"Siamo dinanzi ad un evento che costituisce lo zenit della storia, il suo punto cardine ed anche il suo punto di osservazione; come a dire che della storia non si capisce niente se non si guarda a questo punto e da questo punto. La vita e la storia, in altre parole, senza Gesù e la sua nascita non hanno alcun senso. Per questo cantiamo a Cristo che di questa storia è il princeps, il principe ed il principio, inteso non come l’inizio, ma come il principio di intelligenza, di comprensione, la chiave di violino grazie alla quale le note dei giorni, dei mesi, degli anni assumono un senso compiuto nell’armonia della vita."; sono le parole dell'omelia dell'Abate per la Celebrazione della Commemorazione del Natale del Signore.
Sabato24 dicembre 2023 alle ore 23:30, presso la Cappella "Santi Benedetto e Scolastica" della Casa Apostolica (Abbey House) della Christiana Fraternitas si è svolta la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola "in Nativitate Domini" e la Commemorazione della Cena del Signore. La preghiera è stata trasmessa in diretta Facebook per raggiungere quanti desideravano condividere con la Famiglia Monastica l'attesa del Natale.
Testo integrale dell'omelia del Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella
in occasione della Celebrazione della Parola
"In Nativitate Domini" 2023
Testo di riferimento inno "A Solis ortus cardine"
Cari fratelli e sorelle, cari Amici ed Amiche,
in questa notte santa e benedetta si eleva il canto degli angeli e dell’umanità. Un Uomo nuovo è venuto a portare alla terra intera la gioia e la luce di un amore che il mondo e l’umanità mai avevano conosciuto prima di questa notte: Dio, fattosi uomo, ha portato sulla terra il cantico di esultanza che risuona nel cielo. Da quella notte di Betlemme di oltre duemila anni fa quel cantico di gioia e di speranza non si è più interrotto, perché il Verbo di Dio incarnato ha definitivamente posto la sua dimora in mezzo a noi.
La gioia di questa Notte ha illuminato ed ispirato in vari modi l’umanità, dando forma ad espressioni artistiche, tra le più svariate possibili. Ci siamo impegnati nel cammino di Avvento a riscoprire la bellezza degli Inni della liturgia delle ore. Ho detto: impegnati e cammino. Sì! Perché seguire Gesù è un cammino, è un impegno che non si assume una volta sola o una volta per tutte, ma occorre riprendere sempre in modo nuovo impegno e cammino, perché accade spesso che si presuma di essere discepoli di Gesù, quando in realtà si è smesso di camminare dietro a Lui ed impegnarsi da molto tempo.
Con la Chiesa santa di Dio noi siamo come il popolo di Israele che camminava e cantava: camminava verso la speranza della terra promessa e cantava i canti di Sion per ravvivare la sua forza.
Questa notte riflettiamo sull’Inno che segna la celebrazione delle Lodi del giorno di Natale. Si tratta di un gioiello artistico e di fede, composto tra la fine del IV secolo e gli inizi del V dal poeta latino cristiano Sedulio. Una delle sue opere è un inno, composto in dimetri giambici, le cui strofe iniziano con le lettere dell’alfabeto. Una prima parte di quell’inno è il testo su cui riflettiamo questa notte; una seconda parte è usata per i primi e secondi Vespri dell’Epifania.
Come la settimana delle antifone “O” è segnata dall’acronimo ero cras delle iniziali, così il giorno della nascita del Salvatore e quello della sua manifestazione al mondo sono segnati dall’acronimo composto dalle lettere dell’alfabeto. Egli è infatti venuto e si è manifestato perché ogni lingua -simboleggiata da ogni lettera- proclami che è lui il Signore a gloria di Dio Padre (cf Fil 2, 11).
Per entrare nella profondità del testo, lo leggiamo così come uscito dalla mano e dal cuore del suo autore, passo dopo passo, seguendo strofa dopo strofa, quasi gradino dopo gradino di un testo che sembra una scala che ci innalza verso il mistero dell’incarnazione che questa notte insieme celebriamo.
Da dove sorge il sole
fino ai confini della terra
cantiamo a Cristo Principe,
nato da Maria Vergine.
L’incipit è solenne, porta all’origine del mondo ed a tutta la sua estensione. I punti cardinali, a cui si allude, l’est (da dove sorge il sole) e l’altro estremo (ovest), il limite della terra non indicano solo coordinate spaziali, ma anche temporali. Dal sorgere del sole al suo tramonto significa da un lato all’altro della terra ma anche dalla mattina alla sera. Siamo dinanzi ad un evento che costituisce lo zenit della storia, il suo punto cardine ed anche il suo punto di osservazione; come a dire che della storia non si capisce niente se non si guarda a questo punto e da questo punto. La vita e la storia, in altre parole, senza Gesù e la sua nascita non hanno alcun senso. Per questo cantiamo a Cristo che di questa storia è il princeps, il principe ed il principio, inteso non come l’inizio, ma come il principio di intelligenza, di comprensione, la chiave di violino grazie alla quale le note dei giorni, dei mesi, degli anni assumono un senso compiuto nell’armonia della vita. Circa 800 anni dopo, anche Dante affermerà la stessa cosa. In Dio trova senso quello che nel mondo sembra sparpagliato e disordinato. Quando finalmente egli riesce a fissare il suo sguardo su Dio, tutto gli diventa chiaro e armonico: «Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna». «Quello che nell’universo è sparpagliato e disordinato, nel profondo di Dio è invece racchiuso ed ordinato come in un unico libro rilegato dall’amore». È necessario, però, aprirsi all’estasi dell’amore, tipica degli artisti, per comprendere questo mistero di rivelazione e di disvelazione del senso della storia e della vita in Cristo. A Lui ci si accosta con la venerazione dell’innamorato, dell’amante; altrimenti non si coglie il significato del tutto.
