Sul Christe, Redemptor omnium: "Quell'ineffabiliter ci ricorda che esiste una linea demarcatoria, dianzi alla quale è necessario fermarsi per godere della contemplazione". Sono le parole tratte dall'omelia dell'Abate dom Antonio Perrella che hanno aperto le predicazioni del Tempo d'Avvento alla Christiana Fraternitas sugli inni della liturgia delle ore di Avvento e Natale.
Sabato 16 dicembre 2023, presso la Cappella monastica ecumenica "Santi Benedetto e Scolastica", con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum" si è aperta la II domenica di Avvento. Ogni settimana d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sugli Inni della liturgia delle ore propri di questo tempo forte. Il primo Inno, oggetto della condivisione, è stato Christe, Redemptor omnium.
Testo integrale della I predicazione sul Christe, Redemptor omnium
del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella
Cari fratelli e sorelle, Cari Amici ed Amiche,
questa sera ci accostiamo all’Inno dei Primi Vespri del Natale. Abbiamo concluso, infatti, l’analisi degli Inni del Tempo di Avvento, che ci ha visto impegnati per ben due cicli di Avvento, quello dello scorso anno e metà di questo.
Ora dobbiamo entrare in quel meraviglioso santuario, che è la preghiera della Chiesa, perché nelle parole e nell’afflato con cui essa canta il mistero santo del Natale del suo Signore possiamo ritrovare il vero senso delle festività che ci apprestiamo a celebrare.
Se è vero, infatti, che lex supplicandi statuat legem credendi, cioè che è la norma della preghiera a stabilire la norma del credere, allora è anche vero che la preghiera della Chiesa, quella forma superlativa di preghiera ecclesiale, che è l’Officiatura divina, ci permette di innalzare a Dio il cantico della lode amorosa ma anche di entrare in un cammino lungo tutta la storia della Chiesa che attraverso quel modo di pregare ha sviluppato un patrimonio di fede e di amore manifestato dalle parole e dalla musica che sostiene quelle parole.
Per comprendere fino in fondo la portata dell’Inno dei primi vespri del Natale, dobbiamo riallacciarci anzitutto a ciò che avviene la settimana precedente, quella conosciuta con il nome di ferie maggiori di Avvento. La settimana che va precisamente dal 17 al 23 dicembre caratterizzata dal canto delle antifone maggiori o antifone “O” per il loro incipit. Sappiamo bene che le iniziali quelle antifone, rilette al contrario, danno vita alla frase ero cras – sarò domani o, meglio, verrò domani: mentre invochiamo il Signore Gesù con i titoli messianici della Scrittura (Sapienza, Signore, Radice di Jesse, Chiave di Davide, Astro, Re delle genti, Emmanuele) e gli chiediamo di venire – marana tha – egli ci risponde: verrò domani. Il 24 sera poi – entrati con i primi vespri nella celebrazione liturgica del giorno della nascita del Salvatore – la prima parola che la Chiesa pronuncia con l’inno - oggetto della nostra indagine - è: Christe! O Cristo!
La Chiesa lo ha invocato, lo ha atteso, egli è venuto; essa lo ha davanti a sé, dinanzi ai suoi occhi e lo chiama: o Cristo, Redentore di tutti!
L’impatto emotivo e simbolico è potente! Nato il Cristo, egli e rimane presente dinanzi alla sua Chiesa, nella sua Chiesa, con la sua Chiesa. Sembra quasi che quest’inno voglia trasmettere, nella lingua della preghiera cantata, la certezza di un rapporto permanente, di una relazione stabile tra il Signore e al sua Chiesa. Forse per questo suo significato e motivo intrinseci è stato difeso a spada tratta contro le modifiche volute da papa Urbano VIII nella sua riforma del breviario romano. Infatti gli ordini religiosi che avevano inserito questo inno nel loro ufficio divino si rifiutarono categoricamente di sottoporlo a qualsivoglia modifica ed è giunto fino a noi non nella versione papale ma in quella degli ordini religiosi.
