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II settimana d'Avvento: la Chiesa in attesa di Colui che "verrà a giudicare i vivi e i morti".

Venerdì 3 dicemmbre 2021 si è proseguito nel cammino per il tempo d'Avvento proposto Christiana Fraternitas con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum".

Ogni venerdì d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sul Credo ovvero il Simbolo Apostolico.




Testo integrale della I predicazione sul Simbolo Apostolico

del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella


Credo in Deum Patrem omnipotentem, Creatorem caeli et terrae


Cari Fratelli e Sorelle,

nella prima settimana di Avvento, abbiamo ricostruito le tappe attraverso le quali la comunità cristiana primitiva ha progressivamente articolato le prime professioni di fede. Abbiamo detto che poter dire in poche parole la propria fede, ovvero costituirsi un simbolo, è una costante nell’universo delle fedi e, nello specifico per noi cristiani, questa consuetudine affonda le sue radici nella fede e nell’uso del popolo d’Israele. I passaggi sinora compiuti ci hanno portato alla comprensione che le professioni di fede dovevano aver assunto una forma letteraria ben precisa e che quella forma letteraria era connessa con il contesto battesimale: lo abbiamo visto attraverso la Prima Lettera di Giovanni e poi ripetutamente con quelle di Paolo.


1) Legame tra battesimo e formula di fede. Tradizione fedele e/o tradizione infedele

Se scendiamo verso di noi, nel cammino storico della comunità ecclesiale, ci accorgiamo che questo legame tra battesimo e formula della professione di fede inizialmente si consolida. Prima di dimostrare, con i dati testuali, questa affermazione, vorrei offrirne una plausibile spiegazione, che di per sé è abbastanza evidente. Trattandosi del contenuto della fede, da veicolare a tutti, è normale che essa sia pensata nel contesto battesimale: quello era il contesto della scelta, il momento in cui una persona decideva definitivamente di aderire a Gesù, di essere innestato in lui e nella sua persona e, quindi di conseguenza, nel suo corpo-comunità, ovvero la Chiesa. Riconoscersi non in una dottrina, non in un sistema teologico o filosofico, ma in una relazione vitale con Cristo e la Chiesa, voleva dire riconoscersi in una specifica forma di vita nuova, la vita cristiana. Questo riconoscimento era vissuto come il passaggio da una vecchia vita (l’uomo vecchio di Paolo) ad una vita nuova (l’uomo nuovo: cf Col 3,9). Questo passaggio era segnato da un rito: il battesimo. Come indicare che uno aveva deciso liberamente di fare il suo ingresso in questa grazia, in questo mistero, in questo dono ed in questa vita nuova? Aderendo all’insegnamento di Gesù, il cui contenuto veritativo veniva sintetizzato in quella formula. Così accettare, aderire a quella formula, a quel contenuto, voleva dire accettare quella relazione vitale, quella specifica forma di vita nuova.

Vediamo alcune testimonianze rilevanti per la loro antichità.

A metà del II secolo, Giustino nella sua Prima Apologia ci descrive l’usanza battesimale: «2. A quanti siano persuasi e credano che sono veri gli insegnamenti da noi esposti, e promettano di saper vivere coerentemente con questi, si insegna a pregare ed a chiedere a Dio, digiunando, la remissione dei peccati, mentre noi preghiamo e digiuniamo insieme con loro. 3. Poi vengono condotti da noi dove c’è l'acqua, e vengono rigenerati nello stesso modo in cui fummo rigenerati anche noi: allora infatti fanno il lavacro nell'acqua, nel nome di Dio, Padre e Signore dell'universo, di Gesù Cristo nostro salvatore e dello Spirito Santo» (LXI, 2-3).

Questo membro di una comunità cristiana del II secolo, qual è Giustino, quali dati ci offre? Apprendiamo che esiste una preparazione al battesimo, che assumerà il nome di catecumenato. Al termine catecumeno (katēchúmenos) viene dato, solitamente, il significato di colui che viene istruito. Questa traduzione del termine, sebbene corretta, mi sembra semanticamente incompleta. Infatti, il verbo kat-ēcheō significa insegnare. Da qui, kat-échesis diviene insegnamento e katēchúmenos, a sua volta, colui che è ammaestrato. Tuttavia, si deve - a mio parere - scendere meglio nel senso profondo del verbo kat-ēchéo. Il verbo ēchéo vuol dire risuonare, rimbombare; la preposizione katà invece indica il basso (giù, sotto ed anche dietro). Il catecumeno, quindi, è colui nel cui profondo è risuonato, è rimbombato l’annuncio della fede (kerygma). Cioè non è soltanto colui che passivamente riceve un’istruzione, ma anche colui che attivamente ha fatto risuonare dentro di sé ciò che ha ricevuto, ciò che ha ascoltato, ciò che ha compreso. Da Giustino conosciamo anche i contenuti germinali di questo cammino di preparazione:

