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III settimana d'Avvento: la Chiesa in attesa di Colui che "verrà a giudicare i vivi e i morti"

Venerdì 10 dicemmbre 2021 si è proseguito nel cammino per il tempo d'Avvento proposto Christiana Fraternitas con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum".

Ogni venerdì d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sul Credo ovvero il Simbolo Apostolico.




Testo integrale della I predicazione sul Simbolo Apostolico

del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella


et in Iesum Christum, Filium Eius unicum, Dominum nostrum,

qui conceptus est de Spiritu Sancto, natus ex Maria Virgine,

passus sub Pontio Pilato, crucifixus, mortuus, et sepultus;

descendit ad inferos, tertia die resurrexit a mortuis;

ascendit ad caelos, sedet ad dexteram Dei Patris omnipotentis:

inde venturus est iudicare vivos et mortuos.


Sorelle e fratelli carissimi,

siamo giunti alla terza tappa del nostro percorso ed è probabilmente la tappa più difficile, perché riguarda il secondo articolo del Simbolo apostolico, che ruota attorno alla persona di Gesù. Sappiamo che tra la fine del III secolo e l’inizio del IV si erano accesi ampi dibattiti sulla persona di Gesù, sulla sua natura e che queste discussioni vertevano soprattutto attorno alla sua relazione con il Padre e con lo Spirito. Si trattava, cioè, di discussioni cristologiche, ma in chiave trinitaria.


Prima ancora, però, e cioè già in età apostolica – ovvero mentre il canone delle Scritture del Nuovo Testamento andava formandosi e mentre alcuni scritti neotestamentari non avevano ancora visto la luce – già erano sorti dibattiti attorno a Gesù, alla sua natura, alla sua missione. Le primitive professioni di fede neotestamentarie – di cui abbiamo parlato nell’omelia per la I domenica di avvento – ci mostravano che esse erano formule attraverso cui poter discernere tra quelle che Paolo chiama la fede e la pseudo-fede (…). Egli intende per pseudo-fede proprio le interpretazioni errate dell’unico vangelo di Gesù Cristo. Allora non esistevano i termini eresia(che verrà usato molto più tardi ed il cui utilizzo ha prodotto risultati nefasti) né scisma, giacché con questa parola si intendeva - già nel Nuovo Testamento - ogni frattura, anche personale e non certo teologica o dogmatica, all’interno della comunità.


La comunità cristiana scrive le sue memorie (vangeli e lettere) proprio per custodire le parole, le opere di Gesù e gli scritti fatti risalire ai suoi apostoli, come scrigno di una fede che sia ancorata al contenuto originario per preservarlo da interpretazioni non coerenti con il messaggio stesso di Gesù.


Dal noto esegeta Raymond Brown sappiamo che, quando viene scritto il quarto vangelo (e di questo si trova traccia nello stesso scritto giovanneo), ci sono almeno sei gruppi con cui la comunità giovannea deve entrare in discussione proprio sulla comprensione della persona di Gesù.


Alla luce di tutto questo non stupisce affatto e si comprende perchè l’articolo cristologico del Simbolo sia quello più esteso.


Nel raffronto tra il Credo romano ed il Simbolo apostolico ci accorgiamo di alcune significative differenze. Il nostro testo, infatti, rispetto al suo progenitore si sforza di spiegare meglio alcuni elementi che devono evidentemente servire a cercare di comprendere più ampiamente la persona di Gesù:

  • illustra in che modo si possa dire che Gesù è nato di Spirito Santo da Maria;

  • aggiunge un riferimento alla passione e non solo alla morte e risurrezione;

  • infine, aggiunge anche l’affermazione della discesa agli inferi.


In questa sede non possiamo commentare tutto questo articolo di fede, ma – coerentemente al tempo liturgico che stiamo vivendo – vogliamo soffermarci su cosa esso afferma circa la venuta di Gesù nella carne e la sua venuta nella gloria. D’altra parte, abbiamo già detto che l’avvento ci prepara a celebrare la memoria del mistero dell’Incarnazione, ma lo fa in chiave escatologica. Cioè, più semplicemente, possiamo dire che l’avvento ci ricorda che Dio è stato fedele alle promesse fatte tramite i profeti ed ha inviato il suo Figlio come Messia; quindi, sarà fedele anche alle promesse fatte tramite il suo stesso Figlio e questi ritornerà nella gloria a giudicare i vivi ed i morti.