L’inno non presenta particolari difficoltà interpretative. Il suo testo è lineare ed il contenuto teologico semplice. Vi si riconoscono reminiscenze bibliche e patristiche, ma senza particolari voli teologici. Tolta l’ultima strofa, quella della conclusione dossologica, l’inno si compone di sei strofe che appaiono strutturate in modo abbastanza semplice: le prime tre, di contenuto cristologico, cantano e al tempo stesso illustrano non tanto il mistero dell’incarnazione, quanto la grandezza dell’Incarnato, di Colui cioè che ha assunto la nostra forma umana; le altre tre strofe sembrano rimarcare le conseguenze, il frutto dell’incarnazione con un contenuto antropologico e cosmologico. Dall’evento alle sue conseguenze: lo schema dell’inno sembra illustrarci questa teologia abbastanza piana e lineare… Tuttavia, ad una riflessione più attenta noi possiamo individuare, proprio in questa struttura lineare, un riferimento interessante. Nel cosiddetto basso medioevo e, più precisamente, tra l’XI ed il XII secolo si sviluppò nella Chiesa, a partire dalle riflessioni di Pietro Lombardo, un’ampia discussione sui sacramenti, sulla loro forma, materia e i loro effetti. Questa teologia, di tipo scolastico, cercava di indagare sui segni sacramentali e su ciò che essi producevano nella vita di fede e di grazia dei credenti. Al di là di certi eccessi, su cui sarebbe interessante rileggere le pagine satiriche dell’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, quel periodo fece sì che nella Chiesa si approfondisse il fatto che la grazia salvifica di Dio ci raggiunge attraverso segni sensibili. In fondo, anche il nostro inno risente di quella impostazione di pensiero: l’evento, l’incarnazione (il sacramento) nelle prime tre strofe; il suo effetto nelle seconde tre. In questo modo l’inno ci ricorda che per noi l’evento del Natale, l’evento della Incarnazione del Figlio di Dio si compie e si realizza nel nostro oggi attraverso la celebrazione liturgica. Non esiste il Natale senza la sua celebrazione liturgica. In questo mondo che ‘festeggia’ il Natale senza ‘celebrarlo’, riducendolo così ad un mieloso quanto vuoto periodo di luci, musiche, regali e cene, il Natale è ridotto ad una festa senza contenuto ed ha smesso di essere una celebrazione che tocca la vita e la trasforma.
La struttura dell’Inno ci ricorda che il Natale ha un effetto concreto sulla nostra esistenza se da ‘festa’ torniamo a farlo essere ‘celebrazione’.
Testo latino
Christe, Redemptor omnium,
ex Patre, Patris unice,
solus ante principium
natus ineffabiliter.
Tu lumen, tu splendor Patris
tu spes perennis omnium,
intende quas fundunt preces
tui per orbem servuli.
Salutis auctor, recole
quod nostri quondam corporis,
ex illibata Virgine
nascendo, formam sumpseris.
Traduzione letterale
Cristo, redentore di tutti,
nato dal Padre, suo Unigenito,
il solo prima dell’inizio
nato ineffabilmente.
Tu luce, tu splendore del Padre,
tu perenne speranza di tutti,
ascolta le preghiere che ti rivolgono
i tuoi servi sulla terra.
Ricordati, autore della salvezza,
che un tempo del nostro corpo,
dalla Vergine intatta,
hai assunto la forma
Entriamo, ora, nel contenuto delle strofe; ed anche questa volta dobbiamo utilizzare una traduzione nostra e non quella ufficiale che -anche questa volta- risulta essere davvero impoverente.
