Lunedì 11 ottobre alle ore 19.30, presso Villa Pantaleo in Taranto, la Comunità della Christiana Fraternitas si è stretta attorno al suo pastore dom Tonino nella Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per ringraziare il Signore del Ministero Abbaziale conferitogli tre anni or sono dal suo Ordinario.
"A me, voi testimoniate l’espressione vivente della sua folle fiducia in me! Al mondo, insieme, testimoniamo l’azzardo di un Dio che scommette su tutti e tutte noi come fa con ogni sua creatura. Perciò nutro verso di voi la gelosia divina, cioè quell’amore unico e indiviso, per cui voi siete la gemma del mio cuore e della mia vita, i beni della Casa del Signore che senza alcun merito sono chiamato ad amministrare." Alcune delle parole dell'Abate Perrella, nell'omelia.
Omelia del Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella
Le letture proclamate sono state:
Proverbi 2, 1-10; Salmo 1; I Lettera di Pietro Apostolo 5, 1-4; Luca 12, 35-44.
Carissimi Fratelli e Sorelle, Amiche ed Amici,
ancora una volta la bontà del Signore ci convoca per celebrare una ricorrenza annuale. Rispondere a questa convocazione non è un fatto scontato o abitudinario, né siamo qui a celebrare una persona e le tappe della sua vita. Siamo qui a celebrare la fedeltà del Signore! Il tempo che passa, gli anni che scorrono sono, infatti, la manifestazione dell’amore fedele di Dio, che ci concede di camminare insieme, che tiene salda la nostra fraternità e viva la nostra fede.
Quando prendiamo piena coscienza di questo fatto, la patina del tempo non si deposita sul nostro cuore, non offusca le righe sulle quali possiamo leggere le pagine inedite che l’Autore della vita, nel dono gratuito del suo amore, scrive per ciascuno di noi.
La Parola di Dio ci aiuta ad entrare nella grazia di questo tempo e ci indica anche il come starci, come abitarla. Abbiamo ascoltato nella prima lettura: se tendiamo l’orecchio alla sapienza, allora troveremo la scienza di Dio. Senza una visione sapienziale e di fede, il tempo si svuota e diviene senza senso; se, invece, cerchiamo la sua sapienza come il bene più prezioso, allora i nostri occhi si aprono e noi vediamo la meraviglia del tempo che passa ed il cammino prosegue spedito; sarà un cammino di gioia perché consapevole di questa grazia in cui si realizza.
Celebriamo la fedeltà dell’amore di Dio che ci sostiene nel cammino, che ci apre una strada dinanzi e ci cammina accanto, aiutandoci così a dare senso a tutto ciò che viviamo e, quindi, a viverlo in pienezza! Il tempo che scorre non è un flusso impetuoso di istanti che ci travolge e ci trascina, mentre noi stancamente ci lasciamo portare; esso è invece il dono che Dio ci dà da abitare e da vivere, con consapevolezza e coscienza, con libertà, responsabilità e altrettanto dono di noi stessi!
Il brano dell’Evangelo secondo Luca, che abbiamo ascoltato, è probabilmente il frutto di una scelta redazionale dell’evangelista, che ha ritenuto di unire insieme, in uno stesso discorso, alcuni detti (lóghia) pronunciati da Gesù in momenti diversi. Tuttavia, la ripetizione di alcuni termini (padrone, servo, venire, signore) dà al discorso una sua unità interna. Si tratta di tre parabole accostate: la prima è quella della servitù che vigila in attesa del padrone (vv. 35-37), la seconda è quella del padrone che vigila (v. 39) per essere pronto all’improvviso venire del ladro e la terza è quell’economo, dell’amministratore che non si impossessa dei beni del suo padrone, ma li amministra con saggezza (vv. 40-48).
Quest’ultima parabola è di particolare interesse, perché – se le prime due si rivolgevano a tutti e sollecitavano tutti alla vigilanza – l’ultima è riferita propriamente agli apostoli. Gesù, infatti, la pronuncia dopo la domanda di Pietro: la dici per noi o per tutti? Gli amministratori fedeli sono coloro che, nella comunità di Gesù, hanno ricevuto un peculiare mandato di vigilanza e sorveglianza sui beni del Signore, che non sono semplicemente cose, bensì i suoi fratelli e le sue sorelle. Nella casa del Signore, che è la Chiesa, tutti devono vigilare e compiere fedelmente il proprio servizio; tuttavia, coloro che sono chiamati a moderare la vita della Chiesa - in tutte le sue articolazioni - hanno una responsabilità in più, perché devono vigilare sul bene più prezioso che si trova nella casa del Signore: i suoi discepoli e discepole. Così anche l’apostolo Pietro ci ha ricordato nella seconda lettura: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio.
