top of page

Il tempo d'Avvento: il Tempo della Chiesa!

Secondo la tradizione ambrosiana, il tempo di preparazione al Natale dura sette settimane. Attingendo a questa importante tradizione ecclesiale, anche noi abbiamo vissuto sette settimane di preparazione, che sono state segnate dalla riflessione sulle Antifone "O" o Antifone Maggiori. Si tratta di antichi testi che invocano la venuta del Messia attraverso titoli cristologici tratti dall'Antico Testamento: insieme ai patriarchi e profeti ci uniamo nella trepidante attesa. Poiché tuttavia il Cristo è già venuto, l'Avvento ha un sapore teologico e spirituale preminentemente escatologico: Colui che ha mantenuto le promesse antiche ed ha inviato il Messia per la salvezza delle genti, manterrà di nuovo le sue promesse e farà tornare il Signore Gesù nella sua Gloria.

L'attesa escatologica cristiana non è soltanto aspettare qualcosa che deve venire o accadere: essa è operosa perché il Regno, che dovrà venire in pienezza, è già in mezzo a noi e ci è stata affidata la sua quotidiana edificazione. per questo motivo, le riflessioni, offerte dal nostro Abate, avevano alcune direttrici: i testi biblici di riferimento, giacché la Parola sta al centro di tutto ciò che facciamo; i testi di preghiera delle Antifone; l'annuncio del Regno che deve venire; le modalità esistenziali con cui ognuno cooperare alla costruzione del regno. Si tratta di una spiritualità dell'Avvento profondamente incarnata, concreta, , giacché nessuna attesa può essere sensatamente inerte o immobile.

C'è un piccolo particolare letterario delle Antifone "O", che vale la pena ricordare: se si prendono le iniziali dei titoli cristologici in esse contenute (Sapientia, Adonai, Radix Jesse, Clavis David, Oriens, Rex gentium, Emmanuel) e le si legge al contrario, ci si trova dinanzi all'acronimo ERO CRAS - sarò domani - verrò domani. Un simpatico stratagemma letterario per farci comprendere una splendida verità di fede: mentre il tempo a noi sembra scorrere sempre in avanti, in realtà in esso dobbiamo lasciarci portare indietro, ovvero allo zenit della storia che è il Signore Gesù; solo Lui è veramente lo ieri, l'oggi ed i domani dell'umanità vera.


Di seguito riportiamo le riflessioni del nostro Abate Antonio.

Commento spirituale dell'Abate Antonio Perrella in preparazione al Natale del Signore sulla prima Antifona Maggiore: "O Sapientia" (1 di 7).

Testo di riferimento: Mt 11,16-30

Cari Fratelli e Sorelle, care Amiche ed Amici, questa sera diamo inizio ad un tempo di preparazione al Natale del Signore, quasi ad un Avvento prolungato e a tappe, guidato da due elementi molto antichi della preghiera della Chiesa, elementi precedenti alle divisioni tra i cristiani. Si tratta del lucernario tratto dalle “Constitutiones Apostolorum” e delle Antifone Maggiori o altrimenti chiamate Antifone “O”, con cui si invoca la venuta del Messia. Attraverso questa preghiera noi ci poniamo, colmi di speranza, tra la prima venuta del Signore nella carne ed il suo ritorno nella gloria, come coloro che invocano la sua costante e quotidiana venuta, anzitutto in noi e nelle nostre azioni quotidiane e poi, anche attraverso di noi, nel mondo e nella vita di tutti. Un tempo per non dimenticare che la Chiesa, ciascuno cristiano, vive la dimensione escatologica come quella fondamentale della fede in Cristo che ha promesso di tornare.

Nel brano dell’ Evangelo, che abbiamo appena ascoltato, ci troviamo dinanzi ad un rimprovero e ad un elogio che Gesù fa verso alcune città. Il motivo del rimprovero o dell’elogio è lo stesso: il rapporto assunto nei confronti della sua persona e del suo insegnamento.

Corazìn, Betsaida e Cafarnao sono città della Galilea che, pur avendo ascoltato il Signore e pur avendo visto le sue opere, non lo hanno accolto, perché sono rimaste chiuse e ferme alla presunta sapienza che derivava dall’insegnamento religioso che le dominava e cioè da un rapporto con Dio fondato sull’osservanza legge e sulle norme.

Di fronte a queste città Gesù ne cita alcune, come esempio da elogiare. Si tratta di città il cui solo nome faceva rabbrividire i credenti osservanti: Tiro, Sidone, Sodoma. Si tratta di città distrutte a causa della loro lontananza da Dio. Bene, Gesù dice che se quelle città avessero ricevuto la grazia di ascoltare e vedere ciò che le prime hanno potuto ascoltare e vedere, certamente si sarebbero convertite. Queste città, simbolo del peccato, nel giorno del giudizio saranno trattate meno duramente, perché in esse mancava l’arroganza della legge, la presunzione di ritenersi giusti davanti a Dio e agli uomini e per questo avrebbero avuto un atteggiamento di disponibilità e accoglienza.

Corazin, Betsaida e Cafarnao, invece, avevano il cuore pieno di se stesse e sono rimaste apatiche davanti al messaggio di Dio: “vi abbiamo suonato il lamento e non avete pianto, vi abbiamo suonato canti di gioia e non avete danzato”. Il loro cuore e la loro mente sono chiusi, impermeabili ad ogni ulteriore visita ed opera di Dio, ad ogni novità dello Spirito che come “il vento soffia dove vuole”(cf Gv 3,8).

Per questo Gesù loderà i piccoli, cioè coloro che non presumono di essere apposto davanti a Dio, perché a loro è rivelata, manifestata la sapienza di Dio. Ma qual è questa sapienza, che Gesù è venuto a rivelare? È la sapienza dell’amore di Dio verso l’uomo. Gesù, l’unico che conosce il Padre e lo rivela, è la sapienza vera perché egli è l’incarnazione dell’infinito amore di Dio verso l’uomo. Chi accoglie questa rivelazione dell’amore di Dio verso l’uomo e su questa sapienza discerne e fonda le proprie azioni, questi è colui che ha accolto la sapienza. Chi invece pensa che la fede sia vivere secondo precetti, norme e leggi corre il rischio di precludersi alla conoscenza e alla disponibilità della Sapienza di Dio e prima o poi sarà schiacciato da un giogo troppo pesante da sostenere. La parola giogo ritornerà in At 15,10, quando Pietro – volendo impedire che anche ai pagani che accedono alla fede cristiana siano imposte le norme ebraiche – confesserà apertamente: “quel giogo pesante né i padri né noi siamo stati capaci di portarlo. Perché ora volete imporlo anche a loro?”. Prepararsi all’avvento del Regno di Dio significa anche discernere e fare chiarezza su cosa veramente libera e ci permette di amarci per amare. Significa spezzare le catene di prigioni inutili che non hanno niente a che vedere con il Vangelo, fossero anche cose che ci sono pervenute dell’educazione religiosa.

Gesù inviterà tutti, nessuno escluso, ad andare verso di lui. Gli affaticati e gli stanchi, cioè coloro che a causa di una legge asfissiante si sono sempre sentiti inadeguati e indegni dell’amore di Dio, in Gesù troveranno ristoro e respiro, ovvero l’ampio respiro del cuore di Dio che ama e promuove l’uomo, lo libera da tutte le schiavitù, sia quelle del peccato sia quelle religiose. Il suo giogo è leggero e soave, perché l’amore libera e dà senso e pienezza alla vita di ogni uomo e donna. L’unica sapienza, che è capace di disporre ordinatamente il mondo, da confine a confine ed è capace di farlo con forza, non è quella della legge che asserve l’uomo ma è quella dell’amore che lo rende libero e pieno di vita. Nell’amore l’uomo è vivo e dona vita, esattamente come Dio.

Alla luce di questo testo dobbiamo chiederci: quali opere rivelano la sapienza a cui ispiriamo la nostra vita? Quali sono i principi che danno sostanza e movimento alle nostre azioni?

Pensiamo che la sapienza sia il nostro rispetto di precetti legali di carattere religioso? Ma così non corriamo il rischio di sentirci sempre affaticati ed oppressi, in quanto non sempre riusciamo ad obbedire ad essi? E così ci sentiamo sempre in colpa, sempre inadeguati davanti a Dio. Questa sapienza può mettere in pace solo chi non ha il coraggio di guardarsi veramente dentro, perché non vuole vedere le sue debolezze e fragilità e non vuole riconciliarsi con esse. Se la sapienza è quella della legge, allora l’uomo rimane sempre schiavo di qualcuno che sta fuori, che sia lo stato o sia una religione. L’esasperazione di questo modo di intendere porta a conseguenze aberranti: una donna, che ha come unica colpa quella di essere cristiana, ha sete e prende un bicchiere d’acqua in un pozzo riservato agli islamici. Lei così, per quella legge religiosa, ha contaminato l’acqua e le persone che da quel pozzo hanno bevuto. È quindi blasfema e come tale deve essere messa a morte. Ed anche quando viene liberata deve essere nascosta e fuggire dalla sua terra per sopravvivere. E come se non bastasse la tragedia personale di Asia Bibi e della sua famiglia, se ne aggiunge un’altra, forse ancora più terribile: per le relazioni diplomatiche, le Istituzioni statali occidentali ed anche quelle religiose si mantengono neutrali, come se la vita di quella donna non valesse il rischio, non valesse il prezzo delle buone relazioni diplomatiche. Così una legge, che si presume divina, da fonte di vita viene trasformata in fonte di morte.

