium.



Testo integrale della IV predicazione

sul Veni Redemptor gentium

del nostro Rev.mo Abate dom Antonio Perrella


Carissimi Fratelli e Sorelle, il tempo di Avvento – come abbiamo spiegato in più occasioni – si suddivide in due segmenti: dalla I domenica di Avvento al 16 dicembre e dal 17 al 24 dicembre. Il primo segmento (e ne abbiamo avuto prova proprio dalla lettura degli Inni) è proiettato in chiave escatologica: ci rieduca all’attesa ed alla co-costruzione del regno di Dio. Il secondo segmento, invece, si concentra nel prepararci alla celebrazione del Natale, ovvero alla santa commemorazione della Nascita salvifica del Signore Gesù. Abbiamo anche spiegato il significato che ha la relazione tra questi due segmenti: celebriamo il Natale, per ricordarci che Dio ha mantenuto fede alle promesse, fatte ai profeti, di mandarci un Salvatore. Ora, manterrà anche fede alla promessa, fatta dal suo stesso Figlio, e questi tornerà nella gloria, per sottomettere ogni cosa alla Signorìa amorevole del Padre. L’Inno, su cui riflettiamo oggi, è il Veni, redemptor gentium, che è uno dei soli quattro Inni di sicura e indiscussa paternità ambrosiana. Una delle testimonianze in tal senso la troviamo nel Vescovo d’Ippona: Agostino, nel Sermone 372, per la Natività del Signore, commenta esattamente le parole di questo Inno, dicendo che il popolo aveva da poco cantato queste belle parole del beato Ambrogio. Ho scelto questo Inno, perché esso è attualmente in uso nella liturgia romana come Inno dell’Ufficio delle Letture dal 17 al 24 dicembre; è conservato nella Officiatura della liturgia ambrosiana da Natale all’Epifania; ed è stato tradotto -pensate- da Lutero e viene conservato e cantato nella tradizione luterana, che lo conserva come corale, musicata da Johann Walter, e come cantata, composta da Johann Sebastian Bach. Possiamo proprio dirlo che: “più ecumenici di così, si muore”… Entriamo, ora, nell’analisi del testo. Esso è un canto al mistero della nascita del Salvatore, che unisce in sé la natura divina e quella umana. Almeno tre mi sembrano i nuclei tematici che raccolgono e racchiudono il materiale letterario e poetico dell’Inno. Li enucleo così: la nascita di Gesù è un mistero compiuto da Dio e lo si comprende solo attraverso la contemplazione; la venuta nel Figlio di Dio nella carne umana è per la salvezza dell’uomo; questa luce risplenderà per sempre e non potrà mai più essere offuscata.


Testo latino

«Veni, redemptor gentium, ostende partum virginis; miretur omne saeculum, talis decet partus Deum. Non ex virili semine, sed mystico spiramine verbum Dei factum est caro, fructusque ventris floruit.


Alvus tumescit virginis, claustrum pudoris permanet, vexilla virtutum micant: versatur in templo Deus. Procedat e thalamo suo, pudoris aula regia, geminae gigas substantiae, alacris ut currat viam. Egressus eius a Patre, regressus eius ad patrem, excursus usque ad inferos, recursus ad sedem Dei. Aequalis aeterno Patri, carnis trophaeo cingere, infirma nostri corporis virtute firmans perpeti. Praesepe iam fulget tuum, lumenque nox spirat novum, quod nulla nox interpolet fideque iugi luceat. Sit Christ rex piissime, tibi Patrique gloria, cum Spiritu Paraclito, in sempiterna saecula.»


Testo in traduzione italiana

Vieni, redentore delle genti rivela il parto della vergine i secoli contemplino, tale parto si addice a Dio. Non da seme d’uomo, ma dal mistico soffio dello Spirito il Verbo di Dio si è fatto carne ed è fiorito come frutto di un grembo. Si rigonfia il grembo della Vergine, ma il pudico chiostro rimane chiuso, i vessilli delle virtù brillano: Dio ha preso dimora nel suo tempio. Esca dal suo talamo nuziale, aula regia di santo pudore, il Forte dalla duplice natura, e corra veloce il suo cammino. E venuto da suo Padre, ed è tornato a suo Padre, discese fino agli Inferi, riascese alla sede di Dio. Uguale all’eterno Padre, cingi il trofeo della carne, rafforza con la tua potenza la fiacchezza del nostro corpo. Già rifulge la tua mangiatoia, la notte effonde una luce nuova, nessuna notturna tenebra la offuschi, ma splenda per sempre di fede Cristo re misericordioso a te e al Padre sia gloria, insieme allo Spirto Paraclito per i secoli dei secoli.»

Vediamo, uno per uno, questi tre nodi teologici e spirituali.


