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IV domenica d'Avvento. Canemus Spem

Sul Candor æternæ deitatis: "Possiamo dire, allora, che è veramente divino ciò che è veramente umano; che la vera sfida non è essere differenti dagli altri, ma saper stare con, in mezzo, insieme agli altri; cioè per ognuno la vera sfida sta nel riconoscere la comunità, l’insieme da cui trae origine la propria specificità". Sono le parole tratte dall'omelia dell'Abate dom Antonio Perrella che hanno aperto le predicazioni del Tempo d'Avvento alla Christiana Fraternitas sugli inni della liturgia delle ore di Avvento e Natale.


Sabato 23 dicembre 2023, presso la Cappella monastica ecumenica "Santi Benedetto e Scolastica", con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum" si è aperta la IV domenica di Avvento. Ogni settimana d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sugli Inni della liturgia delle ore propri di questo tempo forte. Il primo Inno, oggetto della condivisione, è stato Candor æternæ deitatis.



Testo integrale della I predicazione sul Candor æternæ deitatis

del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella


Testo latino

Candor aeternae Deitatis alme,

Christe, tu lumen, venia atque vita

advenis, morbis hominum medela,

porta salutis.


Intonat terrae chorus angelorum

caelicum carmen nova saecla dicens,

gloriam Patri, generique nostro

gaudia pacis.


Qui iaces parvus dominans et orbi,

Virginis fructus sine labe sanctae,

Christe, iam mundo potiaris omni,

semper amandus.


Nasceris caelos patriam daturus,

unus e nobis, caro nostra factus;

innova mentes, trahe caritatis

pectora vinclis.


Coetus exsultans canit ecce noster

angelis laeto sociatus ore,

et Patri tecum parilique Amori

cantica laudis. Amen.


Traduzione letterale

O splendore, portatore di vita, della eterna Divinità,

o Cristo, tu vieni come luce, grazia e vita,

rimedio ai mali degli uomini,

porta della salvezza.


Il coro degli angeli intona sulla terra

il cantico dei cieli annunciando il nuovo mondo/tempo,

la gloria al Padre ed al nostro genere

le gioie della pace.


Tu che giaci bambino, pur dominando il mondo,

frutto della Vergine santa senza macchia,

o Cristo, domina adesso tutto il mondo,

tu sempre degno di amore.


Tu nasci per donarci i cieli come patria,

uno di noi, fatto nostra carne;

rinnova le menti, attra i cuori

con i vincoli del tuo amore.


Ecco la nostra assemblea esultante canta,

unita agli angeli con lieta voce,

sia al Padre con te sia all’uguale Amore

(tra te ed il Padre) i cantici della lode. Amen.

Carissimi Fratelli e Sorelle, care amiche ed amici,

il testo che ci guida nella riflessione per questa IV domenica di Avvento, è l’inno dell’Ufficio delle letture del giorno di Natale: Candor aeternæ Deitatis. Si tratta di un inno di nuova composizione, che risale quindi al secolo scorso, nel periodo della elaborazione della riforma liturgica del rito romano.

Anche quest’inno, come quello della scorsa settimana, ha funzione abbastanza descrittiva, cioè si limita a cantare alcuni aspetti del mistero del Natale e del giorno liturgico per cui è stato composto.

La prima strofa è caratterizzata da un incalzante elenco di appellativi cristologici. Del Cristo si dice anzitutto che è splendore della divinità e si lega questo aspetto al suo essere portatore di vita. Non si canta lo splendore della divinità in sé, la cosiddetta gloria divina nella sua luce inaccessibile, ma nel fatto che essa trasmette e comunica la vita. Splendente, divino, è ciò che favorisce la vita, trasmette la vita, porta la vita. E questa capacità di portare la vita viene poi ulteriormente spiegata: il Cristo porta la vita perché diviene in favore degli uomini: luce, grazia, rimedio ai loro mali e porta della loro salvezza.

La caratteristica di questa prima strofa risiede quindi in un contenuto cristologico, ma espresso in chiave economico-salvifica; cioè al centro non sta il Cristo in sé ma il Cristo per noi, in nostro favore.

