Venerdì 26 novembre 2021 si è inaugurato il tempo d'Avvento proposto Christiana Fraternitas con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum".
Ogni venerdì d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sul Credo ovvero il Simbolo Apostolico.
Testo integrale della I predicazione sul Simbolo Apostolico
del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella
Cari Fratelli e Sorelle,
nel chiedermi su cosa fosse necessario predicare in questo Tempo d’Avvento, mi sono venute in mente tante tematiche, ma tutte necessitavano di una che veniva ancor prima di tutte: noi, la Chiesa cosa crede? Il Tempo d’Avvento è una sosta che ha lo scopo di ricentrare la nostra vita nel contesto temporale e spirituale in cui viviamo e cerchiamo di viverci come Chiesa. Per fare questo necessitiamo allora di rispondere alla domanda: noi, la Chiesa in cosa crede? Sappiamo che il tempo di Avvento non è la semplice preparazione alla commemorazione del Natale del Signore Gesù, esso invece ci aiuta ad abitare l’attesa dei credenti, dei profeti e del popolo dell’alleanza. Essi attendevano la venuta storica del Messia; noi attendiamo nella speranza il suo ritorno glorioso. Per questo motivo ho deciso di dedicare questo tempo alla riflessione sul credo, sul simbolo apostolico.
1. La crisi di speranza è crisi di fede
Nella Lettera agli Ebrei è detto: la fede è fondamento delle cose che si sperano (11,1). Ciò vuol dire che la generale crisi della speranza è, in fin dei conti, una crisi della fede.
Nella stessa comunità cristiana il Natale ed il suo tempo di preparazione, l’Avvento, hanno finito col diventare un poetico e malinconico ricordo dell’evento dell’Incarnazione, rivestito di ornamenti e di luci, ma hanno perso del tutto il loro originario carattere di tempo dell’attesa, la loro capacità di provocare la profezia della speranza.
Sono convinto che questo dipenda fondamentalmente dalla crisi della fede che è l’essenza del nostro credo: cosa speriamo? Possiamo sperare in qualcosa se in fondo non crediamo in qualcosa?
Sta tutto qui il motivo della scelta del tema di questo Avvento: il Simbolo apostolico; perché riscopriremo la gioia della speranza, solo quando ci riapproprieremo della forza della nostra fede, del nostro credo, che è compito non del tutto facile nel periodo nel quale viviamo. È necessario ritrovare cioè motivi validi, solidi su cui rifondare la nostra fede nel Dio rivelato da Gesù. Non farlo, significherebbe vivere una religiosità meschina e povera. Non farlo sarebbe lasciar passare il Tempo d’Avvento privo della operosità alla quale fondamentalmente ci richiama.
Oggi ci vengono poste domande radicali: ha ancora senso usare le parole “io credo”? In questo clima di incertezza, di sfiducia e diffidenza c’è qualcosa o qualcuno nel quale possiamo riporre la nostra fiducia? L’esperienza stessa del fidarsi è stata così minata alla radice che sembra in fondo di non potersi più affidare a nulla e nessuno. Tutto sembra cadente e sgretolato: la capacità dell’umanità di riconoscersi in ideali condivisi, le grandi narrazioni politiche che davano affidabilità alle istituzioni pubbliche ed a chi ne portava la responsabilità, i valori della fede messi in dubbio dall’esistenza ipocrita di chi, invece, nelle comunità dovrebbe essere saldo punto di riferimento, la validità della parola data (magari con una stretta di mano) che valeva più di un atto notarile e che oggi non ha più senso alcuno. Queste esperienze metafisiche, valoriali, sociali e teologiche hanno perso la loro stabilità affidabile. Verrebbe da dirsi che forse ci è rimasta soltanto la possibilità di affidarci al dato oggettivo della scienza: ma, anche lì, se guardiamo bene, le cose non vanno meglio. Sembrava che la tecnologia e, di conseguenza, la meccanicizzazione del mondo avrebbero dovuto spalancare dinanzi a noi un radioso futuro di progresso; ed invece ci troviamo dinanzi al tempo che sta per scadere proprio per il disastro ambientale causato dalla tecnologia umana. La scienza sembra vacillare su questioni fondamentali (tumore, HIV, CoVid 19): talvolta viene voglia di credere a chi afferma che le cure ci sarebbero, ma che non conviene produrle, perché cesserebbe una buona fetta del mercato farmaceutico.
