"la notte del mondo, inaugurata da questa pandemia, necessita di magi, [...] Uomini e donne che sanno attendere il passaggio delle nuvole che coprono le stelle, che sanno scorgere la stella che ci è dato da seguire, quella che ci consente di porci ancora domande di senso, domande che ci rinnovano e ci mettono in gioco, che ci pongono in cammino, fosse anche lungo, incerto e persino pericoloso, ma sempre illuminato e illuminante. " alcune delle parole tratte dal sermone dell'Abate dom Tonino .
Martedì 5 gennaio 2021 alle ore 19:30, presso la Cappella della Casa d'Amministrazione della Christiana Fraternitas si è svolta la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola "in Epiphania Domini". La preghiera è stata trasmessa in diretta Facebook per raggiungere quanti desideravano condividere con la Famiglia Monastica l'attesa del Natale.
Sermone del Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella
in occasione della Celebrazione della Parola
"In Epiphania Domini" 2021
Testo di riferimento Mt 2, 1-18
Ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei?».
Cari Fratelli e Sorelle esistono alcune domande, domande di senso, che vengono dall’oriente così come il sole sorge dall’oriente ed illumina, illumina la faccia della terra, illumina e dà vita, dà senso all’esistenza. Dall’oriente vengono i magi e portano con sé queste domande.
La festa della manifestazione del Signore è stata interpretata in vari modi, e talvolta in modi persino contrastanti tra loro. La cosiddetta polisemìa della Scrittura ci mostra come la ricchezza della Parola di Dio è infinita e che infinite le sono le vie, le domande, con cui il Signore ci permette di giungere a Lui.
Questa sera io vorrei cercare di entrare con voi nella vita e persino nella personalità dei magi per mostrare come essi, nel loro itinerario di ricerca, sono l’immagine migliore, oserei dire il paradigma meraviglioso, che meglio descrive la vita monastica, la dimensione esistenziale di coloro che fanno del quærere Deum la domanda, la strada della propria esistenza. Non sappiamo quanti erano i magi, né i loro nomi e, come ormai sappiamo, l’ermeneutica biblica è concorde nel dire che l’assenza dei nomi dei personaggi è un espediente letterario con cui l’autore vuole indurci ad identificarci in essi.
1. Anzitutto domandiamoci: da dove vengono esattamente? E chi sono? L’interpretazione generale e più diffusa è che si tratti di sapienti pagani, studiosi dei fenomeni cosmologici e del loro significato. Si tratta, quindi, di persone colte, che cercano negli astri degli indizi per comprendere ciò che accade nella storia dell’umanità. Al di là dei mezzi che usano, essi sono instancabili ricercatori di senso. Non si accontentano di vivere, vogliono comprendere cosa vivono e perché lo vivono.
Accanto a questa interpretazione generale circa la loro identità, tuttavia, ve n’è un’altra, non meno suggestiva. Babilonia era chiamata “l’Oriente” al tempo di Gesù; proprio in quella città vi era un gruppo di sapienti, interpretatori dei segni celesti, che erano chiamati “magi”. Questi univano sapienza scientifica, filosofica e religiosa ed erano come un connubio di cultura persiana e babilonese. Di essi diventò capo un ebreo deportato: il profeta Daniele. Dall’esilio babilonese tornarono in terra di Giuda solo tre tribù (Giuda, Levi e Beniamino); mentre le altre rimasero in terra straniera. Secondo alcuni commentatori, questi magi sarebbero allora ebrei della diaspora, che attendevano il segno della venuta del Messia per tornare in Giudea.
Sia che si tratti di pagani sia che si tratti di ebrei, ciò che è certo e che sono persone in ricerca: non basta loro la sapienza raggiunta, né che sia di origine scientifica – come intesa al tempo – né filosofica né che sia di origine teologica. Essi bramano di conoscere, di comprendere. Non vi sono strade precluse per chi cerca sinceramente Dio, perché egli risponde a chi lo cerca insistentemente e non teme di usare tutte le vie, percorribili ed impercorribili, pur di dissetare il cuore dell’uomo che lo cerca sinceramente.