La seconda strofa fa riferimento al racconto lucano della manifestazione degli angeli ai pastori (cf Lc 2, 8-14). Infatti, in essa si dice che gli angeli intonarono sulla terra il cantico dei cieli, dando gloria al Padre ed annunciando all’umanità le gioie della pace. Ad un primo sguardo – un po’ superficiale – potrebbe sembrare che questa seconda strofa dell’inno non dica nulla di più. Sarebbe una sorta di trasposizione poetica del brano lucano dell’annuncio degli angeli ai pastori. Se, però, guardiamo bene al testo ci accorgiamo di alcuni elementi interessanti. Anzitutto il carmen cælicum (il cantico celeste) annuncia (dicens) nova sæcla (il nuovo mondo), che viene indicato come la coesistenza della gloria a Dio e della pace agli uomini. In questo modo la strofa sta dicendo che in quella notte santa, in cui gli angeli hanno cantato gloria a Dio e pace agli uomini, hanno immesso sulla terra il seme del mondo nuovo. Il mondo nuovo, quello che ha fatto la sua irruzione nella storia con la nascita del Signore, vive di queste due dinamiche indivisibili: la gloria a Dio e la pace agli uomini.

L’esperienza della vita cristiana – ed in essa della vita monastica – deve camminare sempre in equilibrio su queste due assi: la gloria di Dio (l’opus Dei, opera primaria della vita monastica) e la pace degli uomini (compiendo scelte, opere portatrici di vita). Occorre ribadire questo dato essenziale, soprattutto in questo mondo confuso in cui le persone ritengono di aver compiuto la volontà di Dio per una qualche opera buona, fatta di tanto in tanto. Solo dando a Dio la gloria che gli spetta, cioè il primo posto nell’esistenza, che viene manifestato dalla costante e fedele celebrazione della preghiera, si può poi essere efficaci nella costruzione di un mondo giusto. Nessuno si illuda: fino a quando Dio non tornerà ad essere il centro propulsore dell’esistenza umana, il criterio da cui discendono le scelte concrete delle persone, fino a quando Dio non tornerà ad essere l’anima del mondo, allora questo mondo non ritroverà le gioie della pace.

Questa seconda strofa dell’inno sembra dirci: come Dio si è compromesso totalmente con te, adesso sta a te decidere se vuoi finalmente comprometterti del tutto per lui o se vuoi ancora giocare a fare il credente… l’ipocrita religioso.

La terza strofa apparirebbe alquanto strana e persino contraddittoria.

Togliendo gli incisi che non servono in questo momento, suonerebbe così: tu che giaci bambino, pur dominando il mondo, o Cristo, domina adesso tutto il mondo, tu che sei degno di amore.

Verrebbe da domandarsi: ma insomma, Cristo, questo mondo lo domina già o lo deve dominare ancora? Probabilmente il dilemma testuale si risolve grazie all’utilizzo nel testo latino dei sostantivi “orbs” e “mundum”, che hanno contenuto semantico differente.

Nel primo stico della strofa, il testo gioca sul contrasto tra parvus e orbs. Il Signore, sebbene in forma di bambino, governa il mondo. Orbs però indica il globo terrestre. Mentre nel terzo stico della strofa si chiede che il Signore domini tutto il mondo, con il sostantivo mundum, che nel linguaggio biblico indica il mondo dominato dal peccato. Tuttavia, il quarto stico dice anche in che modo il Signore dominerà il mondo: con il suo amore, essendo sempre degno di amore.

Da questi dati, allora, possiamo ricavare questa conclusione: il Signore Gesù vince il mondo umano con la dolcezza del suo volto di bambino, ma sconfiggerà il mondo del peccato con il dono del suo amore, che troverà la sua massima espressione nel dono della sua stessa vita. Un bimbo può conquistare gli uomini, ma solo un Dio che si offre può sconfiggere la durezza del peccato. Solo la piccolezza di un bimbo e l’umiltà di un Dio, che offre la sua vita, imprimono nel mondo una dinamica nuova che è capace di rinnovarlo. Così, chiunque voglia essere vittorioso e dominare il mondo, non potrà e non dovrà fare altro che inserirsi in questa logica nuova del dono, dell’offerta di se stesso. Il mondo, cioè, non cambierà mai fino a quanto noi penseremo a salvare noi stessi, fino a che il proprio tornaconto ed i propri piani rimarranno la logica di scelta degli uomini e delle donne. Il mondo cambierà veramente solo quando tutti finalmente accetteremo la logica divina del dono di noi stessi. Solo allora sarà sconfitto il potere del peccato, che è l’egoismo, che è una vita centrata solo su se stessi e sul proprio bene.

