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II settimana d'Avvento. Ecco lo sposo, andategli incontro! (Mt 25,6) Avvento: il tempo della Chiesa

Venerdì 22 novembre 2019,  il tempo d'Avvento proposto dall'Ordine Monastico Ecumenico Christiana Fraternitas prosegue con la sua seconda tappa.

Ogni venerdì d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sulla preghiera del Padre nostro. Questa settimana in oggetto la prima frase: "Padre nostro che sei nei cieli". 

La Celebrazione Ecumenica della Parola è arricchita dal lucernario tratto dalle Constitutiones Apostolorum e dal canto delle Antifone Maggiori (comunemente dette: Antifone "O").

Questo venerdì il Capitolo ha accolto in postulandato un nuovo fratello per il discernimento alla vita monastica.





Testo integrale della II meditazione sul Padre nostro del nostro

Rev. mo Padre Abate dom Antonio Perrella


«Padre nostro, che sei nei cieli…»

Dopo aver introdotto la Preghiera del Signore, spiegando i contesti nella quale viene inserita dai due evangelisti che la riportano, ci addentriamo nel testo della preghiera e lo facciamo attraverso la formula matteana semplicemente perché è quella comunemente in uso nelle chiese cristiane.


1. Prima di entrare nel significato, almeno abbozzato, delle singole parole, ci accorgiamo che nella invocazione iniziale siamo dinanzi ad un distico: due elementi apparentemente contrapposti. Da un lato, abbiamo “Padre nostro”, che evoca vicinanza, rapporto confidenziale ed affettuoso; dall’altro, c’è “che sei nei cieli”, che indica trascendenza, lontananza, distanza. Come possono stare insieme queste due cose? Come può Dio essere al contempo vicino come un padre e lontano come un dio? Credo che questa formulazione abbia un intento pedagogico che mi sforzo di spiegare. Dal punto di vista psicologico è solo una lontananza che può farci apprezzare appieno la vicinanza.

Quando abbiamo una persona cara sempre vicina, noi purtroppo – nel ritmo vorticoso della vita – ci abituiamo alla sua presenza. Sappiamo che c’è, che l’abbiamo a disposizione, ad un tiro di schioppo. E così, magari, non la ricopriamo delle attenzioni che merita. Diciamoci la verità: un po’ la diamo per scontato, come facciamo per mille cose e mille persone. Se quella persona, però, deve partire per un lungo viaggio o trasferirsi oppure è comunque costretta a stare lontano da noi per un tempo prolungato, allora rimpiangiamo i momenti che non abbiamo rubato per stare assieme, le volte in cui non l’abbiamo fatta sentire preziosa, le volte in cui l’abbiamo trattata con sufficienza o persino male. Quante cose avremmo voluto dirle, non lo abbiamo fatto e adesso ci sembra che non ne abbiamo più il tempo. Se quella persona, poi, torna, allora la gioia della sua presenza esplode. Facciamo così anche quando ci capita di incontrare un personaggio famoso o una persona che per noi è come un modello: abituati a sentirla troppo lontana da noi, quei cinque minuti – giusto il tempo di un selfie – ci sembrano un tempo prezioso.

Gesù, quindi, nel ricordarci che Dio “sta nei cieli”, cioè non è una creatura, è differente dall’uomo, dal mondo e dalla storia, ci sta educando ad apprezzare ed adorare l’empito del suo amore che lo ha portato a farsi vicino, ad entrare nel mondo e nella storia, a farsi uomo nel suo Figlio. È proprio la trascendenza di Dio ed il suo essere al di là di ciò che è a nostra portata, a farci scoprire la grandezza del suo amore, che lo ha spinto a venire di qua, a farsi toccare, a rimanere immanente in noi, nella storia e nel mondo.

Così possiamo comprendere bene il significato di ciascuna parola.


2. Padre: di per sé la parola “padre” ha valenze differenti e molte di queste dipendono dalla storia che ci portiamo dietro, dalle esperienze che abbiamo vissuto. Per alcuni “padre” evoca tenerezza, protezione, premura e amore; per altri evoca timore, sudditanza, freddezza. Invocare Dio con il nome di Padre, quindi è rischioso: per alcuni può essere motivo di incentivo alla preghiera e ad una relazione con Dio; per altri invece può essere l’esatto contrario. Se Gesù, quindi, ha corso il rischio di usare questa parola, vuol dire che aveva un intento ben preciso e che il suo fine valeva tutto il rischio.

Dobbiamo allora ben comprendere il significato di questo intendimento di Gesù, per capire perché ci ha abilitati a chiamare Dio con il nome di Padre, come di per sé solo a lui spettava.

Nell’Antico Testamento Dio spesso è chiamato Padre. In Dt 32,6 e Mal 2,10 si ricorda che Dio è padre perché ha creato l’uomo; Dio è ancora Padre perché ha stipulato un’alleanza d’amore con il suo popolo, che viene chiamato primogenito (cf Es 4,22; Ger31,9; Sap 14,3); Dio è di nuovo Padre perché prende per mano il suo popolo e lo guida passo dopo passo (cf Os 11,3-9). Tuttavia, il rapporto con la paternità di Dio è qui un rapporto collettivo: Dio è padre dell’umanità, perché l’ha creata, e del popolo, perché lo ha scelto, consacrato e guidato.