Pensiamo forse che la sapienza della nostra vita risieda nelle nostre capacità di creare relazioni utili, magari potenti ed influenti, con cui condizionare la vita delle persone che ci circondano e magari fare in modo che le cose vadano come noi riteniamo che debbano andare? Ma questa sapienza è fragile, perché è costruita non sul bene ma sull’interesse. E quando io non sarò in grado di assicurare l’interesse di chi si è alleato con me solo per trarne un vantaggio, cosa accadrà? Quello si alleerà con un altro più forte di me e mi schiacceranno, perché non servirò più.

Solo la sapienza dell’amore – che esce dalla bocca di Dio come tra poco canteremo – mi rende libero e mi rende liberatore degli altri! Se Dio vuole la gioia dell’uomo e la difende e gliela dona, allora solo questa può essere la sapienza che deve ispirare le mie azioni. L’amore mi libera perché mi fa sperimentare che Dio mi accoglie così come sono e non come potrei essere. Questo amore mi rende liberatore, perché come io sono accolto, così accolgo gli altri per quello che sono e non per quello che io vorrei che essi fossero. L’amore rispetta e accoglie, permette che ciascuno trovi la propria strada e costruisca la propria felicità, perché riconosce che Dio costruisce una relazione unica con ciascuno, senza schemi precostituiti da imporre pesantemente sulle persone. L’amore è dei miti e degli umili come Gesù, perché si mette dalla parte di coloro che sono ritenuti inutili e insignificanti. L’amore è liberante perché serve e non si serve delle persone.

Questa è l’unica sapienza e l’unica prudenza che Gesù ci ha mostrato ed è l’unica via che possiamo seguire per accogliere e vivere concretamente quella sapienza uscita dalla bocca di Dio, affinché essa riempia davvero con soavità e forza ogni confine della terra: è la sapienza dell’amore che si dona senza pretendere, che libera senza possedere, che promuove senza legare, che dà gioia senza chiedere contraccambio, che esalta senza gonfiarsi, che gioisce nel contribuire alla gioia altrui.

Ed ora invochiamo questa sapienza, perché essa plasmi la nostra vita, ovvero perché l’amore che esce da Dio e ci è stato donato da Gesù diventi carne quotidiana nella nostra storia e non resti un bel e consolante concetto di cui riempirci la bocca ma non il cuore e le mani. Così finalmente nel mondo si avvertirà la vicinanza del Regno di Dio, saremo gli autori di quel grido che si alzerà nella notte del mondo, fatta di paure, legacci ed egoismi: “Ecco lo Sposo! Andiamogli incontro!” (Mt 25,6).

“O Sapienza, che uscisti dalla bocca dell'Altissimo, arrivando da confine a confine, e con forza dolcemente tutto disponendo: vieni ad insegnarci la via della prudenza”.


Commento spirituale dell'Abate Antonio Perrella in preparazione al Natale del Signore sulla seconda Antifona Maggiore: "O Adonai" (2 di 7).

Testo di riferimento: Mt 25, 1-13

Cari Fratelli e Sorelle, care Amiche ed Amici,

la parabola delle dieci vergini è un testo che produce in noi reazioni sempre contrastanti: da un lato, ci sembra che sia giusto l’atteggiamento di quelle ragazze che si rifiutano di dare l’olio e, dall’altro, ci sembra anche un atto di egoismo. Come conciliare questi sentimenti che il testo suscita? Si può essere giusti senza essere rigidi o persino egoisti?

A dire il vero la narrazione della parabola è incongruente sul piano storico: all’epoca di Gesù, nessuno sposo usciva di notte per fare un corteo con concubine e tanto meno si presentava in ritardo al matrimonio; inoltre nessuna delle accompagnatrici del corteo (che al massimo era quello della sposa e non dello sposo) si sarebbe rifiutata di condividere con le altre l’olio per le fiaccole (che neppure venivano usate); ed infine, nessuna festa sarebbe avvenuta a porte chiuse perché un matrimonio era festa di tutto il paese. Proprio queste incongruenze ci fanno capire quanto Matteo voglia rendere importante e decisivo il messaggio contenuto nella narrazione.

L’evangelista divide le vergini in sagge e sciocche. Cosa significano queste parole nel linguaggio di Matteo? L’aggettivo “saggio” viene usato dallo stesso Evangelista poco prima di questa parabola. Nel capitolo 24 al versetto 25 Gesù definisce saggio l’amministratore fedele che il padrone, al suo ritorno, trova al lavoro e soprattutto a distribuire il pane ai servi. Così come egli usa l’aggettivo “sciocco” – anzi a dire il vero: “folle” – per quell’uomo che costruisce la sua casa sulla sabbia, ovvero su fondamenta insicure. In quel brano del cap. 7, Matteo dice che chi non ascolta “queste sue parole” è un folle che costruisce la casa sulla sabbia. Ma a quali parole sta facendo riferimento? Al cosiddetto discorso della montagna o delle beatitudini, nel quale ha gettato le fondamenta sicure del suo insegnamento, ovvero di uno stile di vita che sia il riflesso dell’amore di Dio attraverso la fiducia totale in lui, un atteggiamento di umiltà e mansuetudine ed un amore totale al prossimo.

Alla luce del vocabolario matteano, allora, saggio è colui che – guidato dalla parola di Gesù – fa della sua vita un dono d’amore e folle è colui che – o rifiutando o persino pure ascoltando la parola di Gesù – non la vive e fa della sua vita un’esistenza di egoismo. L’olio della sapienza, quindi, che arde nelle lampade è anche l’olio della libertà: cosa arde nel tuo cuore? Cosa illumina la tua vita? L’amore egoistico per te stesso o l’amore per Dio e per i fratelli? E quest’olio non può essere trasferito da una persona all’altra, non può essere regalato, perché è il frutto delle proprie scelte e dell’esercizio della propria e responsabile libertà. Se ti sei donato, se hai donato, te lo troverai; se non hai donato, nessuno te lo potrà dare.

Tutti viviamo nell’attesa del ritorno glorioso del Signore. Talvolta questa attesa è lunga e sembra non avere mai fine e la storia ci appare immersa nelle tenebre. Tuttavia, proprio in quelle tenebre, sempre il Signore suscita il grido dei profeti che annunciano: Lo Sposo arriva! Andategli incontro! Non esiste tenebra che non potrà essere squarciata da questo grido luminoso: il Signore viene!

A quel punto, ognuno saprà cosa ha fatto del tempo che gli è stato donato. E non basterà dire: Signore, Signore, aprici! Proprio come nella parabola della casa, costruita sulla roccia o sulla sabbia, lo stesso Maestro aveva detto: Non chi dice “Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli. Quella frase trova il suo senso compiuto nella parabola delle dieci vergini. L’olio non cresce nella lampada della vita in base alle volte che avremo pronunciato il nome del Signore, ma solo se quel Nome sarà diventato la nostra vita e ci avrà indotto a fare della nostra vita un dono di amore per i fratelli.

L’immagine spaventosa delle porte chiuse per sempre e della voce del Maestro che dice: “in verità non vi conosco”, è – a dire il vero – una bella immagine di assunzione di responsabilità. Non scherziamo con la nostra vita e non giochiamo con la vita degli altri e mai sia con quella di Dio! La Porta del Regno e la Voce del Signore potranno esserci amiche, solo se il fratello che bussava alla porta del nostro cuore vi avrà trovato anche lui una voce amica ed una porta aperta. Non è il Signore che ci esclude dal consesso della vita e dalla festa delle nozze; Egli vorrebbe condividere questa gioia con tutti. Ma una vita vissuta nell’egoismo è un’autoesclusione da questa condivisione. Quella Porta rimane chiusa se noi l’abbiamo chiusa con una vita ripiegata su noi stessi.

Nell’antifona “O Adonai” abbiamo ricordato che Dio ha liberato il suo popolo attraverso Mosè, con il quale aveva parlato nel roveto ardente. L’immagine del fuoco nella Bibbia è sempre immagine di passione e di amore: neppure le acque possono spegnere il fuoco dell’amore, dice il Cantico (cf 8,7).

Un cuore ardente, un cuore infiammato di amore è sempre un cuore aperto, un cuore disponibile. Tutti sappiamo che il fuoco, per ardere, ha bisogno di ossigeno e che muore in luoghi chiusi. Per questo il cuore non può restare chiuso, se vuole continuare ad ardere.

Può ardere un cuore che si chiude al fratello, perché diverso? Può ardere un cuore che si chiude al fratello, perché ha sbagliato? Può ardere un cuore che si chiude al fratello, perché ha una fede, un colore della pelle, una cultura, un orientamento sessuale, una scelta di vita, una relazione che io non comprendo o non condivido? Può ardere un cuore che si chiude a se stesso, perché io non sono come gli altri mi vorrebbero ed allora consento di farmi cambiare, per essere accettato? In un servizio, del programma televisivo le Iene, ha recentemente fatto molto discutere la testimonianza di Alessandro. Alessandro è un adolescente che dinanzi all’Italia ha gridato di essere stato guarito dalla sua omosessualità da Gesù. Il tono delle parole e della voce, a dire il vero, davano l’idea di uno sforzo di autoconvincimento molto forte. Mi sarebbe piaciuto chiedergli: ma lo dici perché hai bisogno di convincere te stesso o gli altri? Lo dici per non sentirti rifiutato dalla tua comunità e da tua mamma che la notte piangeva, perché eri come eri? Gesù non libera da ciò che si! Poiché ciò che si è, è dono d’amore Suo! Gesù può liberare dalla falsa idea di sé costruita e offerta dai sistemi sociali e socio-religiosi come nel caso di Alessandro! E potrà mai ardere il cuore di chi, avendo la responsabilità della guida di una Comunità, consente tanta inaudita violenza, ammantata di purezza religiosa? E potrà mai ardere il cuore di chi presume di fare la volontà di Dio, mentre invece calpesta e schiaccia la dignità e la libertà del fratello? Può mai ardere un cuore che non sa accogliersi per ciò che è, come un dono di Dio?

