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II settimana d'Avvento 2020: Il Regno di Dio avviene per te!

"Il Battista: Si tratta di un segno, o meglio di una persona che diventa segno, la quale con la sua stessa vita si pone come punto di domanda: interpella, pone questioni radicali, totalizzanti sulla vita e sul suo senso", alcune parole del sermone dell'Abate Antonio.


Venerdì 4 dicembre 2020 alle ore 20, presso la Cappella della Casa d'Amministrazione, la seconda tappa del Tempo d'Avvento proposto dalla Christiana Fraternitas con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola e il lucernario tratto dalle Constitutiones Apostolorum. Durante la Preghiera le monache e i monaci hanno indossato la mascherina arcobaleno per sensibilizzare alla pace e all'inclusione sociale.


Omelia del Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella

in occasione della II settimana d'Avvento 2020


Testo di riferimento Mc 1, 1-8


Da chi ci lasciamo indicare? Cosa vi viene indicato?

Le domande che vengono dal Battista.


Care Sorelle e Fratelli, Amici ed Amiche,

Il vangelo di questa seconda settimana di avvento ci presenta la figura di Giovanni, che sin da subito ci sembra controversa. Egli si mostra come l’uomo delle contraddizioni: è figlio di Zaccaria, quindi di famiglia sacerdotale; dovrebbe stare a Gerusalemme - dove c’era il tempio - ed invece sta nel deserto; dovrebbe offrire i sacrifici di purificazione ed invece dà un battesimo per la conversione della vita; dovrebbe indossare i parati sacerdotali ed invece veste di peli di cammello e di una cintura di pelle; potrebbe mangiare la porzione dei sacrifici che spettava ai sacerdoti ed invece si ciba di locuste e miele selvatico.

Marco ci presenta questa figura in un modo che, a pensarci bene, non è per nulla accattivante in base a principi di estetica; eppure il Battista esercitava sui suoi contemporanei, ed esercita anche su di noi, un potere affascinante.

È il fascino della contraddizione, anzi – come Simeone avrebbe poi detto di Gesù – del segno di contraddizione, o più precisamente del segno contraddetto (cf Lc 2,34). Si tratta di un segno, o meglio di una persona che diventa segno, la quale con la sua stessa vita si pone come punto di domanda: interpella, pone questioni radicali, totalizzanti sulla vita e sul suo senso.


Lasciamoci dunque interrogare dalla persona del Battista. Per farlo affronteremo tre passaggi analizzando il contesto spaziale (il luogo in cui opera), il modo e il contenuto della sua predicazione.


1) Il luogo. Egli è appartenente ad una famiglia sacerdotale, che ha come luogo della propria azione Gerusalemme ed il tempio. Eppure preferisce stare nel deserto ed opera come un profeta. Sappiamo che la parola deserto in ebraico è midbar, luogo della parola, che in ebraico è dabar. Tuttavia, il termine ebraico dabar non può essere semplicemente tradotto con parola, perché indica invece una parola che è anche un fatto, un evento. Parole e fatti: sin dalla sua comparsa, Giovanni si presenta a noi come uno che annuncia ciò che in prima persona vive. Il fascino esercitato dalla figura del Battista trova la sua forza, anzitutto, nella sua coerenza: fa ciò che insegna e insegna ciò che vive in prima persona. Differentemente dai dottori della sapienza religiosa del suo tempo, egli è coerente. Anche Gesù stigmatizzerà violentemente l’incoerenza religiosa di chi lega insopportabili fardelli sulle spalle della gente, ma non li tocca neppure con un dito (cf Lc 11,46).


2) Il modo. Gli studiosi tardo-ottocenteschi del sacro, avevano illustrato il divino con tre aggettivi: tremendo, misterioso e fascinoso (cf R. Otto, Il sacro: l’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, tr. C. Broseghini-R. Nanini-A. N. Terrin, Morcelliana, Brescia 2011). Il sacro, per affascinare, deve mostrarsi come trascendente, glorioso, numinoso. Per altro, deve anche offrire una qualche certezza immediata, una consapevolezza di un bene di cui si può godere già qui ed ora. Anche noi, nella nostra preghiera, possiamo vivere questa esperienza: sappiamo di parlare con Dio, e questo è un dono, un bene immediatamente fruibile, che ci fa star bene, perché scopriamo adesso di non essere soli, ma che Dio è con noi.