  • a) la preghiera: Giustino dice che ai catecumeni «si insegna a pregare» (sappiamo che venivano insegnati i Salmi e non a caso di molti scrittori cristiani abbiamo i Commenti ai Salmi che evidentemente dovevano essere catechesi prebattesimali) e la preghiera del Signore (la oratio dominica);

  • b) un contenuto veritativo: infatti, nel testo è scritto «a quanti sono persuasi che sono veri i nostri insegnamenti»;

  • c) un codice etico: tant’è che una delle condizioni per accedere al battesimo è che il catecumeno «prometta di vivere secondo gli insegnamenti ricevuti».

L’ordine con cui l’autore indica il contenuto del catecumenato non è privo di conseguenze circa la comprensione della vita di fede. Anzitutto si insegna la preghiera, perché la fede non è l’adesione ad un dogma, ma una relazione vitale, dialogica con Dio; inoltre, il codice etico (che è solo la terza istanza ed il terzo contenuto) nasce dall’accoglimento degli insegnamenti, cioè è una forma di vita liberamente e responsabilmente accolta come conseguenza discendente dalla verità accolta: nessun comandamento esterno, nessuna imposizione che venga da qualche altro se non dalla verità ricevuta ed accolta attraverso gli scritti neotestamentari; possiamo dire dall’incontro con il Signore.

Dopo Giustino, gli altri – pur degni di menzione per antichità, come Il pastore di Erma, leOdi di Salomone, Ireneo di Lione e tanti altri – non aggiungono molto alla questione che ci riguarda, in quanto danno ormai per scontata ed unica la formula trinitaria del battesimo.

Occorre giungere al testo della Traditio Apostolica per avere una descrizione più dettagliata del rito del battesimo, dalla quale ricaviamo anche il testo delle interrogazioni battesimali. Colui che battezza discende nell’acqua con il catecumeno, gli rivolge tre domande sulla sua fede, il catecumeno risponde per tre volte «credo» e per tre volte, dopo ogni risposta, viene immerso nell’acqua. Il testo delle tre domande che precedono la triplice immersione dice:

«Credi in Dio Padre onnipotente?»; «Credi in Cristo Gesù, figlio di Dio, che è nato di Spirito Santo da Maria vergine e (fu) crocifisso sotto Ponzio Pilato e morì e (fu) sepolto e risuscitò il terzo giorno, vivo, dai morti, ed ascese al cielo e si è assiso alla destra del Padre, (il quale) verrà a giudicare i vivi ed i morti?»; «Credi nello Spirito Santo, la santa chiesa e la risurrezione della carne?».

Il testo qui citato è quello che gli studi critici attestano come il più antico della Traditio Apostolica (facendolo risalire al V secolo; tuttavia esso è una versione di un testo più antico, scritto all’inizio del III secolo, tra il 215 ed il 217 d. C.). Esistono versioni più estese di queste domande, ma sono decisamente più tardive.

Ci troviamo dinanzi alla formula interrogativa più antica, che può essere intesa come la fonte, la base da cui è stata ricavata la formula dichiarativa che poi si è diffusa nell’occidente cristiano e che viene conosciuta con il nome di Credo della chiesa di Roma; si tratta di una delle formule più antiche di Simbolo completo, a noi giunte, da cui poi è nato – finalmente – il Simbolo degli Apostoli. Con questo, le differenze sono poche, anche se alcune sono molto significative.


Siamo, così, allora giunti al testo oggetto della nostra riflessione: dalle sintetiche professioni di fede neotestamentarie, alle formule interrogative battesimali a quelle dichiarative, che certamente devono anch’esse aver avuto origine nell’ambito del catecumenato. Infatti, era prassi nel cammino di preparazione al battesimo fare la traditio symboli, ovvero la consegna del Simbolo perché il catecumeno lo imparasse. A ridosso del battesimo egli doveva compiere la redditio symboli, doveva cioè recitarlo dinanzi alla comunità. In questo modo si realizzava anche quello che già l’apostolo aveva detto: vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto.