Così non si fa altro che arrivare alla porta, nel buio della notte pesta della proprie cattive opere e senza olio nelle lampade, e rimanere fuori a gridare sgolandosi: Signore, Signore! Inesorabile, la voce del Signore ci sconfesserà: Io non vi conosco!

Questa è la follia dell’uomo che, abbandonando la saggezza di Gesù, preferisce la prigionia alla libertà!

Scardiniamo i catenacci delle porte del cuore, facciamo entrare l’aria fresca e rinvigorente, lasciamoci liberare dall’Egitto delle chiusure, delle convenzioni anche religiose, degli egoismi, dell’orgoglio, dei risentimenti; e così noi stessi saremo il roveto ardente in cui il Signore continuerà a parlare. Saremo quei profeti di gioia e di responsabilità che grideranno nella esultanza: Ecco lo Sposo! Egli viene! Viene Lui direttamente e viene nel fratello che bussa, in attesa che la porta del nostro cuore gli si apra con generosa celerità. Andiamogli incontro!Amen!

“O Signore, e condottiero della casa di Israele, che sei apparso a Mosè tra le fiamme, e sul Sinai gli donasti la legge: vieni a redimerci col tuo braccio teso”.


Commento spirituale dell'Abate Antonio Perrella, in preparazione al Natale del Signore sulla terza Antifona Maggiore: "O Radix Jesse" (3 di 7).

“E Gesù diceva: 'Il regno di Dio è come la semente che un uomo sparge nella terra. Ogni sera egli va a dormire e ogni mattina si alza. Intanto il seme germoglia e cresce, ed egli non sa affatto come ciò avviene. La terra, da sola, fa crescere il raccolto: prima un filo d'erba, poi la spiga e, nella spiga, il grano maturo. E quando il frutto è pronto subito l'uomo prende la falce perché è venuto il momento del raccolto'. E Gesù diceva: 'A che cosa somiglia il regno di Dio? Con quale parabola ne parleremo? Esso è simile a un granello di senape che, quando viene seminato nella terra, è il più piccolo di tutti i semi. Ma poi, quando è stato seminato, cresce e diventa il più grande di tutte le piante dell'orto. E mette dei rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra'. Così, con molte parabole di questo genere, Gesù parlava alla gente e annunziava il suo messaggio così come potevano capire. Con la gente non parlava mai senza parabole; quando però si trovava solo con i suoi discepoli, spiegava loro ogni cosa” (Mc 4, 26-34).

Cari Fratelli e Sorelle, cari Amici ed Amiche,

siamo giunti alla terza tappa del nostro cammino di preparazione al Natale. Abbiamo visto, nei due momenti precedenti, che la Sapienza è l’amore che dà senso ed orientamento a tutta la vita e poi che non è sufficiente dire a parole che Gesù è il Signore della nostra vita, ma che questa affermazione deve manifestarsi nella vita quotidiana intessuta di Sapienza, cioè intessuta di Cristo.

Oggi leggiamo due parabole del Regno, presenti nel Vangelo secondo Marco: in esse, attraverso due similitudini semplici, Gesù ci insegna un altro atteggiamento necessario per edificare il Regno. Infatti, come stiamo scoprendo nel cammino di Avvento, l’avvento del Regno, non è un fatto che viene di per se e nonostante tutto bensì Dio chiama a cooperare con Lui perché il suo Regno venga edificato anche dalle nostre opere responsabili. Attraverso le parabole abbiamo inteso che è necessario adottare uno stile di vita ben preciso per entrare nel Regno, ovvero l’umiltà. Non però un’umiltà pietistica, un finto atteggiamento esteriore, quanto la consapevolezza ferma, convinta, che l’opera del Regno appartiene a Dio che ce ne fa dono gratuito.

La prima parabola, quella del seme, ci ricorda che il seme gettato porta frutto da sé, quasi senza che il seminatore se ne accorga. Non si tratta di disinteresse del seminatore, ma della consapevolezza che, una volta che il seme è stato gettato nella terra, questo intesse con lei un rapporto nuovo e personale che non dipende più dal seminatore. Noi seminiamo la Parola e l’amore di Gesù, ma poi come queste seme deve crescere, quando e in che misura dipenderà dal rapporto unico e inviolabile della terra con il seme. Non possiamo certo pretendere di controllare noi i luoghi della semina, i tempi del germoglio, le modalità dello sboccio della spiga. Ogni seminatore ha il compito ed il dovere di gettare il seme, con le stesse modalità con cui lo fa Dio e che ci sono state dette nella parabola precedente del seminatore. Egli generosamente getta il seme dovunque, persino su terreni improponibili, perché il seme può attecchire ovunque. Per il resto il seminatore umano deve fare un passo indietro: non sta a lui decidere dove il seme deve attecchire, quando e come deve portare frutto. Questa parabola ci insegna un doppio rapporto di umiltà: anzitutto, umiltà verso il seme, la cui forza di vita non è dipendente dal seminatore, ma l’ha in se stesso. La Parola attecchisce e porta frutto non per la bravura organizzativa o per l’eccezionalità oratoria di chi l’annuncia, essa scende nel cuore dell’uomo e compie il suo cammino. Ma dobbiamo avere umiltà anche verso la terra: non è detto che essa apra subito le zolle per far scendere il seme e, quando lo avrà fatto scendere, non è detto che porti subito il suo frutto o che lo porti nei modi e nelle quantità sperate dal seminatore. Darà il frutto che sarà capace di dare in quel momento. Il seminatore non può stabilire nulla né per il seme né per la terra. Credo che questa parabola faccia davvero bene al cuore di tutti noi battezzati, che sentiamo – o comunque dovremmo sentire! – la responsabilità di dare il nostro contributo alla semina della Parola e del Regno. Tante volte sembriamo preoccupati di valutare il frutto della semina: questo atteggiamento sembra un po’ preoccupante perché può nascondere una tentazione narcisista. Domandiamoci: ma siamo veramente occupati e preoccupati che il seme porti frutto o piuttosto l’ansia ci nasce dal desiderio di vedere riuscito il nostro lavoro e secondo le nostre aspettative talvolta mondane? Cioè l’ansia che ci portiamo dentro è per il Regno oppure è per noi stessi, perché non saremmo in grado di accettare che tutto il nostro lavoro non porti un frutto veramente immediato, visibile, quasi contabile? Talvolta, se ci guardiamo onestamente dentro, possiamo trovare questa tentazione: abbiamo lavorato tanto e per che cosa? Ne è valsa la pena? Chissà quante volte queste domande si sono affacciate al nostro cuore? La breve parabola di Marco ci ricorda una verità fondamentale, che è anche un invito del Signore: gettate con generosità il seme, non state a pretendere di controllare ciò che il seme fa nella terra, attendente con pazienza, non cercate risultati immediati e controllabili, gettate il seme e lasciate che esso si sposi con la terra e questa, a suo tempo e a suo modo, porti frutto. Lasciate al seme e alla terra la libertà di incontrarsi e sposarsi. A voi sta solo di gettare il seme con abbondanza; il resto non vi appartiene.

La seconda parabola è tratta sempre dall’esperienza agricola, questa volta, però, con un tenore più famigliare, perché parla di “orto” e non di campo e fa riferimento ad un seme ben preciso – quello della senape – che sin dall’antichità era conosciuta come pianta aromatica e medicinale. Sembra quasi che, accostando queste parabole, l’Evangelista voglia dirci che il seme della Parola viene seminato e cresce sia nei contesti ampi della Chiesa e del mondo sia in quelli più ristretti della famiglia e degli altri luoghi di umana convivenza (amicizie, lavoro, scuola…).

La logica, tuttavia, è sempre la stessa: il seme della senape è piccolo, anzi il più piccolo, ma la pianta a cui dà vita è molto grande. Esiste sempre una sproporzione tra ciò che noi facciamo per la semina e ciò che il Signore compie per la crescita del seme del suo Regno e per il suo frutto pieno. La logica di Dio e del suo Regno non sono comprensibili sulla scia delle logiche dell’uomo. Per questo è necessario che nell’impegno di discepolato e di annuncio siamo a noi a cambiare la nostra mentalità per sintonizzarla su quella del Regno, anziché pretendere che avvenga il contrario.

C’è però un altro elemento che arricchisce il senso di questa parabola. Se le altre parlano di frutto, qui si parla non di frutto ma di una pianta in cui gli uccelli trovano rifugio. Credo che Gesù usi questa immagine nuova perché noi non pensiamo che il frutto del seme sia per noi stessi, ma deve essere per gli altri. Produrre frutto secondo la logica del Regno non vuol dire fruttificare per sentirsi a posto con la propria coscienza cristiana, ma perché in quel frutto altri trovino il riparo, il luogo dove riposare e sentirsi a casa. La qualità del frutto della semente sta nella sua capacità di farsi casa per altri. In questa parabola il Signore, che ci specifica il tipo di seme piantato, non specifica tuttavia la razza degli uccelli che vi fanno il nido. Il seme deve essere chiaramente uno: la senape ovvero il seme dell’Evangelo. Ma nulla si dice della razza degli uccelli: tutti devono essere accolti e tutti devono poter trovare rifugio tra i rami della pianta che è la Chiesa di Gesù.