La loro sete di conoscenza e di ricerca è evidente anche per il fatto che, giunti a Gerusalemme (dopo un viaggio di circa un migliaio di km), pongono domande, si lasciano consigliare, confrontano il loro sapere con quello altrui. Il testo di Matteo ci lascia intendere che i magi avevano iniziato a porre delle domande a Gerusalemme. Si trattava di domande così decisive ed importanti per il popolo che la notizia giunge fino ad Erode, il quale si informa presso gli scribi e convoca segretamente i magi. Dovevano essere evidentemente domande di senso, universali, decisive per tutti, tanto da creare persino sconcerto in Gerusalemme (cf Mt 2,4). Quelle domande interpellavano tutti, ma trovavano origine nella illuminazione della stella; né Erode, né gli scribi, né sacerdoti ed anziani del popolo potevano indicare il cammino. Solo quella stella che sorgeva e che i magi si erano posti nella condizione di scorgere poteva indicare loro la strada.
Il monaco questo è: un instancabile cercatore di Dio. Il nostro padre Benedetto, nella sua e nostra Regola, lo aveva stabilito come criterio della vocazione e della identità del monaco: si osservi soprattutto se è veramente alla ricerca di Dio (LVIII,7). La Regola e la stessa vita nel monastero sono la dominici schola servitii (la scuola del servizio divino: Prologo) nella quale il monaco permane stabilmente (stabilitas). Non importa cosa il monaco creda di sapere con la sua intelligenza scientifica, filosofica e teologica, il suo cuore arde costantemente di desiderio, perché egli sa che Dio è sempre oltre ciò che di Lui può conoscere, comprendere e dire: è questo l’abisso dolce dell’infinito mistero e amore che ci è stato donato.
2. Il vangelo proclamato ci offre anche altre indicazioni che ci aiutano a ricostruire il percorso, il cammino di fede dei magi. Quando giungono a Gerusalemme, essi dicono: abbiamo visto la sua stella nel suo sorgere. Era convinzione comune dell’epoca che i segni cosmologici fossero legati agli eventi storici ed in qualche modo li preconizzassero o indicassero. Così per i romani una stella cadente era un cattivo presagio, mentre per molti popoli il sorgere di una nuova stella indicava la nascita di un nuovo re. Non interessa in questo momento provare a ricostruire di quale evento astronomico si trattasse circa la luce che ha guidato i magi. Sappiamo però come Matteo, nel suo vangelo, sia tutto proteso a mostrare come in Gesù si compiano le profezie veterotestamentarie. Quindi, la chiave di comprensione di questo particolare deve essere cercata nel mondo intrabiblico. Nel libro dei Numeri (24,17) il profeta pagano Baalam – chiamato dal re di Moab a maledire Israele, ma costretto invece da Dio a benedire il popolo – pronuncia proprio una profezia eloquente: Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele. Il significato della stella che spunta, quindi, è probabilmente riferito a questa profezia, che come altre si compie proprio in relazione all’avvento di Gesù.
Ora tutti sanno che cogliere lo spuntare di una stella richiede una osservazione costante. A quel tempo non esistevano i sofisticati strumenti tecnologici attuali, che registrano gli eventi e li segnalano. Questi magi erano costantemente protesi allo scrutare i segni del cielo. Colgono il fatto straordinario, perché sono avvezzi a cogliere i fatti ordinari. La costanza della loro ricerca era unita ad una viva speranza di attesa. Guardavano, cioè, già alla vita ordinaria come ad un prodigio da cogliere, comprendere e di cui godere. Solo questa attitudine a vivere e comprendere il significato dell’ordinario ha affinato la loro mente ed il loro cuore a saper cogliere il sorgere ed il significato dello straordinario.
Anche questa è un’attitudine tutta monastica. La dedizione del monaco all’opus Dei, il suo costante spirito di preghiera e di disponibilità a cogliere la presenza di Dio nella vita ordinaria e nella vita comunitaria rende il monaco capace di saper riconoscere i segni straordinari della potenza, dell’opera di Dio. Così nel capitolo XIX della Regola è detto: noi crediamo che Dio sia presente ovunque e che in ogni luogo gli occhi del Signore scrutano i buoni ed i malvagi, e di questo dobbiamo essere assolutamente certi soprattutto quando partecipiamo all’ufficio divino (§ 1).
Ma quando si scrutano gli astri? Quale poteva essere il tempo propizio della osservazione del cielo, se non la notte? Sì, la notte, quella sezione di tempo spesso accomunata al regno delle tenebre e del male. Questo dato non può passare inosservato.
Abbiamo paura della notte; essa risveglia i nostri timori più ancestrali, quelli che abbiamo dentro di noi sin da bambini. Eppure, non solo la notte non è mai senza luci (pensiamo alla luna e alle stelle), ma vi sono persino notti radiose, luminose.
