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In spirito e verità (Gv 4,23). La parola dell'Abate della Christiana Fraternitas



Meditazione del nostro Padre Abate dom Antonio Perrella

sul Vangelo della III domenica di Deserto (di quaresima) Gv 4, 1-54


Il Padre cerca adoratori in spirito e verità.

Dalle restrizioni alla riscoperta: fede domestica e fede comunitaria


Cari fratelli e sorelle,

sembra proprio un dono della Provvidenza paterna di Dio che ci venga riproposto il brano della Samaritana, in questo particolare tempo che stiamo vivendo. Non intendo sviscerare l’intera pericope, che è di grande profondità e ricchezza. Ne ho già fatto oggetto di riflessione in passato ed un’analisi più completa si trova nel mio testo Giovanni. La Parola esclusa perché Parola per gli esclusi (Ed. Mandese, Taranto 2018).

Qui voglio soffermarmi proprio sul tema del culto e sulla novità del culto cristiano. Quando la donna samaritana abbandona la totale diffidenza verso quel giudeo che le parla, intavola un discorso sul culto e, naturalmente, lo fa secondo la sua mentalità e secondo quelle che erano le priorità teologiche del suo tempo e che le erano state inculcate. Dove è giusto adorare Dio: sul monte Garizim o a Gerusalemme?

Nella sua risposta Gesù sconvolge le certezze teologico-dogmatiche. Da un ebreo osservante ci si sarebbe attesi un’unica risposta: a Gerusalemme soltanto! Ed invece Gesù dichiara apertamente che quella questione annosa, che aveva compromesso i rapporti all’interno del medesimo popolo eletto, era in realtà una questione senza senso. «Viene un’ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre in Spirito e verità» (Gv 4,23). Sappiamo bene che in questo modo egli sta inaugurando un’ora, un tempo di grazia, un evento imperituro della misericordia di Dio, con cui l’uomo stesso e l’intera sua vita saranno il tempio santo da cui si eleva la lode perenne di Dio. Né un’altura naturale né un cumulo di pietre, per quanto meravigliosamente disposte dalle mani d’uomo, potranno pretendere di essere luoghi esclusivi di adorazione.


L’apostolo Paolo comprenderà sino in fondo la portata di queste parole, tanto che nella lettera, che potremmo definire della sua maturità teologica, quella ai Romani, dirà: «Vi esorto […] a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio: è questo per voi il culto ragionevole» (Rm 12,1-2).


Occorre a questo punto porsi due domande, per comprendere bene ciò che i testi neotestamentari ci stanno dicendo. Le domande sono: 1) di quale adorazione e di quale culto stanno parlando Gesù e Paolo? Fanno riferimento al culto – diremmo – liturgico o stanno usando una espressione analoga, cioè con molteplici significati? 2) Cosa vuol dire quell’espressione così complicata usata da Paolo, culto ragionevole, logico (in greco logikēn)?


Rispondiamo alla prima domanda. 1. Quando Gesù parla degli adoratori in spirito e verità, usa proskynetai; e Paolo usa i termini thysia (sacrificio) e latreia (culto). Si tratta di termini legati espressamente alla dimensione cultuale. Nella traduzione greca dell’Antico Testamento, la preghiera, il culto offerto dai sacerdoti era espresso con i verbi leitourgein e latrein, mentre il culto del popolo – ritenuto un atto di devozione e non di culto vero e proprio – era espresso con il verbo doulein. Quindi non ci sono dubbi: Gesù e Paolo stanno parlando di un vero culto, di un vero atto liturgico, di vero sacrificio che sale dalla vita di ogni credente, di ogni uomo o donna. Non si tratta di preghierine, di devozioni, di atti pietà, si tratta di quella dimensione essenziale della rivelazione e della fede cristiana che è l’adorazione a Dio, che lo rende presente ed operante nella vita degli uomini.In questo modo il Signore e l’apostolo delle genti stanno affermando un dato assolutamente nuovo che è specificamente cristiano: il cristiano, il credente, la sua vita quotidiana, indipendentemente dalle condizioni di luogo e di tempo, questi sono il vero culto, la vera adorazione in spirito e verità che il Padre cerca e desidera.