In generale, poi, la speranza della vita si è così ravvicinata, ristretta, ridotta, che alla fine si è rattrappita: dalla speranza nella vita eterna è diventata la speranza di vivere un po’ di più, possibilmente con un “quanta basta” di salute.
2. «Voce di uno che grida nel deserto»: Io credo!
Eppure noi, la Chiesa, ci ostiniamo a dire, anzi a ripetere: io credo! – noi crediamo!
Rimaniamo come profeti che gridano nel deserto della sfiducia. Ed usiamo parole potenti: credo! Che qui non è uno dei cosiddetti verba putandi, cioè quelli che esprimono un’opinione e che, pertanto, richiedono l’uso del congiuntivo (per esempio: io credo che sia…). Qui si tratta di un verbo dichiarativo di certezza: io credo che Dio è uno ed è Padre e credo in Lui!
Esiste, quindi, nella Chiesa, ancora la possibilità di credere e sperare, anzi di sperare credendo e di credere sperando. Ecco perché la Chiesa attende: il suo Salvatore è già venuto, storicamente e certamente, e tornerà rinnovando la fedeltà alle sue promesse. Da qui nasce il bisogno di tornare a ridirci le parole della fede, quelle che hanno dato così tanta forza a generazioni di uomini e donne, bambini e anziani, che sono giunte – nonostante tutto – fino a noi.
Cari Fratelli e Sorelle, ci prenderemo queste quattro settimane d’Avvento per riflettere su quella professione di fede, conosciuta come Simbolo degli Apostoli. Il nome è suggestivo e deriva da una leggenda, le cui origini si sono smarrite nel tempo. E forse proprio a questa “mancanza d’autore” si deve la sua antica fortuna, come se si trattasse di una narrazione acheropita. Secondo questa leggenda, gli Apostoli radunati pronunciarono ciascuno una delle dodici frasi del cosiddetto Simbolo Apostolico. Ovviamente la diretta attribuzione agli apostoli stessi era un espediente, tanto noto quanto diffuso, di dare autorità ad una sede, ad un autore o ad un testo (come in questo caso): se era stato a contatto con gli apostoli o da essi era stato fondato o scritto, allora non poteva che essere espressione della vera e genuina fede della Chiesa di sempre. Il bisogno di far risalire agli apostoli un testo, per garantirgli autenticità e veridicità indiscusse, tuttavia, in modo implicito ci mette davanti alla condizione storica in cui quel testo doveva essere nato o per lo meno in cui si diffuse in modo più ampio: doveva essere necessariamente un tempo in cui dottrine e posizioni sulla fede cristiana si erano così tanto sviluppate da entrare in contrasto l’una con l’altra. Doveva trattarsi di posizioni estremamente differenti le une dalle altre, tanto da doverle in qualche modo catalogare tra quelle coerenti alla fede apostolica e quelle incoerenti con essa. Attribuire una formula di fede agli apostoli doveva in qualche modo renderla una sorta di regula fidei sulla scorta della quale valutare la ridda non solo di differenti interpretazioni della fede ma anche di differenti tipi di simboli che erano veicolati all’interno delle comunità che si rifacevano a Gesù e tra di esse.
3. I dati biblici
Fissare questa regula significava sintetizzare in articoli l’intero contenuto della fede. Già Israele aveva sintetizzato la propria fede in testi scritturistici di differente genere letterario. Si pensi alla formula sintetica della professione di fede nella unicità di Dio (conosciuta come Shema Israel) in Dt 6,4-5, ma anche ai testi di homología (confessione) storica (cf Dt 6,20-24; 26,5-9; Gs 24,2-13) o innica (cf Sall 78.105.136). Da sempre il credente di ogni fede avverte il bisogno di poter dire “in poche parole” l’essenziale della propria fede, del contenuto di ciò che crede.
