Sul Vox clara ecce intonat: "quell’avverbio (gratis) risplende come una perla lucente, che si impone proprio perché sta lì, discreta, quasi invisibile, impercettibile, ma che alla fine si impone per la sua bellezza: Dio ci salva liberamente e gratuitamente! Ed anche se nella strofa il dono della redenzione va chiesto con le suppliche e le lacrime, queste non sono la condizione della salvezza, ma al massimo la sua conseguenza. ". Sono le parole tratte dall'omelia dell'Abate dom Antonio Perrella per la III domenica del Tempo d'Avvento alla Christiana Fraternitas.
Sabato 10 dicembre 2022, II domenica d'Avvento, presso la Cappella monastica ecumenica "Santi Benedetto e Scolastica", si è tenuta la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum". Ogni settimana d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sugli Inni della liturgia delle ore propri di questo tempo forte. Il secondo Inno, oggetto della condivisione, è stato Vox clara ecce intonat.
Testo integrale della I predicazione sul Vox clara ecce intonat
del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella
Carissimi Fratelli e Sorelle,
non appena si ha tra le mani il testo dell’Inno delle Lodi mattutine del tempo di Avvento, immediatamente balza alla memoria un altro testo. Sembra come quando si vivono i cosiddetti deja-vu. Stai in un luogo, stai facendo o dicendo qualcosa e, all’improvviso, ti assale la strana ed inspiegabile sensazione di aver già vissuto quel momento.
E nel nostro caso si tratta esattamente di questo. Chi di noi, non ricorda infatti l’Inno in uso nel “Settenario in Natale” (ai più conosciuto come novena) En clara vox redarguit, che nell’incipit ed, in alcune strofe, mostra una parentela strettissima con l’inno Vox clara ecce intonat, oggetto della nostra nuova meditazione.
Col nostro solito cipiglio di storici, di ricercatori, immediatamente ci domandiamo: tra questi sosia quale Inno è stato composto prima? Qual è la versione più antica? Temo di dover deludere nel dire che un tale approccio equivarrebbe a domandarsi se è nato prima l’uovo o la gallina.
A mia conoscenza, solo uno studio del 1907, in lingua tedesca, ha provato ad affermare che En clara vox redarguit debba essere il più antico. L’autore si spinge persino ad attribuirlo allo stesso Ambrogio di Milano [B. von Bebber, in Theologische Quartalschrift 3 (1907) 373-384]. Se questa ipotesi fosse vera, allora l’inno attualmente in uso nelle Lodi mattutine sarebbe un rifacimento, databile attorno al X secolo, di En clara vox.
Il nostro Inno – Vox clara – è attestato – come manoscritto più antico ed insieme agli altri Inni di Avvento – nel manoscritto anglico dell’Innario del Codex Vaticanum Reginensis 388.
Dobbiamo ricordare che quando ci si trova dinanzi a due testi simili e si cerca di comprendere quale sia il testo più antico, esistono delle regole precise, offerte da quella scienza chiamata critica testuale. Una di queste regole afferma che: è più facile che un testo più antico sia “allungato”, aggiungendo espressioni e spiegazioni, piuttosto che ridotto.
In tal senso notiamo che Vox clara è più breve di En clara vox, che aggiunge due strofe di evidente tema mariologico. Le immagini usate in queste due strofe aggiuntive (castae parentis viscera, domus pudici pectoris) fanno pensare certamente ad Ambrogio, ma questo inserto mariologico è troppo esteso e troppo difforme dal tema cristocentrismo degli Inni di Avvento per poterlo davvero ritenere più arcaico. Sembra, invece, un testo più tardivo in cui si sono aggiunte espressioni di devozione mariana, che rimandano più al tardo medioevo che non al primo.
Dirimere la questione è tutt’altro che semplice. Allora quale testo analizziamo? Potremmo gettare a sorte? Facciamo un tocco? O, forse, è meglio rimanere fedeli alla più squisita tradizione della critica testuale la quale afferma che la lectio brevior è da preferirsi?
D’altra parte se la Liturgia delle Ore, comune sia al rito latino sia quello delle più grandi famiglie monastiche, ha espunto dal Breviario En clara vox redarguit ed ha lasciato invece il Vox clara ecce intonat, un motivo dovrà pur esserci…
Ormai convinti su quale Inno decidere di meditare possiamo passare alla lettura in italiano:
Testo latino
Vox clara ecce intonat, obscura quaeque increpat: procul fugentur somnia; ab aethere Christus promicat.
Mens iam resurgat torpida quae sorde exstat saucia; sidus refulget iam novum, ut tollat omne noxium. E sursum Agnus mittitur laxare gratis debitum; omnes pro indulgentia vocem demus cum lacrimis,
Secundo ut cum fulserit
mundumque horror cinxerit,
non pro reatu puniat,
sed nos pius tunc protegat.