Ci accorgeremo come, purtroppo, il Simbolo un po’ per volta ha perso la sua connessione con il battesimo e questo distaccamento ha prodotto conseguenze nefaste. Man mano che il Simbolo perdeva la sua connotazione battesimale e smetteva di essere la formula che esprimeva una relazione, ha iniziato a diventare una sorta di dogma, un insieme di verità sui cui confrontarsi, dibattere, e alla fine, purtroppo, per cui combattere e dividersi. Quando la formula di fede non esprime più una vitale relazione con Dio e con la Chiesa e viene deturpata in un monolite dogmatico, allora, essa perde la sua funzione e diviene causa di divisione.


Entriamo ora nel vestibolo di questo testo del Simbolo Apostolico e proviamo a comprendere ciò che esso vuole dirci. Lo facciamo rispettando la struttura ternaria, trinitaria, che abbiamo visto stare alla base di questo Simbolo.


2) Credo in Deum Patrem onnipotentem, creatorem coeli et terrae

Anzitutto occorre ribadire quello che abbiamo detto circa il valore del verbo credo. Qui non è un verbum putandi; non esprime un’opinione. È la dichiarazione di una conoscenza certa. Il verbo credere (pisteuo) è tipicamente giovanneo. Infatti, Matteo lo usa 24 volte, Marco 20 e Luca 26; Giovanni da solo supera la somma dei sinottici, con le sue ben 100 ricorrenze.

Nel quarto Vangelo il verbo pisteuo è costruito in tre modi: pisteuo con il dativo (credere a…) indica l’affidabilità della persona che dice qualcosa; pisteuo oti (credere che…) indica l’affidabilità dell’enunciato, della cosa detta; ed infine, pisteuo en (credere in…) indica la relazionalità con la persona a cui si dà fiducia, ma anche il camminare verso quella persona, nella sua intimità, approfondendone la conoscenza.

Nel Simbolo noi attuiamo esattamente questo uso neotestamentario del verbo credere. Dire credo in significa entrare in una relazione che inizia nella fede, ma anche che nella fede si perfeziona, si compie, si approfondisce e si completa nella comunione. Credere in Dio significa entrare con lui in una relazione di amore, di reciproca conoscenza, di mutua compenetrazione: Dio entra ed abita in noi, e noi entriamo e dimoriamo in lui.

La relazione, instaurata dalla grazia della fede, poi, non è con una entità superiore asettica e distaccata, ma con un Dio che – per manifestarsi all’uomo – ha inviato il Figlio, per aprire all’umanità la medesima relazione: ci invia il Figlio per manifestarsi Padre e renderci suoi figli.

Sul senso della paternità di Dio e sul significato della nostra figliolanza divina, abbiamo avuto modo di soffermarci a lungo, nelle meditazioni sul Padre nostro, nell’Avvento 2020 e che abbiamo anche pubblicato nel volumetto Il Padre nostro, una preghiera da non recitare.

In questa sede vorrei solo richiamare alcuni concetti fondamentali. L’idea di Dio come Padre non è una invenzione di Gesù; egli attinge all’esperienza di Israele che affermava la paternità di Dio in quanto creatore (cf Dt 32,6 e Mal 2,10) o in quanto egli stipula un’alleanza con il suo popolo (cf Es 4,22; Ger31,9; Sap 14,3) e lo guida passo dopo passo (cf Os 11,3-9). Tuttavia, il rapporto con la paternità di Dio è qui un rapporto collettivo: Dio è padre dell’umanità tutta, perché l’ha creata, e del popolo tutto, perché lo ha scelto, consacrato e guidato. Gesù attinge a quell’esperienza e la rielabora, la reinterpreta a partire dal suo proprio e personale rapporto con Dio, nel quale ci ha inseriti, ci ha immessi in un modo peculiare e nuovo. Quando egli parla con Dio lo fa in un rapporto unico e personale non collettivo: egli è il Figlio, l’unigenito, il primogenito in cui il Padre ha posto tutto il suo compiacimento (cf Mt 3,16-17). Solo così, innestati in Gesù, lui ci rende singolarmente e personalmente partecipi del suo unico e irripetibile rapporto con Dio che è suo Padre: Padre mio e Padre vostro (Gv 20,17)!

Inoltre, per chiarire superando ogni visione patriarcale e maschilista, nonché riduttiva della natura sovrasessuale di Dio, sappiamo che la parola padre, sulle labbra di Gesù, trae origine dall’aramaico abbà. Abbà è forma enfatica di ab (padre) e deriva da una radice che indica desiderio, diletto, compiacimento. Esso, quindi, pur volendo determinare l’identità del padre, come principio originante di ogni cosa, lo fa in rapporto ai sentimenti che questi prova verso il suo figlio. Abbà è, quindi, colui che prova verso suo figlio un amore tenero e che desidera per lui tutto il bene possibile.