1. La nascita di Gesù è un mistero compiuto da Dio e lo si comprende solo attraverso la contemplazione


L’Inno inizia con una invocazione: Veni! Ovviamente è il grido orante che caratterizza l’avvento: marana-tha! Vieni, Signore Gesù! Ma è anche l’affermazione che un mistero d’amore e di salvezza compiuto da Dio può essere compreso soltanto attraverso la luce della sapienza che viene dall’alto. Infatti, subito dopo Ambrogio chiede: rivela il parto della Vergine. Il mistero sta nel fatto che quel parto non corrisponda alle leggi umane (il ventre della madre si rigonfia, perché fecondato) ma senza il concorso di un uomo, bensì attraverso il mistico soffio dello Spirito, senza cioè che quel ventre si sia aperto all’accoglienza del seme maschile. Ovviamente non mi dilungherò, in questa sede, sul discorso se Maria sia rimasta vergine o meno anche dopo il parto. Questa sarebbe, infatti, un’argomentazione di ragione che stona con lo sguardo mistico che l’Inno vuole suscitare in colui che lo canta e lo prega. Di questo argomento, del resto, ho abbondantemente parlato sia nel libro Maria di Nazareth sia nel libro che presto darò alle stampe in cui commento sistematicamente il Simbolo degli Apostoli. Ciò che ad Ambrogio interessa – e che deve interessare anche a noi – è il fatto meraviglioso che Dio, per discendere nel mondo, scelga di usare la via più ordinaria possibile: nascere da una madre! I secoli contemplino! Non dice: ragionino, non dice: discutano; dice: contemplino! Senza attitudine alla contemplazione, cioè al guardare estatico, senza pretendere di comprendere tutto, ma semplicemente accogliendo un dono d’amore che ci supera e ci sovrasta, solo così potremo accogliere il dono mistico che ci è dato nella Incarnazione del Logos. 2. La venuta nel Figlio di Dio nella carne umana è per la salvezza dell’uomo

Esca dal suo talamo nuziale, aula regia di santo pudore, il Forte dalla duplice natura, e corra veloce il suo cammino.

Abbiamo già commentato questa immagine tratta dal Sal … (138?). Qui vorrei sottolineare la forza delle parole: geminae gigas substantiae. Il forte, il gigante di sostanza (natura) gemella. Il che vuol dire che Gesù esce come il forte che tiene in sé le due nature (quella umana e quella divina), ma anche e soprattutto che, attraverso di Lui, queste nature ora sono gemelle. L’Increato ed il creato sono fratelli; la divinità e l’umanità sono sorelle. È un’immagine commovente e di grande forza evocativa! Di quel Forte è detto che deve fare la sua corsa veloce, deve velocemente percorrere il suo cammino. Ma qual è questo cammino? Anche qui Ambrogio è stato un maestro di teologia e poesia; lo dice con quattro versetti in un’unica strofa che – perdonatemi! – ma devo necessariamente leggere prima in latino, per la sua bellezza mozzafiato:


Egressus eius a Patre, regressus eius ad Patrem, excursus usque ad inferos, recursus ad sedem Dei. Uscito dal Padre suo, tornato al Padre, disceso fino agli inferi, riasceso al trono di Dio.


Ambrogio utilizza due verbi (gredior e curro) e li costruisce due volte con il prefisso ex- e due volte il prefisso re-. La corsa del Gigante è questa: uscire per venire fino a noi e scendere nelle profondità più infime della nostra umanità (gli inferi), per poi ritornare e risalire alla gloria, portando con sé l’umanità sovra-esaltata, perché indissolubilmente unita alla sua divinità. Il meraviglioso mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio ha come fine la salvezza dell’uomo; salvezza, tuttavia, intesa non solo come restituzione di una condizione perduta a causa del peccato, ma come dono di una condizione ancor più grande, qual è appunto la partecipazione alla natura divina. È ciò che cantiamo nella Veglia pasquale, quando benediciamo l’acqua del battesimo. In quella preghiera ringraziamo Dio che ha compiuto l’opera mirabile della creazione e quella ancor più mirabile della redenzione. La natura umana, dopo l’incarnazione e la morte e resurrezione redentrici, non è più la stessa: la carne umana – dice l’Inno – è il trofeo vittorioso che il Figlio, uguale al Padre, cinge nelle sue mani. La strofa che canta questa vittoria verrà poi ripresa letteralmente anche nell’InnoVeni creator Spiritus.

3. questa luce risplenderà per sempre e non potrà mai più essere offuscata.


Praesepe iam fulget tuum, lumenque nox spirat novum, quod nulla nox interpolet fideque iugi luceat. Già rifulge la tua mangiatoia, la notte effonde una luce nuova, nessuna notturna tenebra la offuschi, ma splenda per sempre di fede.

Il contrato luce-tenebre, giorno-notte era già emerso nei testi degli Inni, che abbiamo commentato in precedenza e torna anche in questo. Non stupisce affatto perché è una chiave di lettura che proviene sia dal testo biblico sia dalla liturgia. Nella descrizione lucana della nascita di Gesù si dice che i pastori dormivano di notte all’aperto e che la gloria del Signore li avvolse di luce (cf 2,8). La celebrazione notturna del Natale – anche ai tempi di Ambrogio – doveva avvenire in un clima crepuscolare che veniva irradiato dalla luce delle candele.

La luce nuova, che ormai risplende e che nessuna tenebra notturna potrà oscurare, è quella – così dice Ambrogio – che rifulge dal presepe, dalla mangiatoia: lì Dio si pone a perenne nutrimento dell’uomo. È il dono del suo amore, sempre disponibile, come fieno per il bestiame. Sembra quasi che da quella mangiatoia Gesù ci dica: “vieni e mangia; mangia la mia carne umana – che è anche la tua – ormai divinizzata; mangia fino a sazietà dal dono del mio amore per te; mangia il cibo inesauribile di questa realtà nuova che io ho compiuto e che ti porgo: Dio e uomo sempre assieme, sempre in un tutt’uno. Io sono entrato in te, perché tu entri in me; io sono diventato te, perché tu diventi me”.


Fratelli e Sorelle, la luce sfolgorante di questo amore, che ci è stato donato e di questa dignità e vita divine di cui siamo stati resi partecipi, è ormai e per sempre accesa in noi; e niente e nessuno mai più potrà spegnerla. Amen.


dom Tonino+


Qui sotto il video integrale dell'omelia


PAX

UT UNUM SINT

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