Summo Parenti gloria
Natoque sit victoria,
et Flamini laus debita
per saeculorum saecula. Amen.
Traduzione liturgica
Chiara una voce dal cielo
si diffonde nella notte:
fuggano i sogni e le angosce,
splende la luce di Cristo.
Si desti il cuore dal sonno,
non più turbato dal male;
un astro nuovo rifulge,
fra le tenebre del mondo.
Ecco l’Agnello di Dio,
prezzo del nostro riscatto:
con fede viva imploriamo
il suo perdono e la pace.
Quando alla fine dei tempi
Cristo verrà nella gloria,
dal suo tremendo giudizio
ci salvi la grazia divina.
Sia lode a Cristo Signore,
al Padre e al Santo Spirito,
com’era nel principio,
ora e nei secoli eterni. Amen.
Traduzione personale
Ecco una voce chiara risuona,
rimprovera tutto ciò che è oscuro;
i sogni fuggano lontano,
dal cielo Cristo viene alla luce [sorge]. La mente risorga dal sonno, [essa] che è ferità dal male; ormai una stella nuova risplende,
per prendere su di sè ogni colpa. Dall’Alto l’Agnello è stato inviato/ a estinguere
gratuitamente [per noi] il debito del nostro riscatto; tutti diamo voce con lacrime
alla richiesta di misericordia. Così che quando nella seconda venuta
risplenderà e il terrore cingerà il mondo,
non ci punisca per la colpa,
ma benigno allora ci protegga. A Dio eterno Padre sia gloria, e al Figlio la vittoria, e alla Fiamma (d’amore) la dovuta lode,
per i secoli dei secoli. Amen.
La semplice lettura della traduzione letterale dell’Inno probabilmente fa comprendere le mie titubanze ad accogliere una datazione molto antica, come quella proposta da alcuni, che vorrebbero collocare la composizione dell’Inno intorno al V sec. Gli accenti sono marcatamente apocalittici. Anzi, possiamo dire che l’apocalittica ha preso il sopravvento sulla escatologia. Mi spiego: l’escatologia è il discorso sul Regno di Dio, nel quale entra anche la questione del giudizio, inteso come evento veritativo sull’uomamintà e sulla storia. L’apocalittica è il genere letterario con cui si esprime il capovolgimento della realtà nell’ultimo giorno. Essa, però, verso la fine del primo millennio, ha assunto toni piuttosto foschi, esasperando quasi i temi del giudizio, del castigo, dell’ira di Dio e le figure delle guerre, dei segni nel cielo e sulla terra. Nel nostro Inno, nel quale ovviamente c’è una tensione escatologica, giacché si tratta di un Inno per l’Avvento, tuttavia, questi tratti dell’apocalittica hanno preso il sopravvento sui temi più squisitamente teologici dell’escatologia.
Le tematiche del debito, del prezzo, del riscatto e le figure “terrificanti” del giudizio fanno pensare ad un contesto teologico e spirituale tardivo, come appunto il IX-X secolo.
Uno studio più approfondito – che mi riservo di fare – sui manoscritti dei Breviari in cui quest’Inno fa le sue prime apparizioni potrebbero aiutarci a dirimere la questione. Semplicemente consultando la grande opera del Dreves, Analecta Hymnologica, edita a cavallo tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900, sembra indicare come fonti primarie solo manoscritti tra il IX ed il X secolo.
Entriamo, ora, nella proposta teologica e spirituale del testo, che comunque – spero di trasmettervelo - rimane davvero interessante.
Le prime parole – “ecco, una voce chiara risuona” – hanno fatto pensare ad alcuni commentatori, che si facesse riferimento alla voce del Battista, di cui è detto nei Vangeli, che egli è vox clamantis in deserto. Alcune recenti traduzioni inglesi, infatti, hanno espressamente tradotto: Chiara risuona la voce del Precursore.
Questa attribuzione ed interpretazione è errata ed infondata. La voce, che qui risuona e che rimprovera il male e disperde le tenebre, è la voce di Cristo stesso. Ancora una volta un Inno di Avvento ci mette dinanzi alla figura di Gesù, al cristocentrismo assoluto di questo tempo liturgico forte. Cristo è il centro dell’Avvento, perché è il centro della storia: è l’alfa e l’omega, il principio e la fine (Ap 21,6); lui e solo lui è ieri, oggi e sempre (Eb 13,8).
Solo accogliendo la centralità di Cristo, si può dare un senso alla storia e si può comprendere – alla luce della sua sapienza – il senso delle vicende umane, che altrimenti rimangono insensate ed inesplicabili.
