Sul Magnis Prophetæ vocibus: "Il cristiano è colui che attende, ovvero colui che vive in un perenne stato di tensione: tensione verso Cristo, suo redentore e sua speranza; tensione verso il fratello, destinatario dell'amore e della salvezza che passa attraverso il credente e raggiunge ogni uomo e donna; tensione verso se stesso, perchè è in Cristo che ogni essere vivente trova il vero senso della sua esistenza". Sono le parole tratte dall'omelia dell'Abate dom Antonio Perrella che hanno aperto le predicazioni del Tempo d'Avvento alla Christiana Fraternitas sugli inni della liturgia delle ore di Avvento e Natale.
Sabato 9 dicembre 2023, presso la Cappella monastica ecumenica "Santi Benedetto e Scolastica", con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum" si è aperta la II domenica di Avvento. Ogni settimana d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sugli Inni della liturgia delle ore propri di questo tempo forte. Il primo Inno, oggetto della condivisione, è stato Magnis Prophetæ vocibus.
Testo integrale della I predicazione sul Magnis Prophetæ vocibus
del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella
Carissimi fratelli e Sorelle, amici ed amiche,
anche sull’inno che guiderà la nostra riflessione di questa seconda domenica di Avvento abbiamo pochissime notizie storiche a nostra disposizione: il suo autore è ignoto ed il secolo di composizione incerto. Lo si ritrova nel Breviario Gotico, attribuito alla Regola di sant’Isidoro che risale al V secolo, ma rieditato nel XIII secolo. Sarebbe, quindi, un Breviario, che porta con sé usi mozarabici e francescani, molto vicini a quelli ambrosiani a riportare l’inno oggetto della nostra odierna meditazione. La controprova sta nel fatto che la Patrologia latina del Migne, al volume 86, colonna 887, riporta il nostro inno tra gli Inni mozarabici. Il testo della Patrologia è quello completo che si riferisce ad una festa di santi martiri che cadeva il 17 dicembre. Ciò vuol dire che l’Inno Magnis prophetae vocibus è entrato nella liturgia delle ore monastica e romana come rielaborazione di un inno per il proprio dei santi martiri.
Come se non bastasse, a complicarne la interpretazione non c’è solo questa strana storia redazionale, ma anche e soprattutto le traduzioni – almeno italiane – che sono veicolate sia nei libri ufficiali sia in sussidi di studio. Ce ne accorgeremo sin dalla prima strofa. E la cosa dispiace, perché questo inno sembra un condensato della teologia e della spiritualità dell’Avvento come capiremo più avanti.
Senza entrare nello specifico del contenuto delle singole strofe, possiamo suddividere il nostro inno in due o tre sezioni. La suddivisione in due sezioni sarebbe questa:
strofe 1-3: la prima venuta del Signore nella carne umana
strofe 4-5: la seconda venuta del Signore nella gloria
(la 6° strofa non si conterebbe perché è la conclusione dossologica, sebbene in questo caso non sia proprio così).
Se però guardiamo bene al contenuto ci accorgiamo che, una più attenta analisi del testo, ci suggerisce una diversa suddivisione, in tre sezioni:
prima sezione: strofe 1 e 2, che parlano della prima venuta del Salvatore nella nostra carne;
seconda sezione: la strofa 3 che funge da passaggio e legame tra la prima e la seconda sezione, il cui contenuto è concentrato nella 4° strofa che parla della seconda venuta nella gloria;
terza sezione: le strofe 5 e 6, che parlano della permanente venuta di Cristo nella storia umana e nella fede dei credenti.
Questa suddivisione tripartita ci permette di comprendere in che senso l’inno risulterebbe una perfetta sintesi della teologia e della spiritualità dell’Avvento come ho anticipato.