È chiaramente detto che gli uccelli fanno il nido “alla sua ombra”. L’ombra dell’albero è nella Bibbia immagine della protezione di Dio. Così il profeta Giona (cf. Gio 4, 6), dopo aver faticato per portare l’annuncio della conversione a Ninive, si siede ad attendere che la Parola annunciata faccia il suo corso e Dio, per proteggerlo dalla calura, fa nascere un albero di ricino. La Chiesa di Gesù, le differenti chiese cristiane, ogni battezzato – che ha accolto il seme della Parola e l’ha fatto fruttificare in sé – deve fare della sua vita un luogo di rifugio per ogni uomo. Chiunque, nella propria vita, si senta stanco, affaticato, braccato dagli eventi, dal giudizio degli uomini, dalle sofferenze e povertà, dalle ingiustizie, chi si senta schiacciato dal bisogno di qualcosa o di qualcuno che lo ascolti, in una parola, chiunque senta di avere bisogno nella propria vita di uno spazio di ombra in cui trovare riparo, deve trovare nei cristiani il luogo accogliente del proprio riposo e della propria pace. Null’altro è richiesto a colui che di Cristo porta o pretendere di avere il nome: cristiano. Null’altro di essere Buona Notizia, Evangelo, perpetuare nel mondo l’Opera di Cristo in favore del prossimo: “Venite con me, tutti voi che siete stanchi e oppressi: io vi farò riposare” (Mt 25, 28). I rami della pianta di senape non hanno diritto di scegliere quali uccelli far posare su di sé e quali no. La Chiesa di Gesù non è una voliera specializzata in razze pure di uccelli buoni e belli da vedersi. È, invece, un albero aperto perché chiunque possa poggiarsi sui suoi rami e lì trovare riparo per il volo della propria vita. Queste due parabole si intrecciano meravigliosamente con il testo dell’antifona O di questo giorno. In essa si intrecciano immagini di umiltà e nascondimento con immagini di trionfo: la radice è nascosta, la bandiera o vessillo invece è elevata e sta sopra.

Gesù è innalzato come segno per tutte le genti, solo perché ha scelto la via dell’umiliazione e della spogliazione. In questo tempo di Avvento, si moltiplicano le iniziative di carità, perché – si dice – a Natale siamo tutti più buoni! Se questa bontà “natalizia” serve a far nascere dentro tutti la nostalgia di ciò che veramente dovrebbe essere sempre, è allora una buona cosa; ma se dovesse servire come un alibi, per dire che anche sono state fatte opere buone e quindi la coscienza sta a posto, allora sarebbe davvero un pessimo modo di vivere il Natale. Sarebbe come se, nel mezzo di un anno vissuto per se stessi, si volesse acquietare l’umanità con un periodo breve o con singole iniziative di altruismo. Questa sarebbe ipocrisia e pusillanimità!

I telegiornali di questo periodo corrono il rischio di anestetizzarci. Vediamo a più riprese di pranzi fatti con i poveri ora qui ora lì, ora da istituzioni religiose ora da istituzioni laiche. Facciamo la corsa ad apparire seduti a tavola con i poveri. E poi, tutto il resto dell’anno, quanti di loro vengono accolti alla mensa quotidiana? Oppure si preferisce tenerli nelle mense, perché c’è qualcuno che si occupa di loro, senza che disturbino troppo e tutti? Ma, alla fine, in questo modo non si corre il rischio di usare il bisogno delle persone per fare della pubblicità a se stessi o alle istituzioni? Tutti amano essere stendardi e vessilli, ma quanto poco piace essere radici! Che nessuno vede, che nessuno apprezza ma che sono le uniche a portare nel nascondimento ogni giorno la linfa vitale all’albero. In queste occasioni, poi, spuntano incomprensibili ed anacronistiche alleanze tra potere civile e potere religioso, che si mettono insieme in questa kermesse della pseudo-carità. Ma queste alleanze, anche se apparentemente possono sembrare buone perché volte ad interessarsi dei bisognosi, portano sempre con sé un pericolo pernicioso perché nascosto. Prima o poi qualcuno chiede il conto e così o il potere religioso si dovrà asservire a quello politico o viceversa. In ogni caso, qualcuno ne farà le spese, perché i potenti tra loro non si pestano i piedi, ma volentieri pestano – anche insieme – i più deboli.

Gesù si è lasciato elevare solo alla fine della sua vita e persino su un vessillo di sconfitta, qual era la croce! Gli uomini, invece, amano essere innalzati sugli stendardi di una bontà affettata, a tempo determinato, per slogan, per “moda”, per abbindolare le coscienze. Non sappia la destra ciò che fa la sinistra (Mt 6,3), disse una volta Gesù. E talvolta si preferisce, invece, gridare ai quattro venti ciò che di tanto in tanto fa appena appena il nostro dito e neppure tutta la mano. E se, dietro questa bontà di facciata, ci sono storie di persone sole, povere, ammalate, importa poco! Facciamoci caso: nei servizi televisivi si parla molto di ciò che viene fatto per i poveri, ma non altrettanto si parla dei poveri, della loro storia, dei loro bisogni. Sembra quasi che faccia comodo che esistano i poveri, per sentirsi così brave persone che si occupano di loro. Ma la carità vera, non quella pulciosa, non è quella che si accontenta di saziare la fame di pane, ma quella che è capace di saziare la fame di vita, di dignità! Vera è la carità che fa di tutto, quotidianamente, perché le persone escano definitivamente dalla povertà, fino al punto che potranno vivere senza avere più bisogno di noi!

L’amore verso il fratello, soprattutto se bisognoso, non può in alcun modo essere una attività o un impegno, ma deve essere uno stile quotidiano di vita, che prende esempio proprio dal Signore Gesù. Egli non ci ha amati dalla sua gloria, cioè da lontano, né ci ha amati affacciandosi dal cielo di tanto in tanto. Il Natale, che sta per avvicinarsi, è la festa della sua incarnazione, cioè del suo essere venuto in mezzo a noi, anzi del suo essersi fatto uno di noi, povero con i poveri, bisognoso con i bisognosi e sperimenterà anche la fuga, il dover essere migrante e profugo. Prima di diventare la chioma bella e splendente dell’albero della sua stessa vita, egli si è fatto ed è rimasto radice. Tra un po’ noi accenderemo il nostro albero natalizio, lo addobberemo di luci e ci apparirà bello. Quelle luci, però, saranno vere se potranno significare solo il riflesso di una nuova cultura di amore, di un nuovo stile di vita improntato all’amore, che si fa educazione quotidiana della persona, sin dalla prima età, all’arte della condivisione. È dalla vita famigliare quotidiana che si insegna a non rimanere indifferenti dinanzi al bisogno di chi ci vive accanto. Non avremo una società solidale senza famiglie solidali, perché la macro-società è composta di tante micro-società. Le relazioni umane, sia famigliari, sia amicali, sia affettive, sia sociali, sono il piccolo mondo in cui ciascuno è chiamato a formarsi e diffondere una cultura della condivisione, della corresponsabilità che ci fa prendere cura quotidiana l’uno dell’altro. Questa è la radice di cui abbiamo bisogno, cioè non azioni sporadiche e una accanto all’altra, ma una mentalità nuova, che sta alla base di tutta la vita: un amore che si fa stile di vita.

Sarà questo stile di vita, fatto di umile e quotidiano amore concreto, a zittire i re della terra, cioè coloro che vogliono dominare sugli altri e servirsi di essi anziché servirli, a far sorgere dall’umanità nuova e solidale il grido, colmo di speranza: “Ecco lo Sposo! Andiamogli incontro!” (Mt 25,6).

“O Radice di Jesse, che stai come una bandiera per i popoli, innanzi alla quale i re della terra non parlano, (e) che le genti cercheranno: vieni a liberarci, non fare tardi”.


Commento spirituale dell'Abate Antonio Perrella in preparazione al Natale del Signore sulla terza Antifona Maggiore: "O Clavis David" (4 di 7).

Testo di riferimento: Mt 21, 33-46

Cari Fratelli e Sorelle, Cari Amici ed Amiche,

la parabola che abbiamo appena ascoltato viene pronunciata da Gesù nel tempio, dopo che i capi dei sacerdoti lo aveva interrogato o meglio provocato, per rivendicare il loro presunto potere su di lui.

L’immagine centrale è quella della vigna, che nel mondo giudaico era l’immagine per antonomasia di Israele. Isaia infatti dice: “Anche il Signore dell'universo ha una vigna: Israele. Questa piantagione da lui preferita è il popolo di Giuda. Dio si aspettava giustizia, vi trovò invece assassinii e violenze, chiedeva fedeltà, udì solamente le grida degli sfruttati” (Is 5, 7).

Questa vigna è cara a Dio, tant’è che le ha riservato ogni premura: ha piantato la vite, l’ha circondata con una siepe di protezione, vi ha scavato una buca per il torchio dell'uva ed ha costruito una torretta di guardia. Mettendo nelle mani dei contadini la vigna, egli affida loro non solo un luogo, un terreno, ma anche tutta la sua passione spesa e quel popolo che è destinatario di tutto il suo amore. Dio, quindi, si fida dei contadini che ha scelto. Ma questi hanno sovvertito il loro ruolo e anziché consegnare al proprietario il raccolto della vigna – cioè ciò che è suo – presumono di essere diventati padroni di essa. Ciò che producono con questa loro perversione è morte.

Dio con tanta pazienza manda più volte i suoi servi ed infine persino il proprio figlio, ma la sorte per loro è la stessa: bastonate, uccisione, lapidazione. E persino verso il figlio del padrone hanno lo stesso atteggiamento. A questo tratto della parabola occorre però riservare un’attenzione maggiore. Essi uccidono il figlio pensando che, facendo morire l’erede, possano acquisire la piena proprietà della vigna. Questa legge non esisteva. Sono così accecati dalla loro smania di possedere che confondono il proprio desiderio con il diritto, con la legge, con ciò che è giusto. Un secondo elemento caratteristico è che, per uccidere il figlio, lo portano fuori della vigna. Lui che aveva diritto di proprietà su quella vigna, lui che in quella vigna era a casa sua, viene sbattuto fuori e ucciso. Quei contadini presumono di aprire e chiudere la vigna a loro piacimento, dimenticando che la chiave di essa può stare solo nella mano del suo legittimo proprietario.