Alla luce di questa Parola donataci vorrei condividere due riflessioni, che sono sorte nel mio cuore, mentre mi preparavo a questa Celebrazione.
La prima riflessione riguarda propriamente me e la Christiana Fraternitas ed è questa: le nostre vite sono indissolubilmente congiunte, la vita di un Abate è intimamente legata alla vita dei suoi monaci e della comunità che li circonda, in un modo nuovo ed inedito. Se è vero che l’Abate ha, nella Comunità, il posto di Cristo (RB II), allora è altrettanto vero che la benedizione abbaziale ha trasformato il suo cuore e la sua stessa esistenza. Ognuno di noi cerca la realizzazione di se stesso e della propria vita; e fa bene, perché è volontà di Dio che ognuno trovi la sua felicità, che poi coincide con il piano di Dio su ciascuno di noi. Colui che fa le veci di Cristo, però, trova la sua felicità e la realizzazione di sé, solo nella misura in cui egli stesso è strumento e mezzo per la realizzazione autentica dei suoi fratelli e delle sue sorelle. La sua paternità, il suo servizio, le sue esortazioni ed anche correzioni, tutto lo sforzo che egli pone in atto affinché i suoi fratelli e sorelle restino fedeli e grati al Signore, per il dono della vocazione, tutto questo costituisce la strada della pienezza della sua vita. Se ognuno di voi si realizza cercando la propria felicità, io mi realizzo cercando la vostra, alla luce della chiamata di Dio su ciascuno di voi.
Oggi celebriamo Dio, che tre anni fa mi ha costituito Abate per la preghiera e l’imposizione delle mani del mio Vescovo Pierre Whalon. La consacrazione a questo ministero pastorale dilata il cuore dell’abate e lo consacra totalmente al servizio di Dio: lo pone cioè come amministratore dei beni di una porzione della sua casa. A voi, miei amatissimi monaci e monache, vorrei dire che in tutto questo tempo il mio cuore e la mia vita sono stati per voi. Voi, e quanti verranno ad unirsi a noi, siete e sarete sempre il dono più prezioso che il Signore potesse fare alla mia vita. A me, voi testimoniate l’espressione vivente della sua folle fiducia in me! Al mondo, insieme, testimoniamo l’azzardo di un Dio che scommette su tutti e tutte noi come fa con ogni sua creatura. Perciò nutro verso di voi la gelosia divina, cioè quell’amore unico e indiviso, per cui voi siete la gemma del mio cuore e della mia vita, i beni della Casa del Signore che senza alcun merito sono chiamato ad amministrare. Guardando con occhi di fede a ciò che Dio ha fatto nella mia vita, io sento di potervi confidare che in quella sera in cui il Vescovo mi consacrò al Ministero Abbaziale, e poneva l’anello al mio dito, ho celebrato le mie nozze con voi, con la nostra Comunità.
E di questo legame, che mi vince, che mi avvince, talvolta fino a “soffocarmi”, io sono grato a Dio, perché dà senso alla mia esistenza e felicità nel mio servizio in mezzo a voi.
La seconda riflessione, che riguarda tutti, nasce dal reiterato invito delle tre parabole a stare ciascuno al proprio posto.
Questa riflessione mi si è imposta per le circostanze famigliari in cui vivo questa Celebrazione. Voi sapete che l’ultimo mese è stato difficile per me e le persone più care della mia famiglia; nel caso di mia mamma, la situazione è stata critica e il rischio di perderla concreto. Quando è giunta all’ospedale e le hanno diagnosticato una polmonite bilaterale interstiziale conseguente all’infezione da CoVid, i messaggi che mi venivano inviati da chi se ne prendeva cura erano di questo tipo: “stiamo facendo tutto il possibile, ma preparatevi al peggio”. Oggi, grazie a Dio, le cose vanno meglio, ma loro sono ancora ricoverati e questa sera non possono essere qui. E se anche le notizie sono più tranquillizzanti, tuttavia, un mese di ansia e preoccupazione fa sentire comunque il suo peso. Non vi nascondo che avevo seriamente pensato di annullare questa Celebrazione. Tuttavia, proprio il Vangelo, che avevo già letto e meditato, con le sue parole mi rodeva dentro, mi bruciava il cuore: beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà così, al suo posto! Il mio posto è qui, nella mia Comunità, che è la famiglia di fede e di grazia, che il Signore ha donato alla mia vita ed alla quale – per l’inscindibile legame di cui ho detto prima – non posso, non devo, non voglio far mancare nulla. Nessun impegno personale, nessuna pur legittima preoccupazione famigliare poteva distogliermi dalla gioia di stare e condividere la mia vita con voi insieme a doni spirituali che il Signore ci fa. Al massimo, l’unico spazio che concedo a me stesso è quello di elevare il mio e nostro ringraziamento al Signore, per aver ancora una volta custodito la vita di mia mamma e mio fratello.