Quando Gesù parla con Dio, invece, lo fa in un rapporto unico e personale non collettivo: egli è il Figlio, l’unigenito, il primogenito in cui il Padre ha posto tutto il suo compiacimento (cf Mt 3,16-17). Gesù si arrischia allora a parlare di Dio come Padre, perché ci sta rendendo singolarmente e personalmente partecipi del suo unico e irripetibile rapporto con Dio che è suo Padre: Padre mio e Padre vostro! Valeva la pena correre il rischio di usare quella parola, che per qualcuno potrebbe non essere piacevole, perché la relazione attraverso la quale comprendere la paternità di Dio non è il mio rapporto con mio padre, ma il rapporto di Gesù con il Padre suo, che diventa anche nostro.

Solo così possiamo capire la portata dirompente della parola aramaica, che Gesù avrà certamente usato: Abbà! Papà! Paparino mio! Era il termine usato non dagli adulti, ma dai bambini nel rivolgersi al padre, al babbo. Un vezzeggiativo perché l’unione d’amore tra il Padre e il Figlio è un rapporto che non ha uguali né termini di paragone qui nel mondo, eppure un rapporto nel quale noi, singolarmente presi, siamo stati inseriti. Per Dio io sono come l’unico, il prediletto, il primogenito; ed egli è per me il babbo colmo di tenerezza e di amore: io sono tutto per Lui! Per questo motivo la paternità di Dio sana le nostre orfanezze ed i nostri abbandoni. Ognuno di noi si sente un po’ orfano: quanto ci saremmo attesi da quelli che sulla terra sono padri; quale differente atteggiamento ci saremmo aspettati da coloro che sulla terra pretendono di essere il riflesso della paternità di Dio; quanta premura e attenzione ci saremmo aspettati da coloro a cui sulla terra abbiamo legato il nostro cuore con sentimenti di amicizia o di amore. Quante ferite ed abbandoni! Oggi, riscoprendo che Dio è mio Padre e che io sono tutto per lui, esattamente ed allo stesso livello di Gesù, queste ferite sono sanate e questi vuoti sono colmati. Avrò sempre Dio e vedrò sempre i suoi occhi che si riempiranno di gioia e di amore ogni volta che guarderanno il mio volto. Ci sarà sempre uno, Dio, mio Padre, che guardandomi mi dirà: «sei una meraviglia ai miei occhi, tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima ed io ti amo (cf Is 43,4); ti ho fatto come un prodigio (cf Sal 138,14); io ti ho scolpito nel palmo della mia mano (cf Is 49,16)».


3. All’invocazione “Padre” Gesù aggiunge l’aggettivo “nostro”. L’esperienza rinnovata della paternità di Dio, porta con sé un’altra esperienza rinnovata, cioè quella della fraternità. Gesù non dice che siamo fratelli anzitutto per una nuova relazione tra di noi, ma perché ciascuno ha una nuova relazione con Dio. Chiamare Padre la stessa persona, ci rende necessariamente fratelli. Questa fraternità non si basa, tuttavia, in un rapporto tra di noi, ma in un rapporto con Dio. La paternità di Dio è il fondamento solido ed oggettivo della fraternità all’interno della comunità, prima, e dell’intera umanità, poi. Spesso le nostre fraternità vacillano, si incrinano perché abbiamo vedute differenti, caratteri contrastanti, orgogli invincibili. Tutto questo può diventare un ostacolo per un solo motivo: perché non abbiamo fatto veramente esperienza della paternità di Dio. Se ciascuno di noi fa esperienza di questo amore totale ed unico di Dio verso di lui, allora non può mancare di amore verso l’altro, perché anch’egli è destinatario dello stesso e medesimo amore di Dio Padre. Pensiamoci bene: se ci sentissimo investiti del fuoco divampante dell’amore di Dio, e se pensassimo che anche chi ci sta difronte è ugualmente investito e inondato del medesimo amore, davvero noi continueremmo a rimanere divisi? Sono divisi solo i fratelli che non hanno fatto esperienza dell’amore del Padre. La cosiddetta parabola del padre misericordioso (cf Lc 15,11-32) lo dice chiaramente: il fratello minore ed il maggiore si allontanano l’uno dall’altro, perché ambedue sono distanti dal cuore del padre. Se si fossero lasciati inondare dall’amore del padre, allora non si sarebbero neppure allontanati l’uno dall’altro. La preghiera del “Padre nostro” in qualche modo ci inchioda: se ho il dono di poter chiamare Dio con il nome di Padre, allora la mia mente, la mia lingua, la mia mano devono arrestarsi dinanzi al fratello. Se vìolo la sua dignità di figlio, in ultima analisi sto rinunciando alla stessa paternità di Dio.