1) Il preambolo «Figlio unigenito di Dio e Signore nostro»: la signoria è dono non dominio

Entriamo allora nel testo di questa seconda parte del Simbolo apostolico. Essa inizia con una confessione di fede in Gesù Cristo, professato come Figlio unigenito di Dio e Signore nostro. Occorre notare che il testo si dilunga sulla nascita umana di Gesù, ma della sua divina figliolanza non dice nulla; si limita ad affermarla. Sappiamo che nei testi successivi si aggiungerà «generato non creato dal Padre»; ovvero si tenterà di esplicitare il modo con cui il Figlio deriva dal Padre. Il Simbolo apostolico invece dinanzi alla soglia della vita intratrinitaria si arresta, non osa parlarne; sa che la lingua umana dinanzi al mistero ineffabile della vita intima di Dio vacilla. Ireneo di Lione, padre della chiesa, ha un bel testo proprio su questo punto, leggiamolo insieme:

«Com’è stato generato il Figlio dal Padre? Noi rispondiamo che questa emissione o generazione è ineffabile: nessuno la conosce, ad eccezione del Padre che lo generò, e del Figlio che fu generato. Essendo allora ineffabile la sua generazione, quanti tentano di spiegarla non sono sani di mente, perché promettono di spiegare cose inesplicabili» (Adv. Haer. II 28,6).


È interessante notare che la professione dell’unicità della figliolanza divina di Gesù (unigenito Figlio di Dio) è legata a quella della sua signoria su di noi (nostro Signore). L’accostamento di questi due elementi testuali ci suggerisce la possibilità di leggerli in ambedue i versi: dalla figliolanza alla signoria e dalla signoria alla figliolanza. Mi spiego: nel primo verso di lettura, si afferma che noi professiamo la signoria di Gesù e lo adoriamo, perché egli è Dio con il Padre. Si tratta, cioè, della negazione decisa che i cristiani adorino un uomo, giacché colui che essi chiamano Signore è il Figlio unigenito di Dio. Dall’altra parte e nel verso opposto, il testo ci dice che la figliolanza divina è da noi riconosciuta attraverso la sua signoria ed il modo con cui egli stesso l’ha attuata, ovvero il suo servizio all’umanità e la donazione della sua vita per la nostra redenzione. Intanto possiamo riconoscere che Gesù è Figlio di Dio in quanto egli ha manifestato il suo essere nostro Signore nell’offerta della sua stessa vita.


Questa confessione di fede nella divinità del Figlio di Dio e nella Signoria di Cristo Gesù ci dice che noi riconosciamo come proprio della natura divina l’atto supremo della donazione, dell’amore che genera vita e dà vita. Dio si manifesta come Dio proprio nell’atto di protendersi, dell’uscire da Sé per darsi, per donarsi. E questo ci fa comprendere che la grandezza, ogni grandezza – e, se è vero per Dio, figuriamoci quanto dovrebbe essere vero per noi uomini! – la vera grandezza non sta nel ritirarsi, nel separarsi sdegnosamente, ma nel protendersi, nel donarsi, nell’uscire da se stessi per farsi oblazione d’amore.


Il mistero dell’incarnazione è la cifra storica di questo protendersi del Figlio verso di noi. Egli esce dalla sua gloria divina e scende nella nostra umanità, in tutta la nostra umanità.


Questo preambolo serve da chiave di lettura di tutto ciò che seguirà nel testo del Simbolo.


2) Concepito di Spirito Santo, nato da Maria Vergine: Dio prende sul serio la cooperazione umana alla sua opera di salvezza