La affermazione della fede nella paternità di Dio, oltre ad avere un risvolto esistenziale personale, come abbiamo detto, ha anche un risvolto comunitario. La comune professione di fede in Dio Padre onnipotente è, al tempo stesso, implicitamente una comune affermazione del proprio far parte del novero dei suoi figli, cioè della sua famiglia. Ne deriva che tutto ciò che personalmente facciamo o per ferire la comunità o contro un qualsiasi suo membro non sia anzitutto un peccato di carità o una ferita ad una persona, diventa anzitutto una negazione di Dio e della sua paternità. Quando la comunità smette di essere, per me, la mia famiglia, il luogo in cui faccio esperienza della Paternità di Dio e si trasforma in un impegno da vivere, in un cumulo di cose da fare, magari abitudinariamente e stancamente, ciò che ho perso non è lo “smalto” della vita comunitaria, ma qualcosa di più importante: ho perso la certezza della Paternità di Dio.

Solo entrando in questa relazione filiale con Dio come Padre, possiamo comprendere il senso dell’aggettivo omnipotentem. L’onnipotenza di Dio sta nella sua capacità di superare l’insanabile differenza tra l’umano ed il divino. L’onnipotenza di Dio non è la sua capacità di fare ciò che vuole e di agire capricciosamente elargendo – non si sa secondo quale logica – il bene e il male qua e là sulla terra. L’onnipotenza di Dio sta nel fatto che egli ha superato la sua assoluta trascendenza, la separazione e l’ontologica differenza che c’era tra Dio e l’uomo e l’ha fatto nel modo più “irragionevole” che poteva esserci: assumendo la condizione umana, scendendo nelle pieghe più profonde dell’umanità, condividendone l’infima debolezza mortale, entrando in ciò che era ritenuto l’opposto e la negazione di Dio, ovvero il materiale, il terreno, il corporeo.

Facciamo, quindi, attenzione, quando poniamo domande del tipo: ma se Dio è onnipotente, perché consente il male sulla terra? La presenza del male è una domanda seria, ma legare l’onnipotenza di Dio alla possibilità di far sì che nella storia non accada mai nulla di brutto, significa ridurre Dio ad una sorta di talismano. Oltre ad essere una domanda sciocca, rivelerebbe anche l’ancestrale tentazione umana di piegare Dio al proprio benessere anzi al proprio bene-stare.

L’onnipotenza di Dio, invece, si è manifestata in qualcosa di decisamente più grande: Egli che è l’Eterno si è fatto tempo; Lui, l’Infinito, si è fatto finito; il Divino si è fatto umano. Ed ha così creato una strada di ritorno, una circolazione a doppio senso di marcia: ha fatto tutto questo, perché l’uomo, finito, diventi Infinito, il tempo diventi Eterno, l’umano diventi Divino. Ma davvero vogliamo chiedere a Dio di darci una vita terrena senza intoppi, per manifestarci la sua onnipotenza? Ma allora davvero non ci rendiamo conto di cosa ci ha dato e di cosa ci ha resi partecipi!

Infine, il Simbolo apostolico aggiunge, rispetto alla formula originaria da cui nasce, la dichiarazione della fede in Dio Padre onnipotente, come creatore del cielo e della terra. Cielo e terra è un merismo, un espediente letterario, noto alle lingue semitiche e da esse arrivato sino a noi, con cui si dicono gli estremi di qualcosa, per indicare la totalità delle cose che stanno tra i due estremi. È di uso comune come in altri casi: dal mattino alla sera, nella gioia e nel dolore, dall’oriente all’occidente, dal nero al bianco.

L’aggiunta di questo riferimento all’opera creatrice di Dio può avere due origini: una storico-apologetica ed un’altra teologica che non posso qui spiegare in modo completo perché sarebbe lungo e difficile. Una delle accuse con cui si scatenarono le persecuzioni contro i cristiani era quella di ateismo. Essi adoravano un uomo, Gesù di Nazareth, quindi erano atei. Affermare, nel Simbolo, che essi credevano in Dio in quanto creatore di ogni cosa (formula conosciuta al filosofo Platone, universalmente accettato come sapiente) era un intelligente modo per dire: vedete? Se definite noi atei, dovete definire ateo anche Platone! Ma questo non lo farete mai! Se non perseguitate i platonici, non potete perseguitare anche noi. E questa è la ragione apologetica (di difesa) per cui venne inserita la formula «creatore del cielo e della terra».