La prima strofa parla della generazione ab aeterno del Figlio di Dio. Nasce nella storia, nel tempo, nella carne, Colui che è stato generato dal Padre prima della creazione del mondo. Il gioco delle parole ha una sua bellezza: ex Patre, Patris unice: nato dal Padre, del Padre sei l’unico, l’Unigenito. Ciò su cui però vorrei attirare l’attenzione è l’avverbio ineffabiliter. La generazione dall’eterno del Figlio avviene ineffabilmente. “Ineffabile” non è soltanto ciò che è irraggiungibile all’intelletto umano, ma anche ciò che lo attira come il sempre oltre… Fratelli e sorelle, ci troviamo nella zona, nell’area della contemplazione. Il mistero di Dio va indagato, studiato, ma va anche e soprattutto contemplato. In un tempo – quello della scolastica – che indagava e scomponeva, analizzava e suddivideva in categorie, quest’inno ricorda che, quando ci si accosta a Dio, ogni domanda e indagine razionale va bene, ma a patto che sia intrisa di contemplazione! È il roveto ardente per accostarsi al quale è necessario togliersi i calzari dai piedi (cf Es 3,5)! È il sussurro della brezza leggera (cf 1Re 19, 12) dinanzi al quale occorre prostrarsi con la faccia a terra. A me sembra che questa prima strofa dell’inno abbia molto da dire al nostro mondo. Noi viviamo in una cultura ipertecnologica ed empirista. Tutto va studiato scientificamente ed empiricamente verificato. Ciò che non può essere studiato così, viene semplicemente scartato apriori. Guardiamo all’uomo e alla donna e cosa vediamo? Un insieme armonicamente organizzato di cellule, tessuti, organi… e la meraviglia di quella precisa quanto fragile armonia è stata cancellata dai nostri interessi. Guardiamo al mondo, alla terra, all’acqua, all’aria e vediamo uno scenario da sfruttare per produrre e guadagnare. E la sua bellezza mozzafiato dinanzi alla quale dovremmo arrestare le nostre corse violentatrici e sfruttatrici dov’è finita? Anche questa è cancellata dai nostri interessi. Abbiamo eliminato il mistero delle cose, la loro zona sacra e tutto violentiamo con la nostra brama di potere e possedere. Quell’ineffabiliter ci ricorda che esiste una linea demarcatoria, dinanzi alla quale è necessario fermarsi per godere della contemplazione, senza voler a tutti i costi protendere mani rapaci verso ciò che contempliamo. Il tema della ineffabilità di Dio è caro alla patristica e conosce pagine intese sia in Ireneo come in Agostino .
La seconda e la terza strofa, pur continuando nell’intento di esprimere la meraviglia dinanzi alla Persona divina che si incarna, uniscono cenni di supplica e lo fanno con evidente eco biblica. L’Unigenito, nato dal Padre prima della creazione del mondo, è anche lo splendore del Padre, ovvero la luce inaccessibile del Padre che si rende visibile. Anche in questa espressione possiamo trovare una traccia del pensiero di Ireneo di Lione, il quale dice: «l’invisibile del Figlio è il Padre, ma il visibile del Padre è il Figlio» (Adversus haereses IV,6,6). A questo Figlio si chiede: intende, ascolta, tendi l’orecchio. È la preghiera che infinite volte il popolo di Israele rivolge a Dio: tendi il tuo orecchio alla mia supplica (Sal 85). E quest’accento biblico della preghiera ritorna e si intensifica nella terza strofa: ricorda che un tempo hai assunto la nostra forma mortale, il nostro corpo umano. Anche questo tipo di preghiera risuona molte volte sulle labbra dell’orante della bibbia, il quale chiede a Dio di ricordare le meraviglie che ha compiuto in favore del suo popolo e – ricordando – di continuare a compierne ancora.
In queste prime tre strofe, quindi, si intersecano i temi della ineffabilità di Dio e della sua trascendenza, ma anche quello della sua prossimità, della sua vicinanza proprio in ragione del mistero della incarnazione del Figlio. Dio è infinitamente distante, per la sua alterità rispetto all’uomo, ma si è fatto altrettanto infinitamente vicino in forza della sua incarnazione.
E qui termina il contenuto cristologico dell’inno, attraverso il quale si contempla l’evento e si inizia a illustrare l’effetto dell’evento.
Testo latino
Hic praesens testatur dies,
currens per anni circulum,
quod a solus sede Patris
mundi salus adveneris.
Hunc caelum, terra, hunc mare,
hunc omne quod in eis est,
auctorem adventus tui
laudat exsultans cantico.
Nos quoque, qui sancto tuo
redempti sumus sanguine,
ob diem natalis tui
hymnum novum concinimus.
Traduzione letterale
Questo giorno presente attesta,
ripresentandosi nel corso dell’anno,
che tu solo dalla sede del Padre
sei venuto quale salvezza del mondo.