Sappiamo – perché lo abbiamo ripetuto quasi allo sfinimento – che l’Avvento è tempo marcatamente escatologico. In esso ci prepariamo al Natale, alla celebrazione del ricordo della nascita umana del Salvatore, perché da quella memoria prenda vigore e forza la nostra speranza e la vigilante attesa del suo ritorno glorioso così come Egli stesso ha promesso. Tra la prima e la definitiva venuta del Cristo, tuttavia, ce n’è un’altra. Cristo è venuto ieri nella carne, tornerà domani nella gloria, e viene oggi nella nostra vita in molti modi. Si realizza cioè quello che la Lettera agli Ebrei (13,8) dice: Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre. Questa è la teologia spirituale dell’Avvento: il recupero della dimensione dell’attesa come specifico della vita cristiana. Il cristiano è colui che attende, ovvero colui che vive in un perenne stato di tensione: tensione verso Cristo, suo redentore e sua speranza; tensione verso il fratello, destinatario dell’amore e della salvezza che passa attraverso il credente e raggiunge ogni uomo e donna; tensione verso se stesso, perché è in Cristo che ogni essere vivente trova il vero senso della sua esistenza.
Attendere, infatti, non vuol dire aspettare, ma tendere a: l’attesa dell’Avvento è operosa: tende a Dio perché lo cerca ovunque; tende all’altro, perché spalanca il cuore al dono dell’amore; tende a se stessi perché ci si scopre profondamente incompleti senza Gesù e senza l’altro.
Fatta questa lettura a partire dalla struttura dell’Inno, possiamo ora analizzarne meglio il suo contenuto e lo faremo attraverso una lettura sinottica del testo latino, della traduzione ufficiale e di una traduzione più fedele al testo che ce ne farà gustare maggiormente la bellezza e pregnanza di significato.
Testo latino
Magnis prophétæ vócibus
veníre Christum núntiant,
lætæ salútis prævia,
qua nos redémit, grátia.
Hinc mane nostrum prómicat
et corda læta exæstuant,
cum vox fidélis pérsonat
prænuntiátrix glóriæ.
Traduzione ufficiale
Le voci dei profeti
annunciano il Signore
che reca a tutti gli uomini
il dono della pace.
Ecco una luce nuova
s’accende nel mattino,
una voce risuona:
viene il re della gloria
Traduzione letterale
A gran voce i profeti
annunziano che Cristo viene, grazia che previene
(che precede) della lieta salvezza,
con la quale ci ha redenti
Da quel momento in poi risplende il nostro mattino
ed i cuori lieti si infiammano,
quando risuona la voce fedele,
che preannunzia la gloria.
È sufficiente questa lettura sinottica per comprendere la profondità del testo. Esso fa riferimento all’annunzio dei profeti della venuta del Salvatore. Un annunzio compiuto con grande voce, come a dire che tutto l’Antico Testamento è ricolmo di questo annuncio profetico del Cristo che viene. Il testo poi parla di «grazia che previene, che anticipa». Ritengo che volutamente l’inno mantenga una polisemia, ovvero una molteplicità di significato. Infatti, il costrutto non ci permette di dire chiaramente se la grazia che viene prima è riferita alle voci dei profeti che annunziano la venuta del Cristo o se questa grazia che previene sia la stessa venuta del Cristo che porta la lieta salvezza.
Sia nell’uno sia nell’altro caso, il senso è particolarmente importante: la grazia dell’Antico Testamento precede quella del Nuovo Testamento, l’annunzio veterotestamentario è una prima grazia riversata sull’umanità e prepara la seconda e più lieta della grazia del compimento neotestamentario. Per comprendere l’evento di Cristo occorre conoscere le Scritture antiche e per cogliere il pieno significato di queste occorre rileggerle alla luce di Cristo. Si tratta dell’insegnamento di Agostino di Ippona: «Novum Testamenteum in Vetere latet; Vetus in Novo patet – il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico; l’Antico è rivelato nel Nuovo» (Quaest. In Hept. 2,73).
Se, invece, «grazia che precede» è riferito alla venuta di Cristo, allora, il testo rimarca la gratuità del dono di Dio. Egli ci ha redenti mentre ancora eravamo peccatori, dice l’apostolo (cf Rm 5,8). Tuttavia, questo principio soteriologico (la redenzione donataci senza nostro merito per iniziativa di Dio) diviene anche principio esistenziale: l’amore di Dio ci precede, la grazia ci è donata gratuitamente, la salvezza è un dono liberale dell’amore misericordioso di Dio che non va conquistato o meritato, ma accolto nella fede.