L’antifona maggiore di oggi ci ricorda chi è il vero proprietario e chi detiene le chiavi della vigna, cioè del popolo di Dio: è il Signore stesso, che è venuto ad aprire a tutti la vigna del suo Regno. Egli solo può aprire e chiudere e nessun altro può arrogarsi questo diritto.

Sempre la nostra antifona ci ricorda che Gesù, Chiave di Davide e scettro della Casa di Israele, è venuto a liberare lo schiavo che giace nel carcere che è tenebra e ombra di morte. Di per sé il carcere non equivale alla morte; sì, sei schiavo, ma almeno campi. Invece, per la nostra antifona, essere schiavi equivale ad essere morti.

Ma chi è colui che giace nelle tenebre e nell’ombra della morte? Chi è lo schiavo a cui fa riferimento?

Con estrema facilità si pensa a chi è schiavo del peccato. E sarebbe anche giusto! Ma qual è il peccato che fa morire? Nei Vangeli ed in tutti gli scritti del Nuovo Testamento la risposta è sempre la stessa: schiavo è colui che non ama; morto è colui che ha chiuso il proprio cuore all’amore.

Nella parabola ascoltata prima, quindi, ci troviamo dinanzi ad un paradosso: i contadini omicidi sono schiavi e morti; i servi ed il figlio del padrone, che amano la vigna come il padrone, anche se vengono uccisi, sono liberi e vivi!

Quante volte anche noi cadiamo nel fraintendimento e pensiamo che ad essere vivo sia chi raggiunge successo, potere, posizione, ricchezza; mentre sia schiavo chi è costretto ad un duro lavoro quotidiano, chi non ha alcuna posizione di rilievo e nessuna influenza, chi non possiede se non il necessario e, talvolta, neppure quello. Anche noi rischiamo di cadere nella perversione dei contadini omicidi.

Cosa accade quando un genitore riflette sul figlio le proprie aspirazioni ed i propri schemi, e non riesce ad amarlo così com’è, anche se diverso da come lo si sarebbe voluto? Chi è qui il vivo e libero e chi è lo schiavo e morto?

Cosa accade quando nei rapporti sentimentali e di amicizia, cerchiamo una persona per la gioia che può dare a noi, anziché per quella che noi possiamo dare a lei? Chi è qui il vivo e chi il morto?

Cosa accade quando nelle comunità di fede qualcuno presume di essere lui il criterio assoluto del vero e del giusto e si arroga il diritto di sbattere una persona fuori della vigna? Chi è qui lo schiavo e chi il libero?

Vedete, cari amici, come il pensiero comune, tanto lontano da quello di Gesù, entra anche nella mente e nel cuore dei cristiani? Quante volte abbiamo detto o sentito dire: beato lui, che si è fatto strada! Fortunato lui che siede a quella poltrona! E se poi cediamo una persona che tutti i giorni si deve spaccare la schiena per prendersi cura della propria famiglia, diciamo: poverino, quanto deve lavorare! Eppure sappiamo bene che quel lavoratore, per quanto stanco e piegato dalla fatica, è la persona più ricca del mondo perché il suo cuore è fonte di amore e di premura per le persone che gli sono state affidate. Dovremmo avere una “santa invidia” per il cuore di quell’uomo ed, invece, nel più profondo, invidiamo la ricchezza e la posizione dell’altro. È fin troppo facile cadere nell’ombra di questa schiavitù.

Persino la fede stessa, che è dono di libertà e di vita, potrebbe diventare tenebra ed ombra di morte, se viene trasformata in una religione fatta di precetti, di tradizioni e di leggi che schiacciano l’uomo. E guai a chi non piega il capo e a chi non si sottomette! Diviene elemento pericoloso da chiudere fuori della vigna.

Quante energie e risorse vengono spese per custodire tradizioni, che ormai non comunicano più la fede ma solo folklore religioso, nonostante tutte le elucubrazioni religiose e mediatiche con cui ci si sforza di presentarle ancora come eventi di fede! Pensiamo a certe feste o manifestazioni religiose, che aggregano sì persone per quel giorno o quei giorni, ma poi di quel popolo non rimane più nulla! E non sarebbe forse meglio vedere una “processione di credenti” che donano energie e risorse ai fratelli bisognosi? Cosa resta nel cuore e nella vita delle persone che hanno assistito (e neppure partecipato) a quegli eventi così roboanti nello spettacolarismo della religione? Nulla!

Eppure perché si continua ancora così? Forse per la velleità di dire che le istituzioni religiose hanno ancora tutto il loro peso sociale, culturale e politico? E così non si stravolge il Vangelo? Cosa si cerca in queste manifestazioni? Manifestare il proprio peso o annunciare Gesù? Celebrare se stessi e la propria capacità di aggregare masse o celebrare il Signore che ci ha resi un popolo di sacerdoti e santi per il nostro Dio? Ed anche in questo non si corre il rischio di prendere il figlio (cioè colui che dovrebbe stare al centro) per impossessarsi della sua vigna, cioè del popolo che è suo e deve rimanere soltanto suo?

Gesù è chiaro nella conclusione della parabola di Matteo: vi sarà tolta la vigna e sarà data ad altri contadini che la facciano fruttificare, perché la pietra che Dio sceglie è sempre quella che i costruttori hanno scartato. Ecco quando avverrà veramente il Regno: quando tutti coloro che portano il nome di Gesù penseranno come lui nella vita di tutti i giorni e non si lasceranno annebbiare dalle tenebre e dall’ombra della schiavitù, ma decideranno di essere liberi, cioè di non farsi sottomettere da un potere e da un pensiero che anziché servire Dio si serve di Dio per i propri scopi. Solo quando tutti avremo il coraggio di liberarci per fare come Gesù che predilige ciò che gli uomini scartano, che apre anziché chiudere, solo potremo iniziare a gustare l’avvento del Signore e si leverà quel grido di gioia, di libertà e di vita: “Ecco lo Sposo! Andiamogli incontro!” (Mt 25,6).

"O Chiave di David, e scettro della casa di Israele, che apri e nessuno chiude, chiudi e nessuno apre: vieni e libera dal carcere lo schiavo, che giace nelle tenebre, e nell'ombra della morte".


Commento spirituale dell'Abate Antonio Perrella in preparazione al Natale del Signore sulla terza Antifona Maggiore: "O Oriens" (5 di 7).

Testo di riferimento: Mc 5, 21-43

Cari Fratelli e Sorelle, cari Amici ed Amiche,

la quinta antifona maggiore saluta il Signore, che viene, con il titolo di Oriente, che è il nome dell’astro che sorge, del sole che si innalza da est ed è simbolo di vita che rinasce. Le chiese paleocristiane erano tutte rivolte verso oriente, perché si riteneva che il Signore proprio da lì sarebbe tornato nella sua gloria per dare inizio alla risurrezione. La nostra antifona infatti dice che il Signore, sole che sorge dall’alto, viene a liberare coloro che giacciono nelle tenebre e nell’ombra della morte.

Per comprendere, però, fino in fondo in che senso il Signore ci libera dalla morte, dobbiamo leggere con attenzione il brano evangelico che è stato appena proclamato. Sappiamo che l’episodio dell’emoroissa, nel testo di Marco, si interseca con quella della figlia di Giàiro, che il Signore risuscita. Mentre Gesù si sta recando a casa del capo della sinagoga che lo ha supplicato per sua figlia, una donna si nasconde in mezzo alla folla e tocca il mantello di Gesù. Ma chi è questa donna? Si tratta di una donna che non ha un uomo che si prenda cura di lei. Infatti, si dice che si era fatta curare da molti medici ed aveva, perciò, speso tutti i suoi averi, senza ottenere nessun risultato. Come mai non c’è un uomo che si occupi di lei e che rivolga a Gesù la preghiera di guarirla? Questa donna era sola. Possiamo solo argomentare, in base alle usanze del tempo. Sappiamo che la perdita del sangue era ritenuta causa di impurità. Una donna con emorragie non poteva entrare nel tempio né celebrare la Pasqua. Era un’esclusa dal consorzio umano e religioso. Se era sposata, suo marito non poteva dormire con lei né avere rapporti sessuali con lei, perché altrimenti diventava impuro anche lui e, se la situazione continuava, poteva persino ripudiarla. Quindi questa donna sola o non aveva potuto sposarsi o era stata ripudiata dal marito. Essa è viva ma in fondo è morta sia dal punto di vista fisico sia dal punto di vista umano e religioso: la malattia, se non guarita, l’avrebbe portata alla morte e poi, in quanto ritenuta impura, era morta socialmente e religiosamente. Dal punto di vista della fede, però, ella è viva come dimostrano i suoi pensieri: sarà sufficiente toccare il lembo del suo mantello. Si tratta di una persona che è stata esclusa dalla comunità religiosa, ma ha conservato la sua interiore fiducia in Dio.

C’è poi un’ulteriore considerazione che va fatta. Marco, poco prima di questo brano, aveva descritto lo sbarco di Gesù a Gerasa, in terra pagana, dove aveva liberato un indemoniato che abitava nei cimiteri, luoghi della morte e dell’impurità derivante dai cadaveri. Tornato in terra d’Israele, cioè nella terra della elezione, deve confrontarsi con altrettanta morte. Marco mostra così che, tornando a casa da terra pagana, non lo attende un popolo autosufficiente e sano, ma bisognoso e malato. Così si capisce come l’annuncio dell’Evangelo non esclude proprio nessuno, anche coloro che si ritengono i prescelti. Da qualunque parte della riva ci si metta o verso qualunque parte della riva si vada, c’è sempre qualcuno (o meglio tutti) che hanno bisogno di essere salvati, cioè di riavere in possesso la vita, che Dio aveva donato con sovrabbondanza, e che poi è stata tolta dai sistemi politici o sociali o religiosi che hanno escluso le persone, ne hanno schiacciato la dignità ed hanno fatto perdere loro la coscienza di essere un prodigio di Dio, una meraviglia da Lui fatta.