Il cielo la terra e il mare,
e tutto ciò che è in essi
l'Autore della tua venuta
glorificano esultanti con il cantico.
Noi pure, che dal tuo santo
sangue siamo stati redenti,
per il giorno della tua nascita
cantiamo un inno nuovo.
Questo giorno celebrativo del Natale, nel suo ciclico ritorno, ricorda alla Chiesa in preghiera che solo il Figlio di Dio ha lasciato la sede del Padre, la gloria del cielo ed è disceso per la salvezza del mondo. Dinanzi a tale fatto sconvolgente il cosmo intero dà vita ad un nuovo cantico di lode. È interessante notare che l’inno non elenca anzitutto la lode dell’uomo, ma quella del creato: il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi. Questa frase è una citazione del Sal 146,6, ed è l’incipit della preghiera di Pietro in At 4,24. Utilizzando questa frase sembra che il nostro inno voglia collegare la preghiera della Chiesa a quella di Israele e degli apostoli. Dicevamo, però, che l’inno afferma che la lode si innalza prima dal cosmo e poi dall’uomo, o forse, e meglio, prima dal cosmo e poi dall’uomo nel cosmo. L’umanità, per quanto sia fatta ad immagine e somiglianza di Dio, non può pensare se stessa come fuori o sopra il resto delle opere di Dio. Solo nell’armonia con il creato e nell’unità della voce di lode del cosmo e dell’uomo, egli trova il senso di se stesso, perché il Verbo fatto uomo è entrato nella creazione, il Creatore è diventato creatura.
Attraverso le ultime due strofe l’Inno ci attesta che dall’incarnazione del Figlio di Dio irrompe nella creazione una novità: cieli nuovi e terra nuova, uomo nuovo. Il Natale è l’inaugurazione della novità del Regno che è già iniziato nella storia dell’umanità e che attende di giungere al suo compimento.
La celebrazione dell’ottava di Natale, da questo punto di vista, nella sua tipicità liturgica, ci insegna qualcosa di interessante. Voi sapete che l’ottava di Pasqua non permette che si celebri alcuna festa in essa se non quella della risurrezione. Se dovesse cadere nell’ottava di Pasqua la memoria o la festa di un qualsiasi santo o santa, essa sarebbe certamente spostata o addirittura annullata. Nell’ottava di Natale della liturgia romana, invece, accade l’esatto contrario: in essa si celebrano le meraviglie che Dio ha compiuto nel diacono Stefano, nell’apostolo ed evangelista Giovanni, negli Innocenti martiri, nella famiglia di Nazareth, Tommaso Becket, in Maria Madre di Gesù. Dopo la celebrazione del Natale sembra quasi che vengano concentrate le celebrazioni di una umanità nuova: bambini e adulti, uomini e donne, ministri e laici. Tutte le categorie di persone sono rappresentate come a dire che dalla assoluta novità di un Dio che si fa carne, nasce l’altrettanto la novità di una carne umana che viene divinizzata.
Cari fratelli e sorelle, cari amici ed amiche, quest’inno – che all’inizio della nostra riflessione abbiamo definito lineare e piano – contiene comunque una luce meravigliosa sulla speranza cristiana. Essa è l’accoglimento gioioso ed estatico della irruzione di Dio nella storia e della novità inaudita che essa porta, rinnovando l’umanità ed il cosmo intero. Contemplando il volto di Dio, che si fa bimbo, noi veniamo confermati nella speranza certa che ovunque ci sia un volto umano lì si possa intravedere il volto di Dio, a patto che si custodisca un umile sguardo di contemplazione e di accoglimento. La speranza cristiana, cioè, è la virtù più concreta che esista perché ci insegna la positività del limite, la pedagogia della capacità di arrestare le brame dell’uso e del possesso, per aprirsi alla gioia del dono e del riconoscimento della divina dignità del cielo, della terra, del mare e di tutto ciò che essi contengono, uomo e donna compresi. Sperare significa così scorgere la divina e luminosa bellezza che risplende in tutto ciò che esiste, perché solo scorgendo questa bellezza ci accorgiamo che l’universo intero può ancora germinare meraviglie. Amen
dom Tonino +
Qui sotto il video integrale della predicazione
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