Il Simbolo romano diceva: natus est de Spíritu Sancto et Maria Virgine. La congiunzione et è particolare: per comprenderne il senso non basta dire che si tratta di una congiunzione. Esistono tipi differenti di congiunzione. Et è una congiunzione coordinante copulativa: ovvero lega, mettendole sullo stesso piano logico, due parti del discorso (sostantivi o proposizioni). Non è difficile allora capire perché il Simbolo apostolico abbia avvertito immediatamente il bisogno di chiarire i termini, perché l’uso della congiunzione coordinante copulativa et non ingenerasse l’idea di poter equiparare l’azione dello Spirito Santo e quella di Maria nella nascita umana del Logos divino. Il nostro testo, infatti, esplicita: «qui concéptus est de Spíritu Sancto, natus ex Maria Virgine». Lo Spirito permette che venga concepito nella carne il Figlio di Dio, giacché dalla creatura umana può nascere solo un’altra creatura umana. Maria, accogliendo l’azione dello Spirito, fa nascere la umanità del Figlio di Dio. Forse in questo linguaggio si risente, in parte, dell’idea diffusa a quel tempo che il donatore della vita fosse il seme maschile e che la donna si limitasse a riceverlo. Qui allora sarebbe lo Spirito a generare la vita del Figlio incarnato e Maria sarebbe il vaso accogliente che lo fa nascere nel mondo. Tuttavia, questa lettura sembrerebbe artefatta e non avrebbe radice nel testo. Il testo, invece, ci dà un indizio ancora più interessante attraverso l’uso delle preposizioni. Riguardo al concepimento per opera dello Spirito usa de; in ordine alla nascita da Maria usa ex. Forse è sull’uso distinto delle preposizioni che dovremmo soffermarci alquanto. La preposizione de è usata per non pochi complementi. Fra questi ve ne sono due particolarmente interessanti: quando traduce il moto da luogo, cioè la provenienza, la sua sfumatura è sempre quella di un movimento dall’alto verso il basso, cioè di discesa. Altrimenti si usa e/ex. Inoltre, la preposizione de può anche tradurre il complemento di materia. Ora, sappiamo che questo complemento ci dà l’identità specifica della cosa. Per esempio, io posso dire “una bottiglia”, ma ciò che dà la qualità dell’oggetto (e per così dire, il suo valore) è la materia: è una bottiglia di plastica o è una bottiglia di cristallo? Sembra quasi che il testo con l’utilizzo della preposizione de ci stia dicendo due cose, che semplifichiamo così: «attenzione! Voi, con i vostri occhi, vedrete un uomo, ma quell’uomo è il Figlio di Dio (perché concepito di Spirito Santo) ed è disceso dal cielo».


In questo modo, del mistero della incarnazione del Figlio di Dio vengono affermate l’assoluta origine divina (contro ogni riduzione di interpretazione della divinità del Figlio di Dio) e lo strumento umano di realizzazione (contro ogni riduzione della umanità di Gesù), pur con una differenza testuale con la quale si attesta che l’iniziativa è di Dio e alla parte umana spetta una cooperazione. Senza ridurre l’importanza della cooperazione della madre di Gesù all’opera salvifica dell’Incarnazione, sembra evidente che il Simbolo, volendo chiarire i termini e la differenza di coinvolgimento nell’azione da parte dei due soggetti (quello divino e quello umano), pone le basi per un inquadramento corretto del ruolo di Maria, senza volerlo ampliare a dismisura, elevandolo a rango divino o semi-divino. È in quest’ottica che si deve leggere anche il riferimento alla verginità di Maria: esso si riferisce chiaramente al momento del concepimento umano del Verbo di Dio e sottolinea l’assenza di intervento da parte dell’uomo. Il prolungamento della verginità a tutta la vita di Maria sarebbe un’estensione di significato che – sebbene presente in legittime interpretazioni ecclesiali – comunque non sembra avere un addentellato esplicito nel testo del Simbolo e neppure in quello neotestamentario. Anzi il testo matteano dice espressamente che «[Giuseppe] non la conobbe fintanto che [fino al momento che: eōs] essa non partorì un figlio» (Mt 1,25). Come Matteo anche il Simbolo è interessato unicamente ad attestare la peculiarità del concepimento umano di Gesù, senza nulla dire sul dopo.


Questa attenzione del testo a non forzare i dati e a non andare oltre quello che la Scrittura attesta dovrebbe essere un atteggiamento di metodo costante nell’approccio alla verità rivelata. Quello che Dio ci ha voluto mostrare di sé lo ha mostrato! Non è il caso di spingersi oltre, di calcare la mano per andare oltre. La comunità cristiana è destinataria di una verità salvifica e annunciatrice di questa verità; non è fattrice di verità, non costruisce, non inventa: riceve e trasmette. Ancora una volta, il testo del Simbolo ci insegna umiltà dinanzi alla comprensione e alla esplicitazione intelligente del mistero di Dio, che non tollera di essere manovrato e manipolato, ma richiede – o forse, pretende – di essere accolto e donato.