La donna “arrivò a toccare il suo mantello. Subito la perdita di sangue si fermò, ed essa si sentì guarita dal suo male. In quell’istante Gesù si accorse che una forza era uscita da lui. Si voltò verso la folla e disse: - Chi ha toccato il mio mantello? I discepoli gli risposero: - Vedi bene che la gente ti stringe da ogni parte. Come puoi dire: chi mi ha toccato? Ma Gesù si guardava attorno per vedere chi lo aveva toccato”. L’azzardo di fede della donna risulta essere liberatorio dalla legge opprimente e discriminante e dalla malattia. Quella donna, toccando Gesù, si libera di due schiavitù che la opprimevano: quella immediatamente visibile è la malattia, da cui viene sanata; ma poi c’è l’altra, la schiavitù della legge che le proibiva di avere qualsiasi contatto umano per evitare di diffondere ad altri la sua impurità. In questo modo Marco ci sta dicendo che nessuna salvezza e liberazione dell’uomo potrà avvenire, fintanto che la legge di Dio verrà ritenuta come qualcosa di disumano che disumanizza la vita delle persone.

Ora è una donna pienamente riabilitata e piena di vita! Gesù si accorge: “È vicino a chiunque lo invoca, a chi lo cerca con cuore sincero. Non delude le attese di chi gli è fedele, ascolta il loro grido e li salva” (Sal 145 18-19). Va alla ricerca della persona che lo ha toccato e domanda ai discepoli chi sia stato. I discepoli, sarcastici, protestano l’impossibilità di rintracciare chi lo ha toccato data la folla che li stringeva. Quasi ridicolizzando il Maestro, gli chiedono che senso avesse tale domanda. È l’atteggiamento di coloro che accompagnano e non seguono, sono accanto ma non vicini a Gesù. Non comprendono fino in fondo. Ma Gesù continua a cercare, guardandosi attorno.

“La donna aveva paura e tremava perché sapeva quello che le era capitato. Finalmente venne fuori, si buttò ai piedi di Gesù e gli raccontò tutta la verità. Gesù le disse: 'Figlia mia, la tua fede ti ha salvata. Ora vai in pace, guarita dal tuo male'”. La consapevolezza della Grazia ricevuta da parte di Dio rende “troppo” liberi: quella donna ormai ha il coraggio di uscire allo scoperto e di dire apertamente davanti a tutti che lei, considerata impura, ha avuto il coraggio di toccare un uomo, Gesù. Non si può più vivere nella paura! Qui si incontrano e si riconoscono due libertà: la libertà della donna che, in pubblico, si getta ai piedi di Gesù professando la sua fede in lui e raccontando tutta la verità; la libertà di Gesù che la ricrea quale “figlia”, la ristabilisce pura e degna di appartenere non ad un popolo, che si riteneva privilegiato, ma al Regno di Dio che ormai è in mezzo a noi (cf. Lc 17, 21). Per essere resi puri o purificarsi al tempo di Gesù, occorreva, secondo la legge, offrire il sacrificio di due colombe al tempio. Ora il Signore non indica alla donna di andare a presentare il sacrificio bensì di andare in pace! È la pace di una vita in pienezza che deriva solo dal corrispondere alla Grazia di Dio che è il dono di Amore che Cristo rende ad ogni uomo ed ogni donna!

Alla luce del brano evangelico e dell’antifona O Oriens, anche noi siamo chiamati ad uscire dall’ombra della morte e a far uscire gli altri da questa ombra. Recentemente ha fatto scalpore la notizia di un docente che ha emarginato un alunno perché malato di cancro, ritenendolo pericoloso per i compagni esposti a rischio di contagio. Qui, come nei contemporanei di Gesù, l’ignoranza è terribile! E non solo perché il tumore non è contagioso, ma perché viene usato come strumento impietoso di una esclusione. Oggi la scienza medica è riuscita a dare una vita quasi del tutto normale agli ammalati di HIV ed ha mostrato che neppure questa temibile malattia può essere diffusa se non per contatto di sangue e c’è chi – peraltro insegnante – pensa di escludere un ragazzo perché ammalato di tumore. Una persona afflitta da una malattia, così devastante, in nessun modo può essere esclusa dalla comunità degli uomini. Anzi, il grado di civiltà di una società o comunità si misura proprio dal suo grado di accoglienza e vicinanza ai suoi membri più deboli e feriti.

Nelle nostre città si vogliono di nuovo creare ghetti in cui rinchiudere i diversi per nazionalità e cultura, anziché allargare gli spazi della conoscenza, della convivenza e della integrazione. Un rigurgito pericoloso di nazionalismi esasperati sembra ripercorrere le strade che l’Europa ha già conosciuto agli inizi del secolo scorso e che hanno portato alla devastazione della Guerra Mondiale.

Sembra quasi che in ogni ambito si voglia rimanere nelle tenebre e nell’ombra della morte. Sfruttando la paura del diverso, dell’altro, si cerca di convogliare consenso e così, attraverso la paura di un pericolo costruito a tavolino, poter dominare le coscienze. Abbiamo visto invece che solo il coraggio e la libertà danno vita, così come è avvenuto per la donna del Vangelo che ha avuto il coraggio di presentarsi davanti a Gesù, che – dopo essersi butta ai suoi piedi – lo ha guardato negli occhi dicendo: Sono stata io!

E noi a chi stiamo guardando negli occhi? A chi sono rivolti i nostri occhi? Qual è l’Oriente della nostra vita? Oggi invochiamo Gesù, come Astro che sorge, e noi attestiamo di attendere lui. Ma la nostra vita è uscita dall’ombra della morte oppure siamo rimasti seduti nelle tenebre dell’ignoranza e delle chiusure, che non ci permettono di viere appieno? Se riconosciamo in Gesù l’Oriente della nostra vita, allora non possiamo che orientarci sulla sua stessa strada che è stata quella di rendere gli uomini liberi e consapevoli della loro grandezza e della preziosità indistruttibile della loro dignità.

Solo le persone che avranno accolto questa provocazione di Gesù non perdono il sangue della loro vitalità e avranno la forza di vedere l’astro che sorge e di indicarlo agli altri, gridando: Ecco lo Sposo! Andiamogli incontro!

"O (astro) Sorgente, splendore di luce eterna, e sole di giustizia: vieni ed illumina quelli che giacciono nelle tenebre, e nell'ombra della morte".


Commento spirituale dell'Abate Antonio Perrella in preparazione al Natale del Signore sulla terza Antifona Maggiore: "O Rex gentium" (6 di 7).

Testo di riferimento: Lc 1, 26-38

“O Re delle Genti, e oggetto del loro desiderio, e pietra angolare, che fai dei due un solo (popolo): vieni, e salva l'uomo, che hai plasmato dal fango”.

O Re delle Genti… quali immagini si affacciano alla nostra mente, mentre pronunciamo queste parole? Se fossimo dei bambini a cui è stato chiesto di disegnare ciò che immaginano, cosa uscirebbe dalle matite e dai colori nelle nostre mani?

Certamente penseremmo ad un’immagine che richiama la gloria, la potenza, la forza, l’autorevolezza. Penseremmo a qualcuno la cui autorità è universalmente riconosciuta tanto da riuscire, col suo solo nome, a riunire due popoli che prima erano divisi e poi trovano una unità soltanto per rispetto del nome del re.

E a quali popoli penseremmo? Magari, se abbiamo conoscenze bibliche, penseremmo subito al popolo ebreo, il popolo eletto, e all’altro popolo, quello delle genti, dei gentili, dei pagani. Se abbiamo una mentalità un po’ moralista, i due popoli potrebbero essere quello dei giusti e quello degli ingiusti che si convertono, facendo penitenza dei loro peccati. Ed infine, potrebbe trattarsi dei due popoli di coloro che credono e di quello di coloro che non credono, che dinanzi alla gloria vittoriosa del re non possono fare altro che inchinarsi e dire il loro “sì”.

Tutte queste immagini cosa hanno in comune? L’idea della gloria, della forza e della vittoria. Ed in fondo, quando pensiamo al Regno di Dio, tutti ce lo immaginiamo come qualcosa di glorioso che si impone, dopo secoli e forse millenni di nascondimento… Ma tutto ciò non è un’immagine riveduta e aggiornata di come il popolo ebraico attendeva il Messia? E, alla fine, gli ebrei del suo tempo non hanno rifiutato Gesù proprio perché il suo presentarsi come Messia non corrispondeva in nulla alle loro aspettative?

E se il Signore tornasse oggi, in modo diverso da come noi ce lo immaginiamo nella gloria del suo Regno, non correremmo anche noi il rischio di rifiutarlo di nuovo esattamente come fu rifiutato nella sua prima venuta nella carne?

La nostra attesa del ritorno di Gesù e dell’avvento del suo Regno è forse meno trionfalistica dell’attesa del Messia al tempo di Gesù?