Il beato Autore del mondo
assunse il corpo del servo
per liberare la carne con la sua carne
e non perdere ciò che aveva creato.
Dallo sguardo estatico verso l’alto e verso l’estensione della storia e della terra, il testo adesso ci porta a fissare lo sguardo su di un punto ben preciso. Fissare lo sguardo nel linguaggio evangelico ha un significato ben preciso. Giovanni fissa lo sguardo su Gesù e Gesù lo fisserà su Pietro: fissare lo sguardo vuol dire concentrarsi su una persona e darle tutta la propria fiducia. Guardare il mistero del Natale, celebrare il mistero del Natale, fissare il mistero del Natale significa dare alla persona di Gesù tutta la nostra fiducia, ovvero far riposare su di Lui tutta la nostra vita. Questo sguardo introspettivo e fisso cosa vede? Il santo Autore di tutto l’universo che assume il corpo del servo (un chiaro richiamo a Filippesi 2) per non perdere ciò che aveva creato sceglie la strada della carne: carne carnem liberans, libera la carne per mezzo della carne. La carne umana, che era stata lo strumento del peccato, diviene ora strumento della salvezza, come diranno i Padri: caro salutis cardo – la carne strada della salvezza. Per questo motivo la vita cristiana è concreta, pratica; è appunto vita! Non si è cristiani a parole, non si è cristiani per cultura o per tradizione; si è credenti in Gesù se questa fede diventa la carne della nostra vita; carne talvolta graffiata, ferita, persino scuoiata, ma carne, carne, carne; non parole! Così come il Verbo si è fatto carne, carne, carne! Solo chi fissa il proprio sguardo su Gesù diviene carne liberata, solo chi fissa lo sguardo su Gesù diventa libertà per la carne altrui.
Nel grembo della casta Madre
entra la grazia celeste,
il ventre della fanciulla porta
segreti che ella non conosce.
È lo sguardo fisso su Gesù che ci mostra che a Dio nulla è impossibile! Una madre, chiusa perché non ha conosciuto uomo, è penetrata dalla grazia celeste ed il suo ventre porta segreti che neppure lei conosce. Dio non ha bisogno della presunzione di coloro che pensano di comprendere tutto, che ritengono di poter controllare ogni cosa con la loro intelligenza. Dio non ha bisogno di chi fa calcoli e ragionamenti. Egli invade e pervade la vita di chi, forse in modo un po’ folle, gli si getta fra le braccia e gli dice il suo sì come quella semplice fanciulla innamorata del suo promesso sposo aveva fatto. Quante volte ci gettiamo su ciò che si vede, quante volte poniamo le nostre speranze su ciò che appare. E presumiamo di definirci cristiani, mentre la nostra logica dista anni luce da quella di Dio. Egli sceglie ciò che nel mondo è debole, ignobile, stolto per confondere gli intelligenti, i nobili ed i forti (cf 1Cor 1,27). Da una donna palestinese è entrato nel mondo; da una famiglia quotidiana ha aperto le porte dei cieli; attraverso il ventre sanguinante (e perciò ritenuto impuro) di una fanciulla ha spalancato la via della salvezza. Non c’è nulla di ragionevole in questo; c’è solo l’estasi folle di un amore che non calcola, ma che si compromette!
La dimora di un cuore puro
diventa improvvisamente tempio di Dio:
intatta, che non conosce uomo,
per la Parola [di Dio] concepì il Figlio.
La puerpera ha partorito
Colui che Gabriele aveva predetto,
Colui che Giovanni aveva riconosciuto
ancora nel grembo materno.
Le ulteriori due strofe ci fanno entrare ancora più a fondo del mistero che si compie in Maria, la madre di Gesù. Lei era già dimora di un cuore puro, cioè senza malizia, senza malvagità, un cuore che non si era piegato alla idolatria. Non era stata idolatra della sua volontà, perché aveva obbedito alla volontà di Dio; non era stata idolatra del proprio benessere e della propria sicurezza, perché aveva accettato di aderire ad un progetto che – lo comprendeva benissimo – l’avrebbe esposta al pericolo di essere considerata adultera; non era idolatra del proprio futuro, dei propri programmi, dei propri progetti, abbandonandosi a quelli che Dio aveva su di lei. Per questo la dimora di quel cuore puro può improvvisamente diventare tempio di Dio! Dio non abita i cuori che si custodiscono, ma quelli che si spendono; Dio non abita i cuori che vacillano, ma quelli che si gettano; Dio non abita i cuori rattrappiti, ma quelli dilatati. E lei, che era intatta, perché non aveva conosciuto uomo, ma non si era lasciata contaminare dalle logiche umane, per la potenza della Parola di Dio (che aveva accolto nel cuore e nella fede, prima ancora che nel ventre), diviene madre di Colui che era stato annunciato dall’angelo e riconosciuto da Giovanni, sin dal grembo di sua madre.