Un altro aspetto, posto in rilievo dal testo del Simbolo e dal suo sviluppo storico, è la retta comprensione del rapporto che esiste tra la azione divina e la cooperazione umana. Dio interpella l’uomo, lo vuole cooperatore nell’opera della redenzione, ma è Dio che salva, che permette l’impossibile. Dio invia il suo Figlio e chiede la cooperazione di una donna, perché il Figlio deve (nel progetto divino) assumere tutta e completa l’umanità, sin dal primo momento della sua esistenza terrena, che è il concepimento. Come entrerà nel ventre della terra (disceso agli inferi) per rinascere a vita nuova (la risurrezione), così è stato necessario che egli entrasse nel ventre di una madre umana (concepito), per nascere alla vita di uomo. Così l’umanità è strumento cooperante dell’azione che, tuttavia, è e rimane di Dio, soggetto principale senza del quale il mistero dell’evento dell’incarnazione non accade. Può sempre accadere, infatti, che una madre dia alla luce un figlio, ma solo lo Spirito fa sì che quel figlio d’uomo sia anche il Figlio di Dio. Ed anche questa sfumatura semantica del testo del Simbolo Apostolico non è scevra di conseguenze per la vita ecclesiale: la comunità cristiana è lo strumento di un incontro tra gli uomini e le donne e Gesù, ma la salvezza viene da Dio e dalla sua grazia. Nella prassi ecclesiale nulla dovrebbe essere posto in essere che possa trasmettere anche solo l’impressione che la Chiesa pensi a se stessa come causa o con-causa di salvezza. Essa è e rimane e deve rimanere lo spazio umano in cui le persone hanno la possibilità di accogliere la grazia della redenzione che viene unicamente e senza alcun merito da Dio. La mediazione ecclesiale, così compresa, è mediazione leggera, trasparente, non ingombrante e non invadente: è una mediazione di servizio. Lo scenario sacro ed intangibile dell’incontro tra Dio e l’umanità è la persona stessa e la sua coscienza; la Chiesa è solo la facilitatrice di questo incontro, un po' come Giovanni il battezzatore il quale indica: ecco l’agnello di Dio! (…) ma non si sostituisce a lui, la chiesa è il grembo materno che permette al figlio di nascere a vita propria ed autonoma.


Affermando che il concepimento è opera dello Spirito e che la nascita umana avviene per mezzo di Maria, il Simbolo Apostolico ci manifesta che ciò che è umano è lo strumento di realizzazione del progetto divino.


3) Tornerà a separare ciò che è vivo da ciò che è morto: Dio prende sul serio la nostra libertà

Il segmento dell’articolo cristologico del Simbolo, che riguarda il ritorno glorioso del Signore, è ancora più sintetico. E, del resto, non poteva che essere così. Se qualcosa di più specifico possiamo dire circa la venuta di Cristo nella carne, in quanto è già avvenuta e ne abbiamo testimonianza dagli scritti neotestamentari, nulla possiamo dire della sua venuta per il giudizio. Anzi, Gesù stesso sembra essere recalcitrante a dire di più: «quanto a quel giorno e all’ora, nessuno sa, né gli angeli dei cieli, né il Figlio, se non il Padre» (Mt 24,36; Mc 13,32). Il voluto silenzio del Figlio sull’ora definitiva della storia, l’ammissione di ignoranza su quel momento è un atteggiamento di fede e sapienziale. Se l’ora è conosciuta non da un Dio asettico e distante, ma dal Padre, questo al Figlio unigenito (e con lui a chiunque voglia essere figlio del Padre) basta. Non si tratta infatti di un’ora tremenda, ma di un’ora di verità e di vita, la cui venuta ed il cui principio risiedono nella paternità di Dio.


Il testo del Simbolo ci parla di una venuta che prenderà le sue mosse dalla destra del Padre. Così ci indica l’avverbio inde (o unde del Credo romano) che significa letteralmente da lì, da quel luogo e che lega al contesto precedente. Di questa venuta conosciamo solo il motivo: iudicare vivos et mortuos. Il verbo iudicare deriva dal greco krinein, che nel linguaggio neotestamentario significa sostanzialmente separare. L’atto del giudizio quindi assume i connotati di una separazione.


Ora dobbiamo chiederci: questo breve testo cosa può voler dire? Una lettura possibile è che il Signore Gesù verrà dalla destra del Padre per giudicare sia chi in quel momento sarà già morto sia chi in quel momento della sua venuta sarà ancora vivo. Secondo questa interpretazione il binomio vivos et mortuos allora sarebbe un merismo: “vivi e morti” starebbe per “ogni essere vivente”, ovvero verrà a giudicare tutto e tutti.