Forse, allora, dovremmo ritornare alle origini, a come tutto ha avuto inizio…

Il messaggero di Dio scende nella regione della Galilea: non la regione nobile della Giudea, quella che conteneva la Città santa, Gerusalemme, ma una regione disprezzata perché ritenuta – come attestato dallo storico Giuseppe Flavio – un covo di pagani. E, come se già questo non fosse abbastanza, in una città chiamata Nazareth, che mai viene nominata nell’Antico Testamento. Proprio per la sua origine nazaretana Gesù verrà messo in discussione da Natanaele, che poi diverrà suo apostolo: da Nazareth può mai venire qualcosa di buono? Il messaggero di Dio, Gabriele, il cui nome richiama la forza di Dio, viene mandato in una regione ed in una città che niente avevano a che fare con la forza e la capacità di imporsi. I luoghi citati ci dicono invece di una scelta di abbassamento, di impotenza.

D’altra parte, anche le indicazioni che Luca ci dà circa l’interlocutrice dell’angelo non sono confortanti. Egli va in casa di una donna, a parlare con una donna. Ma Dio, fino a quel momento, non aveva mai inviato un suo messaggero ad una donna; sono gli uomini che cooperano alla salvezza, sono gli uomini che Dio sceglie come strumenti e messaggeri. E per di più il nome di quella donna fa rabbrividire: si chiamava come la sorella di Mosè, che era stata maledetta e castigata da Dio per la sua mormorazione, con la lebbra, una delle peggiori malattie che portava all’esclusione dal consorzio umano e religioso. Ed era “promessa sposa”: cioè un grembo infecondo, inutile, incapace – nella situazione in cui si trovava – di trasmettere la potenza della vita.

Cosa potrà fare Dio con questi ingredienti così scarsi e di poco conto? Nulla se non un evento grandioso e normale al tempo stesso: far nascere un bimbo. È la cosa più ordinaria e straordinaria contemporaneamente. Pensiamoci bene: nella natura non è iscritta una legge primordiale e potente della trasmissione della vita, della salvaguardia della specie, per cui ogni essere vivente è proteso a trasmettere la vita? In questo non siamo diversi neppure dai vegetali e dagli animali. Aneliamo a trasmettere la vita. Nulla di più ordinario, quotidiano e normale. Eppure, al tempo stesso, nulla di più straordinario! Quando sboccia un fiore, quando nasce un cucciolo, quando ascoltiamo il primo vagito di un bambino esplode in noi un senso di festa e tenerezza che nell’ordinarietà non sperimentiamo.

Chissà, forse proprio qui sta il prodigio! Dio viene nella straordinaria realtà di tutti i giorni.

A quel bimbo sarà dato il nome più bello: Dio salva! E quel nome gli sarà imposto non dal padre ma dalla madre. Dio lo farà re, non erediterà il regno di un altro, ma sarà un regno nuovo perché sarà diverso da tutti gli altri regni. Non apparirà in forza e potenza, non si presenterà con gloria e dominio. Manifesterà la sua gloria nel suo nascondimento, la sua grandezza nello spogliarsi della sua uguaglianza con Dio, la sua sovranità assumendo la condizione di servo e facendosi in tutto simile agli uomini.

Quali sono allora i popoli che è venuto ad unire? Santi e peccatori? Eletti e non eletti? Credenti e non credenti? O semplicemente Dio e l’uomo? E da qui poi riunisce tutto ciò che si era diviso in un mondo fatto di sforzi per dominare, per sovrastare, per emergere.

Re delle Genti: delle genti che per affermare se stesse hanno finito col perdere se stesse; delle genti che per assicurarsi un posto di prestigio hanno perso il gusto del camminare assieme; delle genti che per rivendicare la propria autorità hanno smarrito la gioia del servire; delle genti che per sentirsi come Dio hanno dimenticato la gioia di avere un Padre amorevole e comune a tuti gli altri uomini.

Questi popoli erano divisi in noi, in ciascuno di noi che sentiamo la lotta tra il fascino del vangelo della semplicità e del nascondimento e la ricerca della potenza e della gloria; in noi in cui sono in perenne combattimento due anime: quella che ha ascoltato la Parola e la sente come decisiva per svelare all’uomo il vero senso della sua umanità e quella che ha paura di lasciarsi andare perché teme di perdere ciò che pensa di aver conquistato.

Prima ancora che pensare alla riconciliazione dei due popoli, fuori di noi, dobbiamo pensare alla riconciliazione dentro di noi. Questa antifona impone delle domande personali a ciascuno: quanta paura ho io che il regno che viene mi rovesci dai troni che mi sono costruito? Quanta paura ho io che il regno che viene mi spogli di ciò che ho accumulato? Quanta paura ho io che il regno che viene mi coinvolga nella sua logica di servizio e di dono di me stesso?

Quella donna, dinanzi all’annunzio sconvolgente di dover diventare la Madre del Figlio di Dio, non dice: sì, per quest’opera importante vengo io! Ma dice: eccomi sono la serva del Signore! Non aderisce al progetto di Dio, ritenendolo un prestigio, ma guardando a se stessa come una persona che doveva servire quel progetto e servire, in definitiva, il bene e la salvezza dell’umanità. L’esempio di Maria non è quello di una semi-dea o di una eroina con poteri speciali. È stato semplicemente l’esempio di una donna che ha sentito di dover essere corresponsabile del bene dell’umanità, ha fatto la sua parte nell’opera più grande della redenzione, senza pretendere di avere in quell’opera altro posto se non quello che Dio aveva pensato per lei. Non era lei e non si è mai definita salvatrice o corredentrice, ma solo serva.

Quando anche noi avremo la capacità di riconoscere il Signore che viene nel sole che sorge, nel fiore che sboccia, nel bimbo che nasce; e quando avremo il coraggio di servire corresponsabilmente la ordinaria venuta del Signore anziché pretendere di determinarla noi, solo allora saremo l’umanità nuova che grida: Ecco lo Sposo! Andategli incontro!


Commento spirituale dell'Abate Antonio Perrella in preparazione al Natale del Signore sulla settima Antifona Maggiore: "O Emmanuel" (7 di 7).

Testo di riferimento: Lc 10, 25-37

“O Emmanuel, nostro re e legislatore, speranza delle genti, e loro Salvatore: vieni e salvaci, Signore, nostro Dio”.

Cari Fratelli e Sorelle, care Amiche ed Amici, siamo al termine di un tempo pedagogico quale quello dell’Avvento che – abbiamo imparato – esprime la dimensione escatologica permanente della Chiesa tutta. Ecco perché come Ordine Monastico Ecumenico abbiamo adottato un tempo più prolungato di preparazione al Natale del Signore traendo la medesima la veneranda prassi del Rito Ambrosiano.

L’antifona di oggi canta il Messia probabilmente con il titolo più bello, che è come la sintesi di tutto l’insegnamento di Gesù: Emmanuel! Dio con noi!

Il Dio con noi viene salutato sia come “speranza delle genti” sia come “nostro re e legislatore”. Cosa vogliono dire queste due affermazioni? Il Dio con noi è speranza delle genti perché, prima della incarnazione del Verbo di Dio, nessuno mai avrebbe potuto immaginare che Dio si sarebbe fatto tanto vicino all’uomo, alle sue vicende e alla sua fragilità, da assumere persino forma umana e mortale. Questo era incomprensibile, inconcepibile, assurdo tutt’ora agli occhi della ragione umana se non mossa dallo Spirito. Se si pensava alla vicinanza di Dio, si pensava al suo intervento potente nella storia dell’umanità, ma pur sempre rimanendo nella sua inaccessibile gloria divina. Dio ha superato le attese e le aspettative ed è disceso in mezzo a noi, come uno di noi. Questo è il fondamento più solido della nostra speranza: se Egli si è legato così tanto alla nostra vita e alle tortuose strade dell’esistenza umana di ciascuno, allora non se ne distaccherà mai più e condurrà il cammino dell’uomo verso la realizzazione del suo progetto che altro non è che la venuta del suo Regno di giustizia e di pace!

In questo Regno, quale sarà la legge suprema che il re e legislatore promulgheranno come unica forma di vita possibile? Sempre e in modo definitivo la legge nuova e antica sarà quella dell’Amore. Quando Dio sarà tutto in tutti, allora ogni vita vivrà della sua stessa vita che è amore, un amore che esce da sé e si fa prossimo!

Il senso di questo “farsi prossimo” però va bene inteso e, per comprenderlo al meglio, ci viene in aiuto proprio la cosiddetta parabola del buon samaritano.

Anzitutto una considerazione va fatta sul contesto in cui Gesù la pronuncia. Viene sollecitato da una domanda tendenziosa di un maestro della legge, il quale chiede a Gesù cosa debba fare per avere la vita eterna. Sappiamo già quanto questa prospettiva sia sbagliata: la vita eterna non è qualcosa che si compra o si ottiene o si merita con delle azioni, ma è un dono gratuito dell’amore di Dio che va conosciuto, accettato, responsabilmente corrisposto e condiviso. Eppure Gesù non si sottrae a questa domanda e dà una risposta articolata attraverso la quale egli mostra - al suo interlocutore - e a tutti noi, che la vita eterna non è soltanto qualcosa che deve venire, ma che è già venuta, assieme a Lui, ed è già in noi! Per sprigionare la forza rinnovatrice di questa vita che già pulsa nelle nostre vene dobbiamo solo lasciarle la libertà di scorrere, agire e trasformare anzitutto noi stessi e poi di conseguenza il mondo che ci circonda.