Scuserete questa nota autobiografica e vorrete prenderla solo come la pubblica testimonianza del mio rinnovato e incondizionato “eccomi” al Signore! Perché un anniversario ha senso, se suscita la rinnovazione gioiosa della propria totale dedicazione al servizio di Dio per la salute delle anime; altrimenti è vuota autocelebrazione. A me è dato di essere l’annunciatore ed il testimone della fiducia in Dio, qualsiasi cosa egli ci chieda, e della speranza che nasce dalla certezza che la nostra vita è tutta e sempre nelle sue mani.
Stare al nostro posto, abitare il tempo che viviamo, vivere la nostra vocazione: ecco il monito e l’invito di queste tre parabole raccolte dall’evangelista Luca. A nessuno di voi sfugge che questo impegno è arduo. Viviamo spesso nell’attesa di qualcosa che ha da venire e, a furia di attendere tempi migliori, ci dimentichiamo di vivere l’ora presente, di abitare il nostro oggi ed il nostro servizio nel mondo. La condizione attuale poi non ci aiuta: la pandemia, che ci ha privato di quella che noi chiamiamo la “normalità della vita”, ci ha messi nella costante ed estenuante attesa di tornare alle nostre “cose di sempre”. Ci sentiamo come sospesi in una mezza vita, in attesa che questa sospensione finisca. Se viviamo questo tempo così e, più in generale, se viviamo la nostra vita così, allora semplicemente non stiamo vivendo, ma stiamo trascinando la vita, anzi ci stiamo facendo trascinare dalla vita… abbandonando così il nostro posto, unico luogo dove abbiamo l’opportunità di gustare la bontà della grazia che ci è data da vivere!
Guardiamoci dentro con onestà: studiavamo e attendevamo le tappe successive ed il momento di trovare la nostra collocazione nel mondo; abbiamo trovato la nostra collocazione e gli impegni ci hanno travolto e aspettavamo che accadesse qualcosa che ci facesse sentire realizzati; il tempo andava avanti e questo qualcosa sembrava non arrivare. Qualcuno di noi magari attendeva di andare in pensione, per potersi dedicare finalmente a se stesso e ai suoi interessi, poi la pensione è arrivata e sembra sempre mancare qualcosa. Per quanti traguardi ci poniamo dinanzi e per quanti traguardi forse riusciamo a raggiungere, sembra sempre mancarci qualcosa…
Cosa vuol dire tutto questo? Cosa è questa ansia che ci portiamo dentro e che non ci fa gioire dell’oggi? Da un lato essa è l’eco di quello spazio escatologico che ci abita: nessuno di noi sarà veramente pieno se non in Dio. Ma questo è l’aspetto positivo di cui dovremmo essere coscienti, perché dia impulso alla nostra vita e vitalità. Ma l’amara verità è che spesso quest’ansia non la viviamo positivamente come il rimando, iscritto in noi, alla pienezza che è Dio. Quest’ansia lentamente ci erode e ci corrode e, mentre aspettiamo, diventiamo stanchi di aspettare e tutto sembra pesarci. Nel tempo in cui abbiamo velocizzato ogni cosa (dai trasporti alle comunicazioni) avremmo dovuto avere più tempo per noi ed invece il tempo sembra sempre mancarci ancora.
Perché?
Perché abbiamo disimparato ad abitare il nostro oggi, a stare al nostro posto!
Qual è il posto in cui Dio mi chiama e nel quale posso trovare la mia felicità? Un posto ipotetico, ideale, che sta sempre al di là delle mie possibilità e delle mie concrete realizzazioni? O piuttosto – sempre guardando con la sapienza di Dio – il mio posto è questo, qui ed ora, dove Dio mi ha messo in questo preciso istante della mia vita? Cosa stiamo aspettando? Cosa dovrebbe venire domani? Abbiamo già tutto a portata di mano. Il luogo ed il tempo della nostra felicità sono qui, adesso; sei tu, così come sei; è la tua vita, quella che stai vivendo, non quella che potresti vivere; è questo posto qui, non la casa che potresti avere; è la vocazione che hai già scoperto, non quella che potrebbe arrivarti. Qui ed ora! Abbiamo già tutto, se vogliamo vederlo… se vogliamo farci trovare ciascuno al proprio posto dalla felicità, da Dio.