La quarta strofa rafforza l’affermazione della logica divina del dono. Infatti, in essa si dice che Gesù nasce per donarci il cielo come patria e, per renderci partecipi della vita divina, è diventato uno di noi, fatto della nostra stessa carne.

Anche in questo caso i costrutti sono interessanti. Uno e nobis: è un complemento partitivo. In questo costrutto ciò che sta al centro non è la parte che esce dall’insieme, ma l’insieme che caratterizza la parte. Paradossalmente in questo segmento dell’inno, con la scelta di questo complemento, al centro non c’è quell’unus – che è comunque il Figlio di Dio – ma il nobis, cioè l’umanità di cui è diventato parte. Del resto così si spiega ciò che segue e che rafforza questa unità tra Gesù e l’umanità: fatto nostra stessa carne.

Possiamo dire, allora, che è veramente divino ciò che è veramente umano; che la vera sfida non è essere differenti dagli altri, ma saper stare con, in mezzo, insieme agli altri; cioè per ognuno la vera sfida sta nel riconoscere la comunità, l’insieme da cui trae origine la propria specificità. Quanta fatica questo mondo spende nel sottolineare che ognuno deve affermare se stesso, magari contro tutto e contro tutti. Il mistero dell’Incarnazione, invece, ci dice l’esatto contrario: l’uomo e la donna raggiungono la loro perfezione nella misura in cui sanno creare una vera unione con le altre persone, in cui riconoscono che è l’insieme a dare senso al singolare. In un mondo individualista, la cui cultura velenosa ha infettato anche la comprensione religiosa della fede, vissuta sempre di più come un rapporto individualista con Dio, il mistero del Natale ci mostra l’irragionevolezza e l’errore di questa impostazione. Ognuno trova veramente se stesso nella misura in cui accetta e riconosce di essere parte di un tutto, senza del quale semplicemente non è nulla…

Alla luce di queste considerazioni possiamo comprendere il seguito: rinnova le menti, cioè rinnova il nostro modo di pensare. Cambia la nostra presunzione di sapere e mostraci la stoltezza nella quale viviamo quando pensiamo di poter essere qualcuno o qualcosa senza appartenenze, senza una comunità, senza legami veri, vitali, affettivi ed effettivi. Ed attira, avvinci i cuori con i vincoli dell’amore, che significa i vincoli del tuo amore ma anche i vincoli di un amore fraterno vero, concreto, esistenziale e non solo a parole…

E che il punto di approdo sia questa dimensione comunitaria dell’esistenza umana in generale e dell’esistenza di fede in particolare lo dimostra la quinta strofa, quella della dossologia finale, in cui si chiede che la lieta voce del cantico della nostra assemblea sia unita a quella del coro degli angeli, per dare gloria al Padre, con il Figlio e all’Amore uguale che lega Padre e Figlio, cioè lo Spirito Santo. Non c’è un cantico di lode solitario che possa unirsi alla voce degli angeli e possa raggiungere la Trinità, ma solo la voce di un’assemblea, di una comunità, che è il riflesso terreno della comunione intratrinitaria di Dio.

Cari fratelli e sorelle, cari amici ed amiche, il filo conduttore della predicazione di quest’Avvento è il canto della speranza che la Chiesa eleva attraverso gli inni di Avvento e Natale. In quest’Inno dell’Ufficio delle Letture del giorno di Natale mi sembra che sia espresso con solare chiarezza che la speranza diventa vera nella misura in cui noi, che amiamo definirci credenti, impariamo la logica di Dio, che non è logica solitaria, non è logica di affermazione di se stessi, ma è invece logica comunitaria, logica del dono di se stessi per il bene e la crescita della comunità. La speranza sarà viva e vera non per chi pretende di trovare se stesso senza – o peggio ancora – contro gli altri; ma solo di chi cerca se stesso nel suo legame vero, vitale ed esistenziale con l’assemblea, con la comunità nella quale innalza il suo cantico di lode. Perché senza comunità, semplicemente non esiste un cantico di lode, esiste solo la voce starnazzante di chi si illude pure di cantare lode a Dio, ma emette soltanto la voce desolata e desolante della solitudine che si è costruito. La speranza nasce dalla comunione vissuta, dalla lode comunitaria, dalla scelta vera e definitiva di essere parte di una comunione, di una comunità, di un’assemblea, unica realtà umana capace di incarnare la logica di Dio. Amen.


dom Tonino +



Qui sotto il video integrale della predicazione


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