La seconda strofa mostra gli effetti della salvezza, preannunciata dai profeti e compiuta da Cristo: da quel momento in poi il mattino si accende di luce ed i cuori si infiammano nell’ascolto della Parola, in cui si realizzano per noi gli eventi salvifici. Sembra esserci un eco lucano in questa strofa e precisamente il capitolo 24 del terzo Evangelo con l’episodio dei discepoli di Emmaus. Il Risorto si accosta ai due discepoli e si fa interprete di tutto ciò che nella Scrittura si riferiva a lui. A quel punto il cuore dei discepoli gli ardeva in petto e loro – che avevano chiesto a quel Viandante di fermarsi perché ormai si era fatto sera – non temono più il buio della notte e si rimettono in cammino verso Gerusalemme come se fosse pieno giorno. Nell’ascolto della voce che risuona – nella proclamazione – il cuore si accende e la notte si illumina in un mattino che non si spegne. Perchè chi ascolta la Parola di Dio non è mai nella notte, perché egli ha la sapienza di Dio e la consapevolezza della grazia che lo precede sempre e ovunque.
Testo latino
Advéntus hic primus fuit,
puníre quo non sæculum venit,
sed ulcus térgere,
salvándo quod períerat.
At nos secúndus præmonet
adésse Christum iánuis,
sanctis corónas réddere
cælíque regna pándere.
Traduzione ufficiale
Nel suo primo avvento,
Cristo venne a salvarci,
a guarir le ferite
del corpo e dello spirito
Alla fine dei tempi,
tornerà come giudice;
darà il regno promesso
ai suoi servi fedeli.
Traduzione letterale
Questo fu il primo avvento:
nel quale venne non per punire,
ma per medicare le ferite,
salvando ciò che era marcito.
Ma il secondo ci preavverte
che Cristo è alle porte,
per donare le corone ai santi
ed aprire il regno dei cieli.
La terza e la quarta strofa formano un dittico mirabile. Nella prima – che funge da cerniera tra la prima venuta, di cui si è detto nelle due precedenti strofe, e la seconda venuta, di cui si dirà nella successiva strofa – è ulteriormente sottolineata la modalità della venuta di Cristo, o meglio la sua finalità. Egli è venuto non per punire, ma per sanare, per ricostruire l’umanità che era si era smarrita ed era morta a causa del peccato. Anche in questo caso ci troviamo dinanzi ad un’eco neotestamentario di matrice lucana (Lc 5,31; Lc 15).
La quarta strofa, che tratta precipuamente della seconda venuta di Cristo, si mantiene sullo stesso livello, in cui è sottolineato che Cristo è vicino e che gli sta per venire a dare la corona ai santi ed a spalancare le porte del regno dei cieli. Tuttavia, in modo inspiegabile, la traduzione ufficiale, creando una insopportabile distonia tra la terza strofa e la quarta, pensa di trasformare l’annuncio del ritorno glorioso di Cristo in un avvertimento moralizzante: lo fa con il riferimento alla funzione di Cristo come giudice e l’utilizzo dell’espressione “servi fedeli” mettendo così in contrasto questa parte con tutto il contesto letterario dell’inno. Ed anche a voler vederci del buono, si potrebbe dire che la traduzione ufficiale utilizza la teologia del giudizio presente in Mt 25, da cui è tratta l’espressione «servo buono e fedele». In tal caso dovremmo dire che il traduttore doveva essersi un po’ distratto ed ha utilizzato delle figure matteane in un inno tutto pervaso dell’afflato della misericordia proveniente dal testo lucano. Ma – si sa – “traduttore traditore”…
Ridonando al testo, al suo sapore semantico proprio, non possiamo fare a meno di notare che come la prima venuta nella carne è letta in termini di gratuità, così anche il suo ritorno nella gloria è presentato in termini espansivi, universali. Attenzione, parlo di “termini espansivi” poiché voglio sottoporvi alla luce della mente che nessun cenno è fatto dal testo originale ad esclusione o a limitazione di accesso alle porte spalancate del Regno dei cieli.