2. Rimane, ora, la seconda questione. Cosa vuol dire nel testo di Paolo l’espressione «culto logico, ragionevole»? L’aggettivo logikēn viene da logos, che ha molteplici significati a seconda del contesto. Qui sta ad indicare un culto logico, coerente, che si addice a qualcosa. Ma a cosa? Esattamente a quello che aveva detto immediatamente prima e cioè che il sacrificio, il culto del cristiano è l’offerta del suo corpo (sōma), ovvero della totalità della sua vita, di tutte le dimensioni della sua esistenza da quella relazionale-affettiva a quella sociale, da quella lavorativa a quella famigliare, da quella fisica a quella interiore; nessuna dimensione esclusa, ma tutte incluse.


Alla luce di questi dati del Nuovo Testamento è evidente che il culto gradito a Dio è la totalità della vita di una persona che, inserita in Gesù attraverso il battesimo, vive e celebra il suo sacerdozio regale, facendo dell’intera sua esistenza un atto d’amore al Padre ed ai fratelli. Questo è il vero e principale culto del cristiano.


Non stupisce, quindi, un testo degli Atti degli Apostoli che può rivelarsi dirompente per la comprensione della vita della Chiesa di tutti i tempi. In esso si dice che i credenti «ogni giorno erano concordemente assidui nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano il cibo con esultanza e semplicità di cuore» (At 2,46). L’autore degli Atti ci dice – ad una lettura immediata – che la vita dei credenti era armonicamente vissuta tra due fulcri: il tempio e la casa. Di per sé potremmo trovarci dinanzi ad un merismo, che è una figura letteraria attraverso la quale, indicando alcune parti di una realtà, come i suoi estremi (tipo giorno e notte, quando veglio e quando riposo), si indica la totalità di quella realtà. Il tempio, inteso come luogo aperto e comunitario, e la casa, come luogo intimo, stanno ad indicare la totalità della vita. Non si dà priorità all’uno o all’altro, perché si tratta di due termini funzionali, finalizzati ad indicare la totalità della vita in tutte le sue dimensioni.


Ma c’è un passaggio che di per sé appare ancor più sconvolgente: il testo dice che ogni giorno nelle case klōntes arton (spezzando il pane): è l’espressione tecnica con cui nel Nuovo Testamento si indica la frazione del pane, cioè la celebrazione eucaristica. Ora questa era vissuta come un fatto normale, che avveniva nella casa, nella dimensione domestica. Non entro, qui, nelle insuperabili domande che questo testo pone ad una visione sacrale e ministeriale del sacerdozio. Sarebbe lungo e urterebbe qualcuno. Tuttavia, ci viene detto dal libro degli Atti, che la dimensione domestica del culto era la dimensione quotidiana e diffusa dell’esperienza liturgica della Chiesa primitiva. Perché nel tempio c’erano restrizioni di sesso e di età, mentre a casa queste distinzioni e restrizioni cessavano.


La comunità cristiana viveva la sua fede, trasmetteva la Parola, cresceva nell’esperienza della comunione e nella certezza della presenza di Gesù risorto anzitutto a casa!

In questo tempo, in cui la necessità di difenderci dal contagio del COVID-19 ci costringe a casa, sento molti vivere come un peso il fatto di non potersi riunire nelle chiese. Alcuni lo vivono come una riduzione della dimensione comunitaria della fede; ed è, per certi versi, ma non del tutto, condivisibile. Non lo è del tutto, perché la fede cristiana è sempre fede di popolo, fede di chiesa, fede di comunità e la prima comunità è quella domestica. Altri, invece, si sentono del tutto privati dell’esperienza della fede perché non posso recarsi nei templi moderni a celebrare i propri culti ed i propri riti. Cos’hanno questi ultimi di diverso dalla Samaritana? Non sono anch’essi cristiani del sacro, del tempio o di un luogo, ovvero la negazione di ciò che Gesù ha insegnato?


L’Evangelo di Matteo rincara la dose, se quanto finora detto non bastasse. Per ben due volte Gesù torna su come pregare e sulla sua presenza nella intimità famigliare. Quando parla della preghiera non dice: «vai al tempio», ma dice a chiare lettere: «quando preghi, entra nella tua camera» (Mt 6,6). E quando assicura la sua presenza tra i credenti, non dice: «solo nelle chiese (intese come luoghi materiali) io sarò presente», ma dice: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Gesù travolge ogni interpretazione formalistica della fede: non è un luogo specifico, non è una frase determinata, né un atto compiuto, che ci danno la garanzia della sua presenza. L’intimità della casa e del cuore, la comunità famigliare, il cuore spalancato a lui e alla sua presenza fanno sì che egli si renda vivo e presente nella vita degli uomini.