Non si tratta del tanto bistrattato carpe diem, che è stato ridotto ad un misero goditi la vita finché puoi; quanto piuttosto di quell’antico proverbio romano che recita age quod agis, fai bene – con amore e rigore – quello che stai facendo, quello che devi fare oggi. E questo vale per tutti e per tutto, non solo per chi ha fatto una scelta di vita monastica.
Stare al proprio posto significa scavare dentro tutte le nostre capacità, talvolta neppure riconosciute da noi stessi, e apprezzarle e valorizzarle; stare al nostro posto significa dedicare tutta la nostra fantasia ed energia vitale alle persone con cui abbiamo intessuto relazioni o di amicizia o di collaborazione o affettive; significa non lesinare tempo e spazio per la propria attività professionale; significa prendersi a cuore la propria interiorità ed alimentarla; significa non disinteressarsi della vita comune e del bene di tutti; non delegare il pensiero e la programmazione politica della vita sociale (anche perché i diritti che abbiamo conquistato non sono certamente al sicuro, in questo occidente ed in questa Italia in cui ancora non sono garantite pari dignità ed opportunità a tutti e assistiamo a fatti discriminatori contro le persone per il loro genere o orientamento sessuale e contro le realtà religiose minoritarie); stare al proprio posto significa non turarsi gli orecchi dinanzi al disperato grido di sofferenza della natura; non chiudere gli occhi dinanzi alle necessità del fratello; significa non cercare la felicità in un altro posto o in un altro tempo, che non ho e potrei non avere mai, ma scorgere, apprezzare, valorizzare, vivere in pienezza questo tempo, questo luogo, queste relazioni, questa professione, questo cammino di fede che la Provvidenza mi ha donato.
Cari amici ed amiche, ovviamente la connessione fra queste due riflessioni, che ho condiviso con voi, è palese a tutti: posso amare e servire e vivere in pienezza il mio qui e ora, soltanto se mi sento ad esso profondamente legato, intimamente connesso. Nessuno può essere felice della propria vita, se si disconnette da se stesso e da ciò che gli è dato di vivere. E la connessione a noi stessi ed al mondo passa sempre dalla nostra connessione a Dio, che è fonte di ogni dono che abbiamo ricevuto.
Oggi, guardo me stesso e ringrazio Dio del dono che sono; guardo voi e lo lodo per il meraviglioso regalo che in voi mi ha fatto; guardo il mondo e ciò che in esso io ed io soltanto sono chiamato a fare ed il mio cuore trasale di letizia, perché è lo scenario meraviglioso della realizzazione mia e delle persone che si è degnato di affidarmi.
Oggi, guardo e mi fermo a guardare… e tutto è meraviglioso e splendente della luce e della gioia di una grazia, che mi è stata data, qui ed ora.
Cari fratelli e sorelle, amati amici ed amiche! Fermatevi a guardare con me, mirate voi stessi e tutti e tutto ciò che vi sta attorno… gioiamo insieme perché le misericordie del Signore non sono finite, non è esaurita la sua compassione; esse sono rinnovate ogni mattina, grande è la sua fedeltà (Lam 3,22-23); gioiamo insieme perché è beato l’uomo che si mette al servizio del Signore (cf Salmo responsoriale), nel suo qui e nel suo adesso, al suo posto. Amen
Gli auguri del Sindaco della Città di Taranto all'Abate Antonio
Al termine della Celebrazione, la dott.ssa Carmen Galluzzo Motolese, Consigliera Comunale con delega per i rapporti con le Confessioni religiose, a nome del Sindaco di Taranto, dott. Rinaldo Melucci, e l'intera Amministrazione è intervenuta per rivolgere gli auguri al nostro Abate.
Gli auguri della Comunità della Christiana Fraternitas in tutte le sue articolazioni posti dalla Consultrice del Capitolo Apostolico
la dott.ssa Beatrice Lucarella
Era l’ 11 ottobre 2018, quando Antonio sei stato ordinato Abate ed è ufficialmente nata la Christian Fraternitas.
Sono passati tre anni da allora ma a ma come credo a tutti noi sembra l’altro giorno.
Eravamo lì tutti emozionati, dopo un lungo cammino a volte tortuoso e spesso ostile, finalmente si celebrava la nascita della Christiana Fraternitas a Taranto.
Una giornata voluta, programmata, organizzata con tanto amore e dedizione per la nascita della comunità.