Anche nel Nuovo Testamento troviamo tracce di antiche e sintetiche professioni di fede. A partire dai dati neotestamentari possiamo ritenere che la primordiale professione di fede fosse: Gesù è il Cristo! O Gesù è il Signore!
Le due formule sono ampliamente attestate e per questo non possiamo ripercorrere tutti i testi. Tuttavia, ne vogliamo analizzare uno per espressione, solo a titolo esemplificativo.
La prima formula Gesù è il Cristo trova una ripetuta attestazione nella prima Lettera di Giovanni, nella quale tuttavia il versetto 22 del secondo capitolo assume una rilevanza del tutto particolare. Lì l’autore dice: Chi è dunque il mentitore? Nessun altro se non la persona che nega che Gesù è il Cristo. Circa sette volte, in questa Lettera, Giovanni parla di mentitori (pseustes) e lo fa sempre senza articolo. Qui, invece, usa l’articolo (o pseustes): significa che qui c’è il mentitore che propugna la menzogna per eccellenza: ovvero la negazione che Gesù è il Cristo! Se l’autore usa questo linguaggio ciò vuole dire non solo che nel contenuto della frase (ovvero in ciò che essa attesta) si trova una verità nella quale riconoscere il contenuto assoluto ed insuperabile della fede, ma anche che nella sua formulazione letteraria i membri della comunità dovevano avere una dichiarazione nella quale riconoscersi appunto come membri della medesima comunità. Giovanni difende il contenuto della fede (che è la cosa essenziale) ma lo fa attraverso un enunciato che doveva essere conosciuto da tutti. Non sta spiegando qualcosa di nuovo, non sta offrendo una interpretazione; sta ponendo uno spartiacque netto tra verità e menzogna e deve necessariamente trattarsi di qualcosa che è così chiara a tutti che c’è poco da disquisire sulla capacità di vincolare di questa affermazione: Gesù è il Cristo doveva quindi essere non solo un contenuto ma anche un enunciato (una professione di fede) nella quale la Comunità tutta aveva da tempo imparato a riconoscersi.
Se ci trasferiamo nel mondo delle comunità paoline, la questione non è molto differente. Prendiamo in esame il noto inno cristologico della Lettera ai Filippesi 2,6-11). Quell’inno si conclude con le parole: ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore a lode di Dio Padre. In questo testo si dice che la signoría data a Cristo dal Padre è la conseguenza del suo abbassamento volontario. Il testo è suddiviso in due parti: l’abbassamento (la kenosis) del Figlio di Dio che non “rapisce per sé”, non trattiene per se stesso il suo essere divino, ma si abbassa e assume la condizione dello schiavo (quella che era propria dell’uomo) abbassando se stesso fino all’estremità della condizione umana, cioè la morte ignominiosa della croce. «Per questo» Dio lo ha «sopraesaltato» e gli ha dato il Nome al di sopra di ogni altro Nome. A questa esaltazione, che nasce dalla umiliazione, corrisponde la universale lode del creato: ogni ginocchio ovunque (cielo, terra, sotto terra) si pieghi ed ogni lingua professi la signoria di Gesù.
Ciò che accomuna le due professioni di fede (giovannea e paolina) è l’affermazione della identità di Gesù, Cristo e Figlio di Dio, ma sempre in relazioni a noi. La rivelazione della sua identità divina – infatti - porta con sé la salvezza: Dio, che si manifesta in ciò che egli è in se stesso, contemporaneamente è Dio che si dà a noi.
Possiamo dire che queste due formule cristologiche, brevi e sintetiche, costituiscono un primo stadio primitivo della professione di fede cristiana.