Il contagio di questo virus è un male che ci affligge e, come tutto ciò che rattrista l’uomo, non è voluto né amato da Dio. Eppure anche da questa situazione contingente noi possiamo imparare qualcosa. Dal male del corpo emerge un virus dell’anima e cioè la patologia di chi ha legato la vita di fede a cose, fatti, luoghi sacrali, senza dei quali pensa di non avere Dio o, peggio, di essere stato abbandonato da Dio. In questo tempo in cui siamo costretti a stare a casa possiamo e dobbiamo reimparare la dimensione domestica della nostra fede. E forse dobbiamo ammettere che, abituati ad avere i nostri luoghi di culto, abbiamo ceduto alla tentazione di ridurre la nostra dimensione di fede al luogo e al tempo delle nostre celebrazioni, quasi che esse fossero una sorta di pausa spirituale nella vita “normale”. Così facendo abbiano creato una vita di “fede” duale, schizofrenica, cioè una vita quotidiana fuori dei luoghi e dei tempi di preghiera e di adorazione, e a lato, quasi del tutto incomunicante, una vita pseudo-spirituale nella quale compiano atti religiosi. Questa netta separazione e frattura tra vita quotidiana e vita spirituale è l’esatto contrario di ciò che Gesù ha compiuto ed insegnato. Egli ha abolito la distinzione tra sacro e profano ed ha inaugurato la santificazione di tutto l’uomo, ovvero l’uomo è santo perché Dio lo ha reso tale ed egli rende santo tutto ciò che fa, in ogni momento della sua vita, anche quello che appare più semplice e insignificante.


Questo periodo di privazione, invece, può essere occasione propizia per riappropriarci della dimensione totalizzante della nostra fede: tutta la nostra vita è un culto, un’adorazione in spirito e verità. E, quando ci riuniamo con i fratelli, noi non facciamo altro che portare e condividere con essi l’adorazione quotidiana della nostra vita. Se così non viviamo, neppure le nostre adunanze hanno senso alcuno. Che senso ha cantare le lodi del Signore in comunità, magari celebrare (per chi lo fa) il culto della Cena o dell’Eucaristia, se essa è solo una parentesi della nostra vita ma non diventa la condivisione comunitaria di ciò che io quotidianamente vivo ed offro anzitutto all’interno della mia casa, della mia famiglia. Come potrei lodare il Signore in comunità, se non lo lodo prima in famiglia; come penso di potergli offrire un sacrificio di lode o di pane e vino, se non gli do nell’amore e nella fedeltà tutta la mia vita?

Usciamo, cari amici ed amiche, dal medioevo della fede, che l’ha ridotta ad una serie di atti cultuali, compiuti in luoghi e tempi sacri, e riappropriamoci del nostro essere noi stessi il tempio santo e vivente di Dio; riappropriamoci del nostro essere noi stessi l’unico vero sacrificio di lode e di amore che gli desidera e cerca; riappropriamoci del nostro essere Chiesa anzitutto nelle nostre case, nelle nostre famiglie. Solo quando avremo riscoperto la gioia della presenza viva e vera di Gesù risorto nella quotidianità della nostra vita, del nostro cuore, delle nostre case, delle nostre famiglie, solo allora sarà vero l’Alleluja che gli grideremo, con cuore pieno e a squarciagola, nelle nostre adunanze comunitarie.


Padre santo, rendici adoratori in spirito e verità! In questo tempo di confusione e smarrimento, ridonaci la certezza che tu sei sempre ovunque, che tu sei sempre con noi! Liberaci dalla paura di perderti, perché non ti cerchiamo affannosamente in luoghi e cose, correndo il rischio di non trovarti proprio lì dove tu hai voluto abitare per sempre: in noi stessi. Ridonaci il gusto ed il coraggio della preghiera in casa, con la nostra famiglia, con gli amici o i colleghi con cui conviviamo. Fa’ di noi e delle nostre case il roveto ardente dal quale continui ad amare il tuo popolo, a parlargli ed a liberarlo da tutte le schiavitù, anche quelle causate da una errata comprensione di te e della tua parola di vita.


Padre, che né i cieli né i cieli dei cieli possono contenere, tu che hai tuttavia scelto di abitare il cuore e la vita della tua creatura, ridonaci la gioia di essere la tua casa vibrante per la tua gloria, il tuo tempio esultante nella tua lode, la tua manifestazione nella semplice, meravigliosa, straordinaria vita di tutti i giorni con le persone che tu ci hai donato e ci hai messo accanto, come il segno più eloquente della tua tenerezza verso di noi. Amen! 

Dom Tonino +



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