La motivazione teologica è diversa. Quando il Simbolo cominciò a staccarsi dal contesto battesimale e si spostò sul piano della verità dogmatica, iniziarono nella Chiesa molte discussioni su come interpretare il rapporto tra l’unicità di Dio e la sua trinità personale. Alcuni ritenevano che affermare semplicemente che il Figlio e lo Spirito erano Dio come il Padre desse origine ad una forma di politeismo o, più precisamente, di tri-teismo. Sorsero molte posizioni e discussioni: alcuni arrivarono a dire persino che l’unico Dio era il Padre e che Figlio e Spirito erano “modi” differenti con cui lui solo si manifestava agli uomini (questa corrente fu chiamata modalismo). Attribuire al Padre l’opera della creazione significava così due cose: riconoscere in Lui l’origine di tutto, ma senza che questo potesse escludere dall’azione le altre due Persone divine. Ciò che viene attribuito a Uno è sempre opera di tutti e Tre insieme (questa spiegazione verrà chiamata teologia delle attribuzioni trinitarie e trova la sua origine in Agostino d’Ippona: De Trinitate I, 9,19).


Questi dati storici ci chiariscono almeno due insegnamenti:

  • - Il primo è che, quando si tratta della natura e della vita intima di Dio, non bisogna mai cedere alla tentazione di dare troppe ed eccessive spiegazioni, che hanno la presunzione di diventare esaustive. Come dire credo esprime una relazione, così tutto il rapporto con Dio deve rimanere relazionale. Possiamo e dobbiamo sforzarci di capire, ma sempre ammettendo un nostro insito limite;

  • - La verità della fede sin da subito è stata compresa e detta in modi estremamente diversificati. I problemi sono iniziati quando una spiegazione ha preteso di essere superiore alle altre, quando cioè si sono creati i “partiti” teologici. Dinanzi al mistero di Dio dobbiamo rimanere umili accoglitori di una verità che ci supera e riconoscere che, se Dio vuol lasciarsi dire dai suoi figli in modi molteplici, perché mai noi dovremmo arrogarci il diritto di zittire qualcuno che si esprime diversamente da noi?


Ovviamente noi non possiamo fermarci solo alla ricostruzione di un dato storico che è cosa certamente interessante, ma rimane incompleta. Noi quel dato dobbiamo reinterpretarlo perché parli al nostro oggi.

A noi, uomini e donne del XXI secolo, cosa indica l’affermazione di fede in Dio come creatore di tutto? Come la fede nella paternità di Dio ci indica la nostra ontologica relazione a Lui ed a tutti i suoi figli, così la fede nel suo essere creatore ci ricorda la nostra altrettanto ontologica identità di creature e la nostra connessione con tutte le altre creature. Come la ferita alla comunità o ad un suo membro sono una negazione della fede nella paternità di Dio, così una ferita alla creazione è una negazione di Dio creatore. Ogni qualvolta uno di noi, battezzato, compie qualcosa che va a detrimento della natura e del cosmo, sta negando con i suoi atti quello che dice con le sue labbra. Accadrebbe anche per noi ciò che il Signore ha rimproverato per mezzo del profeta: «questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13; citato da Gesù stesso in Mc 7,16). Occorre davvero che quanti pronunciano le parole del Simbolo – soprattutto se hanno responsabilità nel mondo politico ed industriale – ricordino queste parole del Signore, prima di dire con le labbra: credo in Dio creatore del cielo e della terra!


3. Conclusioni

Cari amici ed amiche, ancora una volta questa riflessione sulle parole con cui professiamo la nostra fede ci ha mostrato che ciò che è in gioco in queste parole non è un solo un’idea, un contenuto dogmatico su cui dibattere come se fosse una teoria ideologica. Qui è in gioco una vita, anzi la vita! La vita di chi dice di credere, la vita di tutti noi, la vita di chi guarda ai cristiani, a noi, e si attende coerenza.

Qui è in gioco la credibilità stessa delle parole che professiamo, che pronunciamo. Da queste parole dette discende una forma concreta e coerente di esistenza? Queste parole inverano la forma della nostra vita? La plasmano? Danno robustezza alle scelte quotidiane, alle cose che facciamo ed al modo con cui le facciamo?

Queste parole ci fanno riprendere il contatto con il nostro essere in relazione ontologica ed esistenziale con Dio, con il novero dei suoi figli (cioè la Chiesa) e con il novero delle sue opere (cioè il creato)?

Se queste parole prendono corpo nel nostro modo di relazionarci, allora sono parole di vita; altrimenti restano formule vuote e senza senso.

Il Signore, che viene, ci doni di dare peso alle nostre parole!

dom Tonino +


Qui sotto il video integrale della predicazione








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