La notte, quindi, non è mai solo il regno delle tenebre, ma è anche il tempo in cui Dio si pone accanto all’uomo proprio nel momento più buio e tenebroso della sua vita; con lui attraversa quella tenebra e la trasforma in luce. È per questo che la Regola dedica ben quattro capitoli all’ufficio notturno e vigiliare: stare davanti a Dio in preghiera nella notte vuol dire camminare con Lui nelle tenebre del proprio cuore, nel buio della propria anima, nell’oscurità della storia del mondo perché il Signore, attraversandola, la trasformi in notte radiosa e splendida delle sue opere di salvezza.
La notte non è il tempo dell’assenza, piuttosto quello del desiderio: Quando nel mio letto di te mi ricordo e penso a te nelle veglie notturne, a te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali. A te si stringe l’anima mia: la tua destra mi sostiene (Sal 62).
Da qui, fratelli e sorelle, comprendiamo bene che anche il tempo tenebroso che stiamo vivendo, la notte del mondo, inaugurata da questa pandemia, necessita di magi, di uomini e donne che non temono, come bambini, immaturi, le tenebre. Abbiamo bisogno di uomini e donne, adulti nell’umanità, ovvero persone aperte alla umanità possibile, offertaci dal mirabile mistero dell’Incarnazione, che nella notte hanno il coraggio di alzare lo sguardo al cielo. Uomini e donne che sanno attendere il passaggio delle nuvole che coprono le stelle, che sanno scorgere la stella che ci è dato da seguire, quella che ci consente di porci ancora domande di senso, domande che ci rinnovano e ci mettono in gioco, che ci pongono in cammino, fosse anche lungo, incerto e persino pericoloso, ma sempre illuminato e illuminante. Lo abbiamo visto: l’uomo piegato su se stesso, sulla sua sola empirica conoscenza può ben poco… basta un invisibile, insensato virus a mettere in discussione il tutto, anche l’uomo stesso. Questa notte ci ha mostrato che va bene tutto, ma non va bene nulla se l’umanità non guarda più anche al cielo! Potremo forse vincere la battaglia contro questo virus, ma fino a quando non avremo avuto il coraggio di alzare lo sguardo e seguire la stella radiosa della nostra umanità, fino a quanto non avremo avuto il coraggio di riscoprire l’eternità e l’immensità che l’abitano, sorgerà sempre un nuovo problema, un nuovo virus, una nuova difficoltà che ci schianterà con la faccia a terra per il terrore dove tutte le certezze umane franano.
Matteo ci dà una sola indicazione circa l’itinerario seguito dai magi e si tratta di una indicazione riferita al viaggio di ritorno: per un’altra strada. Non si tratta di una indicazione di poco conto, perché rivela un’attitudine interiore dei magi, che molto ha da dire alla nostra vocazione e vita monastica. Essi non si radicano e non si atrofizzano su certezze umane, su traguardi spirituali raggiunti, non si asservono al potere di Erode. Nel loro cammino l’unica certezza è quella stella che risplende, che sta davanti come fonte di luce e di forza. Ci sono momenti in cui sembrerà ben poca cosa, eppure quando quella stella si fermerà sulla meta la gioia sarà piena: vedendo la stella provarono una grande gioia (Mt 2,10). L’adesione personale a quel bimbo, la premura verso di lui, il bisogno di fare di tutto per proteggerlo li spingono a imbarcarsi in un nuovo viaggio senza sicurezze. Il bene altrui diventa più cogente del bene proprio. Questa è la radice dell’umiltà monastica (cf Regola, cap. 7): non una flagellazione psicologica ed una frustrazione della propria vita, ma la scelta libera, convinta, responsabile, che coinvolge tutta la vita, di costruire il proprio bene unito a quello della comunità e dei singoli fratelli e sorelle che la compongono. Benedetto da Norcia, infatti, ci insegna che la perfetta umiltà si raggiunge quando ogni cosa è vissuta non più per timore ma per amore e con gioia.