Il secondo stadio è costituito da quello che è chiamato kerygma e la cui formulazione si deve di nuovo all’apostolo Paolo. Il kerygma era il grido pubblico, l’annuncio pubblico ad alta voce – fatto dal keryx (banditore, araldo, urlatore) – di una notizia che riguarda tutti, spesso legata ad un fatto vittorioso. Alla luce di queste note di filologia, è facile comprendere perché Paolo abbia selezionato ed usato questa parola per indicare l’annuncio essenziale della fede: si tratta di un annuncio che riguarda tutti e che l’apostolo-banditore (che ha ricevuto il mandato di proclamarlo a tutti) diffonde nel mondo come notizia della vittoria pasquale di Cristo.
Anche in questo caso, prendiamo un solo testo di riferimento: 1 Cor 15,1-5 che è la formula neotestamentaria sintetica e più antica del kerygma. Il contesto comunitario, a cui le parole dell’apostolo sono rivolte, è complesso: partito Paolo da Corinto, una corrente gnostica si era fatta strada nella comunità. Alcuni insegnavano che non c’era da attendere una vita eterna o una risurrezione universale, ma che gli spirituali (carismatici e gnostici, cioè coloro che erano giunti a una superiore conoscenza di Cristo) erano già risorti. Se, poi, di risurrezione si doveva parlare, essa riguardava l’elemento nobile dell’uomo, cioè l’anima e non il corpo. Questo aveva portato a delle degenerazioni all’interno della comunità: c’era chi ricercava i carismi, perché questo era il segno dell’appartenenza ad una schiera di eletti sopraelevati anziché un servizio ecclesiale alla comunità, e c’era chi, non valutando la santità del corpo e la sua destinazione alla risurrezione, l’aveva svilito in un uso immorale, come il caso limite dell’incesto, contro cui lo stesso apostolo prende decisa posizione (cf 5,1-13). Dinanzi a queste degenerazioni della fede, l’apostolo risponde con la fede di sempre, sintetizzata nel kerygma.
Anzitutto questa formulazione e questo contenuto della fede non sono invenzione dell’apostolo, infatti lo stesso dice: vi trasmetto ciò che a mia volta ho ricevuto. Paolo, pur conscio che la sua elezione viene direttamente da Gesù, sa che il contenuto della fede ed il rapporto con il Signore passano attraverso il suo corpo che è la Chiesa. Gesù gli si è manifestato direttamente, ma gli ha inviato dapprima Anania e poi la comunità di Damasco, e poi Barnaba e poi gli apostoli ed i fratelli e sorelle, assieme ai quali ha compreso egli stesso la fede, raffrontandola alle Scritture che molto bene conosceva. La comunità, per Paolo, era il grembo materno, la culla ed il campo di verifica attraverso il quale confermare l’autenticità della sua fede e del suo insegnamento. Pur essendo apostolo, si riconosce come membro di un corpo.
Il contenuto di questa fede germogliata, maturata e trasmessa è espresso attraverso quattro verbi: morì, venne sepolto, fu risuscitato, si fece vedere (15,4-5). Ancora una volta, sebbene in un testo più esteso, il centro della fede è cristologico: Gesù è l’oggetto della professione di fede e, al tempo stesso, il soggetto di quelle azioni salvifiche da cui nasce la fede. Certo, è indicata anche l’azione del Padre in quel passivo teologico, fu risuscitato, e si fa così spazio un ampliamento binario (Figlio e Padre) nella professione della fede. Queste azioni, poi, sono sempre in favore dell’umanità: morì per i nostri peccati e si fece vedere perché noi conoscessimo e credessimo. Gesù è il Signore, perché è morto per noi ed è risuscitato per la nostra giustificazione!
In queste primitive professioni di fede neotestamentarie c’è poco di dogmatico. Esse sono protese a ricordare e trasmettere l’esultanza infinita di un incontro, il trasalimento gioioso che nasce dalla consapevolezza di essere stati redenti, a caro prezzo e in ragione di un amore – quello di Dio – che è umanamente inconcepibile, incommensurabile e che pure è certo e sicuro, nonostante tutto.