Giovanni Battista non ha nulla di tutto questo: la sua vita è eremitica, il suo vestire è oggettivamente brutto, il suo annuncio è relativo, tant’è che l’evangelista gli attribuisce il verbo kerysso, tipico dell’araldo portatore di un messaggio altrui. Inoltre, egli battezza in vista della conversione, che è qualcosa da farsi per avere il perdono dei peccati, e non celebra un atto di culto che assicura già ora il perdono dei peccati.

Giovanni tutto è tranne che la definitività del sacro; egli è solo un rimando a qualcosa d’altro. Lo dirà chiaramente, quando inviterà ad attendere un altro che è più forte di lui e al quale egli non è degno di sciogliere i legacci dei sandali. Questa espressione va ben spiegata. Sciogliere i sandali era servizio da schiavi, ed il Talmud di Babilonia precisava che «il discepolo è invitato a compiere verso il suo maestro ogni genere di servizi che uno schiavo compie verso il suo padrone, ad eccezione di sciogliere i sandali» (trattato Ketubbot 96a). Giovanni, quindi, non si ritiene neppure degno di essere schiavo di Colui che deve venire. Sciogliere i sandali era anche un atto simbolico legato alla legge del levirato. Una donna vedova e senza figli doveva essere presa in moglie dal più stretto congiunto del suo defunto marito. Qualora un uomo l’avesse voluta in sposa, avrebbe dovuto sciogliere il sandalo di colui che aveva diritto su di lei. Attraverso questa espressione Giovanni attesta che non è lui lo sposo di Israele e che non può e non vuole prendere nel cuore del popolo il posto del Messia che dovrà essere il suo sposo.

Giovanni, quindi, non ha alcuna pretesa di definitività né alcun desiderio di attrarre a sé e per sé le persone. Egli è l’immagine di ogni Chiesa, che deve sempre e solo essere strumento per indicare il Signore e non sostituirsi a Lui.


3) Il contenuto. Una delle cose che ci si attende dal profeta o dall’annunciatore è che dica una parola di verità, a cui appigliarsi, da cui in qualche modo far dipendere la propria vita. Così accade spesso che l’annunciatore diventi persino più decisivo di ciò che annuncia. Lui, la sua figura o carismatica o istituzionale diventa determinante. Accade, per esempio, quando le persone scelgono la comunità in cui stare in base al pastore; ma lo vediamo anche nel mondo della comunicazione sociale: quanti opinion-makers oggi dicono le più assurde stupidità eppure sono seguiti da una folla acclamante ed osannante; una folla che, se si fermasse almeno un po’ a pensare a ciò che le viene propinato, scapperebbe a gambe levate!

Giovanni, invece, cosa annuncia? Pentimento, conversione, per preparare una strada, una via. Cioè convertirsi non per arrivare ad una meta, ma per restare in cammino. Per di più, la gente che va da lui viene dalla Giudea (la regione benedetta) e da Gerusalemme (la Città Santa). Queste persone fanno un pellegrinaggio inverso: anziché andare da territori profani ad una terra sacra, lasciano la terra sacra per andare in territori profani. Ogni certezza è capovolta, messa in discussione. Sembra quasi che tutta questa scena rivendichi il primato assoluto di Dio: nessuna persona, nessuna istituzione, nessun messaggero, nessun territorio può prendere il Suo posto, il posto di Dio. A Lui soltanto spetta il primato e la signorìa su ogni cosa, su ogni vita, su ogni persona.


Alla luce di queste tre indicazioni che il testo evangelico ci offre sulla figura controversa di Giovanni, ci sentiamo interpellati, ci lasciamo porre delle domande: noi chi cerchiamo? Dio nell’annuncio o l’annunciatore affascinante, l’istituzione rassicurante? Da chi ci lasciamo guidare? Ci siamo fatti delle domane sul profilo personale, sulla vita degli annunciatori a cui prestiamo ascolto? Dove, come, e cosa annunciano?