C’è, però, un passaggio ulteriore che, nella nostra situazione locale, è necessario fare meditando sulla paternità di Dio e sulla fraternità universale che da essa nasce. Abbiamo detto che invochiamo Dio come i bambini: abbà! Questo stato di fanciullezza, in qualche modo, dovrebbe permanere in tutte le nostre relazioni: con Dio, con i fratelli, ma anche con il meraviglioso scenario in cui queste relazioni vengono vissute e declinate, ovvero con il creato. Il bambino, quando vede qualcosa, non si pone come prima domanda: «come posso sfruttarlo? Cosa ci posso guadagnare?». La prima domanda che da è: «cos’è?». La sua prima reazione è quella di una meraviglia estatica… poi, forse, proprio perché bambino, dirà anche: «è mio!», ma dall’avere qualcosa trarrà semplicemente la gioia di ciò che ha fra le sue mani. Vuole esplorarlo, conoscerlo, goderne così com’è. Non pretenderà necessariamente di trasformarlo, usarne ed abusarne per ricavarne qualcosa. Se commette errori nell’usare delle cose, lo fa perché non è stato educato all’utilizzo, ma non lo farà perché vuole ricavarne qualcosa. Il suo atteggiamento con ciò che lo circonda è naturalmente gratuito: mi dai gioia perché ci sei, non perché posso guadagnare qualcosa da te. Nei confronti del creato noi dobbiamo tornare ad essere bambini: accoglierlo, custodirlo, usarne con la saggezza che ci viene insegnata da chi è più grande di noi; ma senza abusarne fino a distruggerlo e fino, in ultima analisi, a distruggere noi stessi, perché abbiamo distrutto il nostro habitat.


4. “Che sei nei cieli”: abbiamo già detto che questa locuzione afferma la trascendenza di Dio ed il suo essere irriducibile a ciò che è nel mondo. Questa assoluta differenza di Dio, però, è per noi carica di speranza.

Nei vangeli spesso vengono rapportati il cielo e la terra: «Tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo» (Mt 18,18); «se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nel cielo ve la concederà» (v. 19); «Tutto ciò che voi farete nel segreto, il Padre che è nei cieli lo vedrà e ricompenserà» (cf 6,4.6.18). Anche l’Antico Testamento afferma che gli eventi sulla terra hanno un legame con il cielo: «Il cielo farà succedere gli avvenimenti secondo quanto è stabilito lassù» (1Mac 3,60).

Con le parole “che sei nei cieli” attestiamo che il Padre vive nel mondo della trascendenza, nel mondo definitivo, nel mondo delle cose che non passano mai più; quel Padre che vive nella luce perenne, in cui non c'è più ambiguità, non c'è più insicurezza, non c'è più peccato.

Nella nostra vita quotidiana, noi viviamo in un perenne stato di mancanza. Da un lato sappiamo e sperimentiamo la pienezza di dono che abbiamo ricevuto con la vita, con la fede, con la comunità, eppure ci sentiamo anche sempre sfiorati, rasentati e talvolta coinvolti dal compromesso; la nostra è una situazione oscura, in cui non si sa mai bene se operiamo davvero secondo il Vangelo oppure no; siamo ogni giorno a rischio di ambiguità. Dicendo «Padre nostro che sei nei cieli», confessiamo però che c’è un luogo dove tutto è chiaro, luminoso, limpido, dove tutto è giusto e vero. Se ci guardiamo intorno, siamo come affaticati, appesantiti e talora oppressi, dal cumulo di ingiustizie che ci circondano e delle quali, volere o no, siamo parte; proclamando «Padre che sei nei cieli» affermiamo che c’è una situazione in cui non c’è più ingiustizia, né lacrime, né amarezze, né incomprensione, né malinteso, e tutto è chiarezza, bellezza, purità.

Queste parole quindi ci danno speranza, perché Dio, che è Padre ed è nostro, è anche colui che abbatte il muro dell’ingiustizia e fa sorgere la giustizia, la pace, l’amore; già qui e ora, in chi accoglie la sua paternità. E poi, nel tempo definitivo del suo Regno, verso cui corriamo con gioia e spediti, con cuori colmi di attesa e di speranza.


5. Un’ultima parola vogliamo, ora, rivolgere a te, caro fratello N, che inizi questa sera il tuo postulandato e ti accosti alla nostra Comunità. Noi ti accogliamo come un dono di Dio! Così come sei, nella irriducibile bellezza del tuo essere figlio di Dio e nella fioritura del dono di essere anche fratello nostro. Un dono della Provvidenza, o della tenerezza paterna di Dio, ha disposto che tu iniziassi questo cammino, in questa sera, mentre abbiamo meditato su queste parole del Padre nostro e mentre tu hai scelto come frase per la giornata odierna un meraviglioso testo paolino: «Dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la meta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù in Cristo Gesù» (Fil 3,14). Oggi tu riscopri che, se gli occhi di alcuni uomini non sono stati paterni verso di te, comunque Dio non ha smesso di guardarti e di ammirarti come un prodigio, come il suo prodigio, come il figlio prediletto uscito dalla sua mano e dal suo cuore. Ed è con la stessa meraviglia che noi, figli di Dio come te e insieme a te, ti accogliamo nella nostra Fraternità monastica. Amen.






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