Due sono le immagini cristologiche con cui quest’Inno ci parla di Gesù: l’immagine della luce/stella e quella dell’Agnello, che vengono fuse ed accavallate in modo interessante.
Nella prima strofa si dice che dal Cielo Cristo sorge. C’è un’allusione (lontana, ma pur presente) al sole che sorge, secondo l’immagine del sole che esce dal talamo nuziale, di cui abbiamo già detto nella prima omelia di questo tempo Avvento.
Il tema della luce, poi, si concentra sull’immagine della stella. Il richiamo alle profezie veterotestamentarie (la stella di Davide) ed al racconto neotestamentario dei magi, nella redazione matteana, è evidente. Quello che, invece, stupisce è il fatto che l’Inno leghi all’immagine della stella la funzione di prendere su di sé ogni colpa, che invece è azione propria dell’Agnello, che fa pure la sua comparsa nella strofa successiva.
Come può spiegarsi questo accavallamento di immagini? Può bastare la necessità di creare un legame tematico tra la seconda strofa (quella della stella) e la terza (quella dell’Agnello)? A me sembra proprio di no. Il genere letterario proprio di un Inno non richiede necessariamente una logicità discorsiva, come è richiesto invece alla prosa. Un Inno è un’espressione poetica e, pertanto, simbolica. Come tale, può procedere serenamente in modo sincopato, senza cercare connessioni.
Occorre, forse, cercare la soluzione in qualche altra motivazione, che a me sembra essere interna alla strofa stessa.
Se rileggiamo il testo della seconda strofa, ci accorgiamo che essa inizia con mens. La maggior parte delle traduzioni rende mens con cuore. Nella mia proposta di traduzione, utile allo scopo della nostra riflessione, ho invece voluto lasciare la parola mente, perché rimanda al psychédel greco. In questa parola, infatti, è racchiuso sia l’elemento intellettuale dell’uomo (mens) sia quello spirituale (anima). Possiamo dire allora che: la mente umana è annebbiata dal sonno, perché l’anima è ferita dal peccato e sappiamo che il peccato unico, per il Nuovo Testamento, è il rifiuto di Cristo. L’uomo non comprende, perché non crede. L’intelletto umano non accede alla sapienza, perché la sua anima è peccatrice, nel senso che ha rifiutato la luce sapiente di Cristo. La stella nuova, ormai sorta, prende su di sé ogni colpa, perché in Cristo, Verbo fatto carne, uomo e Dio ormai si conoscono dall’interno, reciprocamente: l’uomo non è un mistero per Dio e Dio non è più un mistero per l’uomo. Si specchiano l’uno nell’altro, comprendendosi in modo nuovo, in una relazione d’amore. Dio guarda l’uomo e vede la sua splendida immagine; l’uomo guarda Dio e comprende l’ineffabile mistero di se stesso.
Il male, che la stella prende su di sé e toglie dall’uomo, è il peccato della non conoscenza.
Ogni azione malvagia e peccaminosa (in senso morale, questa volta) dell’uomo deriva da una non conoscenza. L’uomo pecca, sbaglia, perché non si pone domande, perché non ricerca il senso della sua vita e delle sue azioni, e perché soprattutto non lo cerca in Dio. Diciamocelo onestamente: oggi, chi si domanda se una cosa sia giusta o sbagliata? Al massimo, oggi, le persone – e neppure noi siamo esenti da questo rischio – ci domandiamo se una cosa possa tornarci utile o meno. L’etico non interessa più; ciò che attira le brame dell’uomo è l’utile, il proprio profitto. Viviamo, così, in modo incosciente, senza consapevolezza e senza ragione. Oggi, gran parte delle reazioni umane sono illogiche, irrazionali, istintive. Siamo ridotti ad un fascio vorticoso di sentimenti e sensazioni, in libero stato confusionale: siamo canne sbattute al vento. Questa immagine non la traggo dal Nuovo testamento, dove -abbiamo ascoltato- è posta sulla bocca di Gesù nei riguardi del Battista. Lì Gesù la usa in forma interrogativa retorica, proprio per dire che Giovanni non è una canna sbattuta al vento, ma un albero forte e fermo, che sa resistere ai colpi delle vicende umane. Canne al vento è un immortale romanzo di Grazia Deledda (Nobel per la letteratura del 1926) in cui l’autrice parla del disastro a cui la famiglia Pintor va incontro per le passioni violente del padre, accecato dalla sua visione del mondo e della vita. Le sue reazioni non sono mai ragionate, quasi sempre posseduto dagli spettri delle sue convinzioni, a cui tutto deve sottostare. E, quando la figlia minore, Lia, le mette in discussione e fugge di casa, don Zame – accecato – la insegue, trovando la morte, che porterà la casa alla miseria e alla rovina. Le sue reazioni, permanentemente scomposte e dettate non da logica riflessione, ma da impeti di passione, saranno la ragione della rovina sua e della sua famiglia.