3. Un altro elemento particolare del racconto, che ha scatenato le più fervide fantasie teologiche, è quello dei doni. Anzitutto va rilevato che la dazione dei magi è unita al gesto della adorazione: la proskynesis, l’inginocchiarsi. Si trattava di un atto di riconoscimento della signorìa regale del destinatario di quell’atto. Da qui, comunemente si fa discendere – sin da tempi remoti – il significato attribuito ai doni. Basti citare un Inno per l’Epifania di Prudenzio (IV-V sec.), il quale pone in versi una interpretazione già presente un secolo prima in Origine (III-IV sec.): l’oro è per il re, il profumo dell’incenso di Arabia preannuncia Dio e nella polvere di mirra c’è il presagio del sepolcro. A dire il vero, in Israele, la mirra, come l’incenso, era una semplice sostanza di profumeria (cf Ct 3,6) e non era necessariamente legata alla sepoltura. Se entriamo più a fondo nell’utilizzo attestato delle cose e delle sostanze, così come ce li indicano gli etologi, ci accorgiamo di un dato davvero interessante. L’incenso era ritenuto capace di purificare l’aria, gli ambienti in caso di esalazioni malsane o era usato semplicemente per profumare gli ambienti che spesso erano condivisi con gli animali; la mirra era utilizzata per medicamenti lenitivi in caso di ferite. Rimane l’oro. Ma si tratta proprio di oro? Nel mondo biblico si pensa che l’Evangelo di Matteo abbia avuto una redazione precedente a quella greca scritta in aramaico. Potremmo trovarci dinanzi ad una confusione terminologica data dalla traduzuione dall’aramaico al greco. I magi possono aver portato due spezie ed un minerale o metallo? E se invece si trattava di tre spezie? A quel tempo infatti la curcuma era chiamata, per il suo colore giallo intenso, l’oro delle spezie. Così ci troveremmo dinanzi a tre spezie medicinali per la cura della persona, volte alle necessità concrete per le loro proprietà di cura, antibatteriche, antinfiammatorie.
Letta in questa prospettiva la questione dei doni, unita all’atto della adorazione, ci offre un significato nuovo e forse più logico nella euritmia della narrazione: qui non è negata la adorazione della regalità e della divinità di Cristo, ma essa è unita ad una meravigliosa e concreta premura verso la sua umanità. Il Cristo è adorato nella premura concreta verso la sua carne: adoriamo Dio nel servizio generoso e concreto di coloro che sono le sue membra, ovvero i nostri fratelli, le nostre sorelle. I magi portano a Gesù ciò che hanno a disposizione: non doni d’élite ma doni che parlano di loro e che potranno essere utili a Gesù per la sua vita, per il suo benessere, la sua salute.
Per adorare Dio non abbiamo bisogno di trovare cose eccezionali da offrirgli: possiamo dargli la semplicità di noi stessi, così come siamo, ed il nostro amore premuroso verso i fratelli. Niente di più, niente di meno. La pretesa o l’illusione di dover raggiungere chissà quali perfezioni, per essere graditi a Dio, appare come un nuovo e persistente inganno religioso: l’amore di Dio è gratuito e donato gratuitamente; nulla da conquistare, nulla da meritare. È quella che il santo padre Benedetto da Norcia chiama l’abitudine al bene (consuetudine ipsa bona: cap. VII): un bene quotidiano, ordinario, vissuto nella semplicità delle piccole cose di ogni giorno.
Certo, doni profetici sarebbero stati più magniloquenti, più entusiasmanti. Il Dio della gloria affascina sempre più del Dio dell’umiltà e della quotidianità. Ma non è questo il Dio Incarnato che abbiamo celebrato nel Natale e che può riempire di senso di vita lo scorrere del tempo, del tempo della nostra esistenza.
4. Ecco, cari fratelli e sorelle, cari amici nel Signore! Siamo entrati nella vita e nella interiorità dei magi che forse oggi, dopo questo excursus, sono meno mitici ma più realistici. Ed è proprio in questa realtà concreta della loro vita, nella fatica del loro essere costantemente in ricerca, nel realismo pratico dei loro doni, nella praticità del loro percorrere un’altra strada per il bene della vita altrui, che essi si mostrano a noi come un meraviglioso paradigma di vita di fede, in genere, e di vita monastica, in modo particolare.
Nella commemorazione dell’Epifania del Signore auguro di cuore a tutti noi la gioia di alzare lo sguardo soprattutto nella notte per intercettare la nostra stella, il desiderio ardente e la tenacia di seguirla, la libertà dai guastafeste di turno per starle dietro, cambiando passo e traiettoria ogni volta che è necessario, l’esultanza di giungere alla meta, l’ebbrezza di poterci anche noi inginocchiare davanti a Lui per adorarlo convincendoci che il primo luogo dove lo troviamo è una comune casa, nella semplicità di un bambino, nel prossimo e non nel palazzo di Erode, nel tempio o nel sinedrio di ogni tempo e religione… per vivere l’avventura di una vita fatta di pienezza e di gioia! Amen!
dom Tonino +
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