Senza l’ascolto e l’obbedienza alla Parola di Dio si rimane sterili: questo affermano queste due strofe, riportando l’esperienza di Maria. Una vita senza la Parola di Dio è come un grembo che non genera vita, perché è una vita che non trasmette la potenza di Dio.
Accetta di essere posto sul fieno,
non disdegna la mangiatoia,
è alimentato da un po’ di latte,
lui che non permette che perfino gli uccelli periscano la fame.
Lo sguardo ritorna su Gesù e di lui si cantano l’umiltà e la provvidenza. Anzitutto l’umiltà, intesa però come obbedienza alla volontà del Padre fino alle sue estreme conseguenze. Lui, il beato Autore del mondo, aveva accettato di rivestirti del corpo del servo. E porta avanti questa scelta fino alla fine: non ha una culla, ma un po’ di fieno; non ha un pasto, ma un po’ di latte. Lui, che ricorderà agli uomini che il Padre celeste si prende cura persino degli uccelli del cielo, che pure non si affannano per seminare e mietere, lui non avrà da mangiare a sufficienza (cf Mt 6,26). Questa è l’obbedienza a Dio: quella che porta a termine l’opera iniziata; quella che non si volge indietro. Da grande Gesù lo dirà a tutti – guai a chi mette mano all’aratro e poi si volge indietro (Lc 9,51) – perché lui per primo non indietreggerà mai di un passo, neppure quando la fedeltà al progetto del Padre gli costerà cara, come nel momento della sua povera nascita ed in quello abominevole della sua passione e della sua morte. Come potrà l’uomo Gesù accettare tutto questo? Perché sa chi è colui nel quale ha posto la sua fiducia e la sua speranza: il Dio suo e Dio nostro, Padre suo e Padre nostro (cf Gv 20, 14). La forza, la sicurezza della vita, il coraggio di portare le proprie scelte nella fedeltà e nella costanza nascono solo dalla fiducia in Dio dall’aver riposto in Lui la propria speranza. In questo mondo ondivago, in cui nulla sembra più essere per sempre, in cui il sì si trasforma in no in un batter di ciglia; in questo mondo in cui sembra che non si possa rimanere fedeli alla parola data, questa notte manifesta invece che solo la fedeltà e la costanza hanno il potere di cambiare la storia. Come la fedeltà di Maria, come la fedeltà di Gesù che, seppur bambino, unisce al suo vagito anche l’atto del suo affidamento a Dio. Chi ha Dio nulla gli manca, diceva Teresa d’Avila!
Gioisce il coro celeste,
e gli Angeli cantano a Dio,
e si rende manifesto ai pastori
il Pastore, Creatore di tutte le cose.
Lo sguardo fisso su Gesù e su ciò che egli ci mostra della verità di Dio e della verità sull’uomo non può che far sgorgare di nuovo il cantico della lode. Dinanzi al mistero dell’amore fedele fino alla fine gioisce il coro celeste, gli angeli cantano a Dio e viene così rivelato ai pastori il Pastore ed il creatore dell’universo.
Cari fratelli e sorelle, il dono di quest’Inno, compreso nel mistero di questa notte santa e benedetta, ci illumina su cosa significhi essere uomini e donne di speranza. La speranza alberga in cuori che non si lasciano corrompere dai calcoli umani, ma rimangono cristallini nella fiducia in Dio; la speranza germoglia nelle volontà decise e non in quelle incostanti che sembrano sbattute dal vento del tornaconto e del proprio comodo; la speranza mette radici in uomini e donne disposti ad andare fino alle fine, fino alle estreme conseguenze, come Dio – fattosi carne – è andato fino alla fine per noi; la speranza appartiene a chi guarda alla vita e alla storia con lo sguardo di Dio e cioè non si ferma all’utile del momento ma guarda nella prospettiva dell’eternità e della vita senza fine. A che serve ad un uomo o ad una donna guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso? (Lc 9,25) La speranza è per i tenaci, per i longanimi, non per i pusillanimi; la speranza è fatta di carne non di parole; la speranza è fatta di costanza non di desiderio; la speranza è fatta di cammino non di soste; la speranza è fatta di futuro non di indietreggiamenti; la speranza è fatta di amore non di egoismo; la speranza è fatta di dono non di guadagno; la speranza è fatta di perdita non di acquisti. Sì, la speranza – in definitiva – è solo per chi vuole cambiare il mondo ed ha per questo il coraggio di cambiare e perdere se stesso per ritrovarsi in Dio venuto a visitarci nella mangiatoria di Betlemme!
dom Tonino +
Qui sotto il video integrale della Celebrazione.
Comments