La seconda strofa del nostro Inno sembra dirci: fermati, uomo! Fermati, donna! Ripensa a chi sei, ritrova l’ubi consistam della tua esistenza, così ritroverai la via del giusto e la via del bene.
La terza strofa è dedicata alla figura dell’Agnello. Di lui si dice che è venuto a pagare il debito del nostro riscatto (cf 1Pt 1,18-21), ma lo ha fatto gratuitamente per noi. Dalla pienezza e dalla gratuità di questo dono nasce un invito a dare voce alle suppliche e alle lacrime per implorare la sua misericordia. Sebbene gli accenti dell’Inno siano, come abbiamo detto, fortemente apocalittici e sottolineino molto il tema del giudizio, in questo verso si lascia traccia di una verità fondamentale e irrinunciabile della rivelazione cristiana: il dono della salvezza è gratuito! Persino il testo più intriso di teologia del merito e dai toni e dagli accenti più forti, che parla della redenzione come di qualcosa da conquistare, non può resistere al fatto granitico ed insuperabile della rivelazione, e cioè che il dono di Dio supera il merito dell’uomo e che Dio ci ha salvati per un puro atto della sua liberalità del suo amore. Non vi nascondo che mi ha molto colpito questo piccolo particolare del testo. Nelle traduzioni – anche in quella italiana che solitamente usiamo nella preghiera recitata della liturgia delle ore – quell’avverbio gratis non viene tradotto. Quando, però, si prende in mano il testo latino, quell’avverbio risplende come una perla lucente, che si impone proprio perché sta lì, discreta, quasi invisibile, impercettibile, ma che alla fine si impone per la sua bellezza: Dio ci salva liberamente e gratuitamente! Ed anche se nella strofa il dono della redenzione va chiesto con le suppliche e le lacrime, queste non sono la condizione della salvezza, ma al massimo la sua conseguenza. Supplichiamo di ricevere un dono, sapendo che, in realtà, esso ci è già stato fatto; Dio ha preceduto le nostre suppliche e questo non può non farci commuovere.
Verrebbe, però, da chiedersi: ed allora che senso ha supplicare per la nostra salvezza, se essa ci è già stata data? Il motivo è semplice e si desume dal contesto e, soprattutto, da quanto aveva affermato la seconda strofa: noi supplichiamo per il dono della salvezza, non per riceverla, ma perché ce ne rendiamo conto! Quanta miseria c’è nella vita umana, quando non ci rendiamo conto di essere stati redenti! Spesso sottovalutiamo la nostra vita; ci lasciamo schiacciare dalle difficoltà, dalle sofferenze, dalle povertà, dalle ingiustizie, perché non pensiamo a sufficienza alla grandezza che Dio ha generosamente elargito alla nostra esistenza: siamo un popolo di redenti, siamo stati salvati e graziati, siamo stati unti dall’olio della sua predilezione e redenzione! Imploriamo con suppliche e lacrime di renderci conto della meravigliosa ed immensa dignità che ci è stata data. «Sollevate il vostro sguardo, alzate il vostro capo» (Lc 21,20), risollevate la vostra vita, perché essa è degna, benedetta, redenta ed amata da Dio. Quel piccolo avverbio, addirittura tralasciato nella traduzione italiana, smuove tutto questo.
Solo così possiamo comprendere il senso della quarta strofa: quando il Signore tornerà, per il giudizio, mentre il mondo sarà circondato dal terrore, noi confideremo nella sua protezione. Le immagini, anche qui, risentono del contesto culturale e teologico dell’epoca in cui presumibilmente è stato composto l’Inno. Tuttavia, in una lettura complessiva, anche questa strofa ci dice che la serenità del cuore dell’umanità, nell’andare incontro al giudizio di Dio, risiede nella consapevolezza del suo amore e della gratuità del suo dono.
Al termine di questa analisi delle strofe dell’Inno Vox clara intonat, chiediamoci cosa esso può dire alla nostra vita? A me sembra che dalla lirica orante del testo sorga per noi un invito alla consapevolezza, alla coscienza e conoscenza della nostra vera dignità, non quella costruita nella società – sempre vittima del giudizio altrui e delle logiche irrazionali del consenso sociale – ma quella che ci è stata gratuitamente donata da Dio e che risiede in noi stessi.
Con le parole del nostro compagno di viaggio che ormai sappiamo essere il Sal 139, 13-14 possiamo concludere:
Signore, sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre. Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo.
Conservami, te ne supplico, in questa consapevolezza. Amen.
dom Tonino +
Qualche scatto.
Qui sotto il video integrale della predicazione
I prossimi appuntamenti
PAX
UT UNUM SINT
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