Queste primitive professioni di fede ci dicono, allora, che nel mondo c’è ancora qualcuno/qualcosa a cui poter appigliare la propria vita; esiste un approdo sicuro che non viene mai meno e non perché ho bisogno di crederlo, ma perché ne ho la prova storica e sicura: Lui la sua vita per me l’ha già data!
Infine un terzo stadio di formulazione sintetica della fede è quello ternario o trinitario, anch’esso nato con molta probabilità nel contesto battesimale.
È fondato ritenere che la prima formula battesimale fosse una formula cristologica, del tipo: ti battezzo (o sei battezzato) nel nome del Signore Gesù Cristo. Sempre la prima Lettera ai Corinti ci offre un importante indizio in questo senso. Paolo rimprovera la comunità di essersi divisa in fazioni, fatte risalire o al predicatore di riferimento o più precisamente al proprio battezzatore. Come primo argomento di quella Lettera – segno questo che era un argomento che gli bruciava dentro – egli stigmatizza le divisioni e le discordie interne alla comunità: «ciascuno di voi dice: “io sono di Paolo!”, “io invece di Apollo”, e “io di Kefa”, e “io di Cristo”» (1,12). Poi domanda: «foste battezzati nel nome di Paolo?» ed aggiunge: «ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio, perché neppure uno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome» (1,13-14). Le parole non sono scelte a caso: se l’apostolo afferma implicitamente che tutti i credenti sono stati battezzati nel nome di Cristo evidentemente questo deve avere un senso ben preciso. Dal punto di vista teologico, significa che il battesimo li ha immersi nel Nome (cioè la persona, secondo il significato semitico del sostantivo nome) di Gesù, ma anche che evidentemente questa doveva essere la formula primitiva del lavacro e della immersione battesimali.
È invece in Mt 28,19 che fa la sua comparsa la formula trinitaria: «andando, fate discepoli tutti i pagani, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Questa stessa formula è presente nel testo della Didachè, documento giudeo-cristiano – pensate - della fine del I secolo e per alcuni persino anteriore al vangelo di Matteo, in cui si dà questa disposizione: «Riguardo al battesimo, battezzate così: dopo aver esposto tutti questi precetti, battezzate in acqua viva (ndr, che scorre, ovvero un corso d’acqua) nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; se non hai acqua viva, battezza in altra acqua (ndr probabilmente una piscina o una vasca per il bagno delle case dei patrizi); se non puoi in fredda, in calda (ndr alle terme). Se non hai né una né l’altra, versa sul capo tre volte acqua nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (7,14). Le indicazioni sono interessanti: dapprima sembra voler chiarire il tipo di acqua da usarsi, poi praticamente dice che qualsiasi acqua va bene; ciò che importa e che non deve mancare è la formula trinitaria.
Ed è proprio da questa formula, da questo terzo stadio delle primitive professioni di fede, che avrà origine – soprattutto in ambito battesimale – la formula del simbolo degli apostoli e delle altre professioni di fede di cui dobbiamo occuparci lungo questo percorso d’avvento.
4. Conclusione
Volendo concludere, sebbene in modo provvisorio, questo primo passo della nostra riflessione, cosa abbiamo compreso?
Una professione di fede non è anzitutto una formulazione dogmatica, non è una dichiarazione di un asettico contenuto teologico. È una relazione: anzitutto la relazione di Gesù con noi. È lui che si è detto e si è dato a noi, per noi e per la nostra salvezza. E per questo, Lui, è credibile ed affidabile. Possiamo ancora credere (e sperare) perché c’è uno (Dio in Gesù) che si occupa e si preoccupa per noi. Solo di conseguenza la professione di fede costituisce la nostra relazione a Lui: come accoglimento di un amore che ci precede, di una verità che ci guida, di una compagnia e presenza che cammina con noi e non ci lascia mai soli. Ridirci le parole con cui professiamo la fede vuol dire, allora, riscoprire anzitutto che siamo i destinatari di un dono d’amore inatteso e sicuro, per cui vale la pena scommettere ancora la vita e grazie al quale ci si può ancora fidare ed affidare. Amen.
dom Tonino +
Qui sotto il video integrale della predicazione
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