Ma chiediamoci: può esistere, tuttavia, una possibile interpretazione forse più letterale e più aderente all’origine neotestamentaria e, quindi, greca del testo del Simbolo? Di per sé sì! E suonerebbe così: «di là verrà per separare chi è vivo e chi è morto». Con questo significato, il ritorno nella gloria del Signore assume una sfumatura diversa: è l’atto supremo della verità sulla storia, sull’umanità e su ogni persona. Cioè, siamo noi – con le nostre scelte, con i nostri stili di vita – a fare di noi dei viventi o dei morti che camminano, già in questo momento storico. E questa possibile interpretazione troverebbe riscontro in quella che viene chiamata escatologia attuale o attualizzata. Senza aderire in tutto alle posizioni di Moltmann – che alla fine annulla l’attesa della venuta del Signore – c’è tuttavia un’attenzione che da lui andrebbe recuperata. Egli dice che l’eschaton (il tempo ultimo e definitivo) coincide con l’attimo della fede, cioè quando l’uomo accoglie Gesù, come Signore della sua vita, ed il Vangelo, come forma della sua esistenza, in quel momento stesso egli entra nella risurrezione, la sua è già vita eterna. Ora, se questo non è del tutto corretto, bisogna anche però dire che non è del tutto sbagliato.


La vita cristiana è vita di risurrezione, perché è vita che genera vita, che dà frutti di vita. In qualche modo, con una vita realmente evangelica, noi già entriamo (anche se non ancora del tutto definitivamente) nella pienezza della vita portata da Gesù con la sua incarnazione e con la sua morte e risurrezione. Il credente in Gesù vive, se produce frutti di vita, se dà vita, se genera vita; muore se, chiuso nell’egoismo, già entra nella morte eterna, intesa come spreco di vita, rinnegamento della vita e del suo senso.

Alla fine dei tempi, quando il Signore tornerà, egli dirà, manifesterà la verità su tutto e su tutti, su chi ha vissuto da vivo e su chi ha “vissuto” da morto.


Questa possibile interpretazione ci interpella sulla responsabilità che portiamo nella vita e nell’uso della libertà, sul senso che diamo alla nostra vita, su ciò che ispira le nostre scelte, sull’opzione fondamentale che compiano nella nostra esistenza e che inveriamo di volta in volta con le quotidiane scelte, che siamo chiamati a fare.


4) Conclusione: e noi ci prendiamo sul serio?

In conclusione mi sembra di poter dire che i due segmenti analizzati dell’articolo cristologico gettano una luce importante sulla serietà con cui Dio si relaziona alla libertà umana e su come Dio prenda sul serio la nostra vita, le nostre opere e la nostra collaborazione al suo progetto di salvezza.


Il chiarimento sul ruolo di Maria nell’opera della creazione (il primo segmento) e la nuova consapevolezza che il giudizio dirà la verità di noi stessi, e cioè se abbiamo scelto di vivere da vivi o da morti (il secondo segmento) possono racchiudersi sotto un unico titolo: Dio ci prende sul serio, Lui dà peso alla nostra vita, all’uso della nostra libertà, alla grandezza delle nostre azioni.


L’invito del tempo di avvento alla vigilanza, allora suona a noi come impellente e pressante domanda: ed io do alla mia libertà, alla mia vita, alle mie parole e alle mie azioni lo stesso peso che gli dà Dio? Ed io mi prendo sul serio come Dio mi prende sul serio? Non è più tempo di lasciarci scorrere la vita tra le dita, di lasciarci travolgere dal flusso del tempo e dal ritmo incalzante delle cose; è giunto il tempo che, alla luce della Signoria di Cristo, esercitiamo in pieno la nostra signoria sul nostro tempo e sulla nostra vita, che è un anticipo ed uno sprazzo di eternità, già qui, già ora. Solo vivere in coscienza, consapevolezza e responsabilità, prendendo sul serio la mia libertà e ciò che da essa scaturisce, mi rende un redento che risorgerà nella vita con Cristo, perché ha avuto l’audacia di vivere già ora da vivente!


Avevamo poi detto che l’articolo cristologico del Simbolo si apriva con un preambolo in cui, confessando Gesù come Figlio di Dio e Signore, riconoscevamo che la Signoria e la Figliolanza divina di Cristo si manifestano a noi nella donazione della sua vita, nel suo farsi servo.


Alla luce di questo, le domande che ci poniamo, allora, divengono ancora più radicali e brucianti: io prendo sul serio la mia libertà e la esercito per metterla al servizio? O ne faccio un pretesto per imporre me stesso agli altri e dominarli? Io do senso alla mia esistenza, facendone un dono, o piuttosto la sperpero vivendo solo per me stesso, per i miei obiettivi, per i miei capricci? Estendo la mia vita e la dilato nella eternità, già presente, facendone un dono di vita, oppure la rattrappisco e la prosciugo, redendola morta sin da questo momento, sciupandola nell’egoismo?


Prendici sempre sul serio, Signore che vieni; e, soprattutto, aiuta noi a prenderci davvero sul serio, finalmente e una volta per tutte! Amen!

dom Tonino +


Qui sotto il video integrale della predicazione








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