In quel giorno si consacrò il destino di Antonio, un futuro in cui le sue priorità personali mutavano in un cammino tracciato dalla volontà di Dio.
Non c'era più tempo per tentennare né per lasciare: era solo il tempo in cui si doveva procedere spediti alla mèta, intraprendere la strada che il Signore aveva tracciato per lui.
La Regola in cui Benedetto da Norcia invita a "non anteporre nulla all'amore di Cristo".
E così quel 11 ottobre 2018, dopo una cerimonia toccante e commuovente vedemmo negli occhi di Antonio la felicità, la felicità vera, quella che solo il Signore può donare.
La felicità di potersi donare all’amore di Dio e alla comunità sulla Terra.
La sua parola è ecumenica, inclusiva, pluralista, cattolica ed evangelica.
Antonio come lui stesso ha scritto in un suo post “per un misterioso disegno divino, Dio mi ha scelto, nonostante le mie fragilità e insufficienze, per cooperare con Lui ad un progetto che va spiegandosi giorno dopo giorno davanti ai miei occhi. Non dimenticare di pregare per me e per tutta la Comunità Monastica Ecumenica "Christiana Fraternitas".
Dio sceglie chi sa che potrà portare avanti il suo progetto divino, ognuno di noi ha un suo destino scritto dalle mani del Signore, e il tuo Antonio è quello di proseguire su questa strada che il Signore ti ha indicato e seppure a volte si incontrano molte difficoltà è il segno tangibile di un mettere alla prova la forza della fede, della volontà, della tenacia e della resilienza. Non è importante quante volte cadiamo ma quante volte ci rialziamo per proseguire il camminino.
“La fede è credere a ciò che non vediamo; e la ricompensa per questa fede è il vedere ciò che crediamo.” San Francesco .
E proprio perché tu vedi, ascolti, condividi e desideri creare qualcosa di bello e duraturo che non sei solo nel tuo cammino, la famiglia della Christiana Fraternitas dove vige e si vuole conservare l'armonia e non lasciare nessuno indietro le decisioni si prendono in maniera condivisa e consultata.
Il Capitolo, ovvero il collegio composto dai Monaci e che attraverso la consultazione provvedono alle direttive e alle esigenze dell'Ordine sono persone scelte e devote a percorrere la strada che il Signore ogni giorno indica.
Tu Abate, il Capitolo e tutta la Comunità che si stringe intorno a voi, siete l’emblema della tenacia, della forza di volontà, ma anche di fraternità, amore e dedizione alla missione che avete deciso di intraprendere.
La regola della comunità è l’amore, il bene dell’altro. Il bene è bene, sempre, per tutti. La dimensione comunitaria è una ricchezza le cose fatte insieme sono più belle, più ricche, più varie, più divertenti, più efficaci e coinvolgenti di qualunque altra cosa, anche di quella progettata dal più geniale degli Uomini.
La comunità ha bisogno di tutti, tutti sono importanti e in questa importanza riscopriamo la nostra bellezza, la nostra essenza umana e la nostra missione.
E tu caro Antonio, caro Abate Antonio sei come un Grande Chef. Perché si possano preparare piatti eccellenti, ci vogliono non solo gli ingredienti ma una brigata che sia condotta e diretta magistralmente perché la ricetta sia perfetta.
Diceva Aristotele che l’uomo è per natura destinato a vivere in comunità. Il senso di questo destino racchiude il tema della convivenza nelle comunità, l’anello di congiunzione tra sfera privata e collettiva, dove la forza dello stare insieme, del condividere, si scontra coi confini dell’individuo, della propria storia, di relazioni presenti e degli obiettivi futuri.
Tu caro Antonio, hai scelto nella tua vita di fare comunità, di coltivare una visione lungimirante nella quale capacità, motivazioni e personalità di ciascuno possano integrarsi, nella quale ciascun membro sappia anteporre il bene comune ai propri bisogni ma allo stesso tempo dove il gruppo sappia promuovere e valorizzare i bisogni di ciascuno.
Il senso di comunità che hai saputo infondere esprime il sentimento che ciascun membro possiede di appartenere al proprio gruppo, di essere importanti gli uni per gli altri e la fiducia che i bisogni di ognuno possano essere soddisfatti grazie al comune impegno.
Hai saputo e voluto donarti al prossimo e fare comunità anche se è un impegno gravoso ma sai che è necessario.
Per questo noi ti vogliamo bene, ti stimiamo e ti siamo vicini perché tu possa proseguire nel cammino che ti è stato indicato.
Beatrice Lucarella
Consultrice del Capitolo
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