Gesù allora prende le mosse dalla concreta situazione culturale e religiosa di chi gli pone la domanda: “cosa è scritto nella legge di Mosè?”. E da qui porta quell’uomo a scoprire il vero senso dell’essere prossimo. Amare il prossimo: ci fa pensare subito a qualcuno che è bisognoso ed ha bisogno di noi. Per di più, nell’interpretazione antica, il prossimo era solo un membro della famiglia, del clan e del popolo. Qui Gesù stravolge completamente le cose. L’uomo incappato nei briganti e chi si prende cura di lui di per sé - secondo il modo d’intendere del tempo di Gesù - non sarebbero “prossimi”: l’uomo incappato nei briganti presumibilmente è un ebreo (galileo o giudeo) e chi lo aiuta è un samaritano. Sarebbero estranei, eppure Gesù sceglie di raccontare questa differenza non a caso! Inoltre, alla fine, pone una domanda ben precisa: “chi si è comportato come prossimo” dell’uomo malmenato? Nel Regno di Dio non esistono prossimi poveracci verso i quali esercitare la superiore benevolenza; nel Regno di Dio ognuno deve farsi prossimo.

Spesso, quando si pensa alla legge dell’amore verso il prossimo, lo si fa con un pensiero ed un cuore orgogliosi: chi è il prossimo che io posso aiutare perché io sono una brava persona, di sani principi, con una fede religiosa e con tanto amore da donare? Il Regno di Dio cresce in noi quando finalmente decidiamo di farci prossimi, di accostarci al fratello senza chiedere chi è, senza riversare su di lui la nostra voglia di apparire belle e buone persone. Farsi prossimi non è un atto conseguenziale al bisogno del fratello o della sorella bensì un’iniziativa che deve diventare atteggiamento dell’intera esistenza del cristiano/a verso tutti e tutte! In una parola, il Regno di Dio viene quando decidiamo di mettere al centro il fratello e la sorella. Farsi prossimo questo vuol dire: riconoscere che il centro, la meta sta fuori di me e sono io a dovermi spostare dai posti acquisiti delle mie certezze e posizioni, per andare verso l’altro!

Passare dall’ego-centrismo all’allo-centrismo… Quanto è facile a dirsi… quanto è difficile a viversi! Anche nell’entusiasmante cammino dell’ecumenismo questa strada è impervia. Di solito, soprattutto nei dibattiti teologici, ci si pone con una prospettiva mentale simile: come posso dimostrare al fratello che la mia teologia è quella che è rimasta fedele all’insegnamento di Gesù così che il fratello possa diventare più vicino a me? Perché non proviamo a pensare diversamente? Per esempio: cosa io posso togliere dalla mia esperienza e tradizione ecclesiale per avvicinarmi di più al mio fratello?

Questa è la mentalità del Regno: non ciò che io posso dare all’altro perché egli ne ha bisogno, secondo un mio punto di vista. Ma piuttosto: cosa posso fare per avvicinarmi all’altro, perché io gli sia meno distante, meno lontano?

Per far sì che questo nuovo modo di pensare e di vivere prenda forma in noi abbiamo bisogno di guardare alle azioni compiute dal samaritano della parabola.

“Gli passò accanto”: la prima azione è proprio quella della prossimità. Il sacerdote ed il levita si scansano, si allontanano. Il samaritano non teme di contaminarsi. Si accosta, potremmo dire: si approssima. Egli è l’immagine di quell’Adonai, cantato dalla seconda Antifona Maggiore come “condottiero”. La caratteristica del condottiero è proprio quella di stare fra le truppe, in testa alle truppe. La sua voce, il suo respiro, il suo sudore e la sua fatica si mescolano con quella degli altri. Nessun regno potrà venire se non impariamo a mescolarci, se pensiamo di stare a distanza gli uni dagli altri. Per questo il nostro Ordine è ecumenico: perché le diverse Chiese e i battezzati in esse imparino a stare assieme, a mescolare cioè a condividere la loro fede e le loro ricchezze, senza più vivere da estranei o da “parenti alla lontana”.

La seconda azione, “Lo vide”: quando ci accosta a qualcuno la prima esperienza è quella del vedere, cioè del riconoscere l’altro. Lo sguardo non è quello del giudizio, della valutazione, ma del riconoscere soltanto. Questo è lo sguardo che accoglie, che lascia all’altro la libertà di essere se stesso, di essere ciò che è senza volerlo a tutti i costi cambiare secondo i propri schemi ed i propri pregiudizi. Questo è lo sguardo della Sapienza, cantata nella prima Antifona Maggiore, che tutto dispone con dolcezza e questo è il motivo per cui nel nostro Ordine a nessuno è chiesto di convertirsi o passare ad un’altra Chiesa. Noi ci guardiamo e ci riconosciamo per ciò che siamo, scoprendo di essere ognuno un dono ed una opportunità per il fratello/a.

“Ne ebbe compassione” è la terza azione: il samaritano lascia che il suo cuore si smuova e si muova per condividere l’esperienza del fratello, che in questo caso è un’esperienza di dolore. Com-patire vuol dire avere gli stessi sentimenti, fare in modo che i cuori battano all’unisono, seppure ciascuno con il proprio battito. Per far questo occorre vincere la “sclerocardia”, tante volte lamentata da Gesù, ovvero il cuore chiuso e atrofizzato che smette di aprirsi, di dilatarsi nella diastole dell’amore. Perché solo questa dilatazione del cuore porta la vita, facendo scorrere la linfa. Così è la Radice di Isse, cantata dalla terza Antifona “O”. Ogni volta che dal ceppo nasce un germoglio, quel ceppo si lascia ferire, aprire, squarciare perché dalla fessura possa farsi spazio al nuovo germoglio. È un dolore, come le doglie di un parto, ma è un dolore carico di attesa e di gioia proprio perché fa germogliare la vita. La nostra Comunità ecumenica spesso richiede il dolore, la fatica di mettere da parte i particolarismi e la fermezza delle proprie convinzioni, per far spazio ad una vita nuova: quella cioè di una fraternità in cui ciò che ci unisce è sempre più grande ed importante di ciò che ci divide.

Con la quarta azione, il samaritano “Gli andò vicino”: è il massimo di prossimità. Quella cominciata dal “passare accanto” senza fuggire trova la sua pienezza nell’andare vicino. È ciò che fa il Re delle genti, cantato dalla sesta Antifona “O”, che riunisce i due popoli in uno e perché questa unione pacificante fosse resa possibile si è fatto Lui uomo per essere il collante e la saldatura tra gli uomini. Se Dio si è unito all’uomo, cos’altro potrebbe ancora dividere gli uomini? Così noi, con il nostro stile di vita ecumenica quotidiana, fatta non di eventi ma di ordinaria condivisione della vita, ci sforziamo di essere il collante tra le differenti Confessioni cristiane, che sperimentano così l’armonia delle differenze.

Per quinta azione il buon uomo della Samaria “Versò olio e vino”: elementi di guarigione perché – così ritenevano al tempo di Gesù – disinfettavano e lenivano i dolori. L’unica Chiesa di Cristo è ferita, perché si è lacerata e le sue ferite sanguinano ancora ogni volta che tra fratelli permangono diffidenze e sospetti e, al di là dei pronunciamenti ufficiali sull’ecumenismo, poi nella vita quotidiana si rimane separati e addirittura contrapposti! Per tale ragione, il nostro Ordine, tenace, continua a operare e credere che attraverso la conoscenza che infrange il pregiudizio, la condivisione che dirada il sospetto e la fraternità che abbatte le divisioni, vuole unirsi al Sole, Astro che sorge, cantato dalla quinta Antifona Maggiore, per diradare le tenebre dell’ignoranza, su cui ancor oggi si costruiscono – per interessi di vario genere – e si tengono in piedi le separazioni.

“Fasciò le ferite” è la sesta azione: si tratta di custodire ciò che è vulnerabile e facilmente attaccabile. Le debolezze dei fratelli e delle sorelle, cioè i cammini di fede feriti o le situazioni esistenziali attaccabili dai giudizi altrui, noi – come il samaritano - li custodiamo perché custodiamo il fratello e la sorella nella sua debolezza. E questo è anche il motivo per cui, nei differenti territori, le Chiese maggioritarie devono (non possono, ma devono) aiutare le Chiese minoritarie, che vivono oggettivamente situazioni di debolezza numerica, economica, logistica e sociale. È questo che fa la Chiave di davide, cantata dalla quarta Antifona Maggiore, che apre e chiude, cioè mette al riparo il fratello. Poiché, però, le situazioni di differente peso delle Chiese creano sempre gerarchie tra chi può più e chi può meno, da noi nel nostro Ordine tutti siamo costitutivamente uguali e nessuno può ritenersi più vicino alla verità dell’altro!

Infine, “se lo caricò, lo portò e pagò anche le cure dopo essere andato via”: il samaritano non si limita ad aiutare quell’uomo per quel momento, si prende cura di lui finché sarà ristabilito, anche se lui non potrà essere presente a bearsi del frutto di tutto il bene che ha fatto. Questo è il Dio con noi, che davvero si piega sull’uomo e gli dà la gioia di essere creatura e figlio, quand’anche la creatura decidesse di voltare le spalle al Creatore ed il figlio decidesse di allontanarsi dal Padre. Ed è per questo che il nostro Ordine ecumenico si ritiene come una stazione ferroviaria, dove tutti sono accolti e tutti sono preziosi. Non solo il treno con i suoi passeggeri, ma anche le pensiline, i binari e le panchine che restano fermi. Nella stazione nessuno chiede da dove vieni, ma tutti pensano a dove vanno insieme. Ed è a quella meta comune che tutti guardiamo e su cui concentriamo i nostri sforzi: l’unità tra i fratelli che esprime la gloria di Dio!

Solo quando avremo imparato ad avere questo stile di vita nuova, ovvero avremmo fatto della nostra spiritualità ecumenica un fatto concreto, poiché essa significa accogliere l’Evangelo, il grido che abbiamo sempre elevato: Ecco lo sposo! Andategli incontro, troverà risposta nella voce soave del Signore: Eccomi, io sono venuto, per te!

Auguri a tutte e tutti di un buon Natale del Signore! Amen, alleluja!


Comments


bottom of page