Testo latino
Ætérna lux promíttitur
sidúsque salvans prómitur;
iam nos iubar præfúlgidum
ad ius vocat cæléstium.
Te, Christe, solum quærimus vidére,
sicut es Deus,
ut perpes hæc sit vísio
perénne laudis cánticum. Amen.
Traduzione ufficiale
Or sul nostro cammino
la sua luce risplende:
Gesù, sole di grazia,
ci chiama a vita nuova.
Te, Cristo, noi cerchiamo;
te vogliamo conoscere,
per lodarti in eterno
nella patria beata.
Amen.
Traduzione letterale
È promessa una luce eterna
ed è fatto risplendere un astro salvatore;
già un’alba splendente
ci chiama al diritto dei “celesti”.
Soltanto te, Cristo, desideriamo
vedere, così come sei, Dio:
affinché questa eterna visione
sia un perenne cantico di lode. Amen.
La quinta e sesta strofa vanno ben comprese. Se lette superficialmente, infatti, di esse si coglie solo il carattere escatologico e così verrebbe meno la struttura tripartita che abbiamo adottato per la nostra indagine. Esse, quindi, non riguarderebbero la cosiddetta terza venuta di Cristo, cioè quella nella storia, nell’oggi.
L’eterna luce che è stata accesa è evidentemente la parola dei profeti nel suo compimento in Cristo. L’Astro che è stato fatto ormai risplendere è Cristo stesso che porta la salvezza e la redenzione gratuite. Queste luci sono state accese ed illuminano il cammino dei credenti, affinché l’alba nuova e splendente li chiami allo ius caelestium. Questa espressione è particolarmente significativa per comprendere il contenuto di questa strofa. Cosa sarebbe questo diritto dei celesti, diritto dei divinizzati? Potrebbe alludere al fatto che la vita eterna è oramai – in ragione del battesimo e della caparra dello Spirito – un diritto ereditario per i credenti (Ef 1,13-14). Tuttavia, potrebbe significare anche un’altra cosa, e cioè che la luce accesa dalla parola dei profeti e dalla redenzione operata da Cristo, chiama allo ius coloro che voglio vivere da celesti. Come la giustizia di Cristo è stata un dono gratuito del suo amore, così quelli che vogliono essere divinizzati da lui devono operare una giustizia terrena che redima l’uomo, lo riabiliti, che lo rialzi dalle miserie in cui è caduto o, peggio, è stato gettato ed abbandonato. Il Cristo viene nella storia ogni qual volta l’uomo e la donna vivono secondo la sua logica che è stata logica di dono, di restituzione della vita, della dignità. Il Regno è già aperto in tutti coloro che si fanno annunziatori ed operatori dello ius così come lo ha vissuto e testimoniato Gesù, nella sua carne, e come lo compirà il Signore, nella sua gloria. Tra quella carne e quella gloria di Cristo, c’è la nostra storia, ci siamo noi che siamo chiamati a scegliere se vivere nella luce che ci è stata accesa o ripiombare nel buio, cadendo nella ingiustizia.
Solo così possiamo capire la sesta strofa, che potremmo quindi spiegarla così: Solo te cerchiamo, o Cristo! Desideriamo vederti così come sei Dio, ovvero come colui che gratuitamente dà e generosamente compie la giustizia riabilitando l’uomo e la donna. Perché questa eterna visione, cioè questo costante impegno di portare sulla terra la tua giustizia, che redime e solleva, sarà il nostro perenne cantico di lode. Vivendo secondo la tua logica, ridonando libertà, diritto, dignità a tutti noi saremo il perenne cantico di quell’umanità, che era marcita, ma che tu sei venuto a far rivivere! Amen
dom Tonino +
Qui sotto il video integrale della predicazione
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PAX
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