Cerchiamo anche noi un’esperienza religiosa accomodante, rassicurante, che ci faccia sentire un benessere immediato ma effimero? Oppure cerchiamo un’esperienza che ci scuota, che ci smuova, che faccia bruciare nel nostro cuore il dubbio, la domanda, l’incertezza del cammino, senza avere paura di essi? Preferiamo starcene seduti nei comodi banchi o nelle comode sedie dei nostri luoghi di culto, oppure preferiamo uscire per andare in cerca con gola assetata (cf Sal 42,2-3) della Parola del Signore, ovunque Egli abbia deciso di farla risuonare? Fosse anche un temibile deserto e con un annunciatore inguardabile?


Preferiamo anche noi lasciarci anestetizzare le menti ed i cuori da atti religiosi, che vorrebbero farci sentire purificati, senza che nella nostra vita cambi concretamente nulla, senza che essi provochino in noi il desiderio pungente e persino soffocante della coerenza? Ci basterà pronunciare parole di preghiere, come se fossero formule magiche, senza che esse scarnifichino i nostri cuori e le nostre anime e ci mettano a nudo davanti a Dio e a noi stessi, mostrandoci le orribili rughe delle nostre contraddizioni? Oppure preferiamo che il Signore ferisca il nostro cuore, forse fino a spaccarlo, mostrandoci come una fede a buon mercato, consolante ma inefficace nella vita quotidiana, è perfettamente inutile? Mi vengono in mente le parole, colme di ardente gelosia di Dio, pronunciate tramite il profeta Geremia: Come osi dire: «Non mi sono contaminata, non ho seguito i Baal»? Guarda nella valle le tracce dei tuoi passi, riconosci quello che hai fatto, giovane cammella leggera e vagabonda! Asina selvatica, abituata al deserto:quando ansima nell’ardore del suo desiderio, chi può frenare la sua brama? Quanti la cercano non fanno fatica: la troveranno sempre disponibile (Ger 2,23-24). Sono parole infuocate; adirate – sì – ma di una folle gelosia di amore. E noi come rispondiamo? Abbiamo il coraggio di comprometterci con Dio così come Lui si è compromesso con noi? Ci basterà elevare canti e preghiere, oppure finalmente decideremo che lo dobbiamo amare e servire, con tutto noi stessi, facendo di questo servizio a Lui un piegarci sui diseredati, sui disadattati, sugli emarginati e gli esclusi, esattamente come ha fatto Lui nel Nazareno di cui oggi celebriamo la persona e le gesta e ne invochiamo il ritorno?


Chi sarà la nostra guida? Chi cerca di usurpare il posto di Dio? Chi pretende di parlare con assoluta certezza a suo nome, dandoci ricette esistenziali rassicuranti? Chi osa sostituirsi al sacrario della coscienza delle persone, pretendendo di insegnare dall’esterno le scelte che esse devono fare? Maestri di bellezza gloriosa assoluta, e persino invidiabile, che agiscono tuttavia come burattinai spietati, come se stessero giocando sulla scena della vita altrui!

Oppure vogliamo lasciarci guidare da chi non ci lascia in pace, pungolando la nostra apparente libertà, la nostra coscienza anestetizzata, la nostra volontà avvezza alla delega? Preferiamo prendere mente e cuore e metterli nelle mani di un altro, magari illudendoci che potremo scaricare su di lui le responsabilità del nostro non aver vissuto appieno? Oppure vogliamo ascoltare veramente il Signore e muovere i nostri passi, le nostre scelte, e dare le nostre risposte? Che forse potranno anche essere scelte, risposte e passi sbagliati, ma saranno pur sempre i nostri, perché saranno il frutto della nostra fatica di vivere e di essere discepoli! Sì, discepoli! Zoppicanti, forse, ma che non hanno rinunciato a camminare; maldestri e caduti, ma che hanno avuto il coraggio di rialzarsi; insicuri, come quelli di chi ha sbagliato strada, magari anche tante volte, ma almeno hanno fatto la fatica di cercarla!


Quindi, domandiamoci: noi da chi vogliamo lasciarci guidare?

dom Tonino +



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