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I settimana d'Avvento. Ecco lo sposo, andategli incontro! (Mt 25,6) Avvento: il tempo della Chiesa

Venerdì 15 novembre 2019 si è inaugurato il tempo d'Avvento proposto dall'Ordine Monastico Ecumenico Christiana Fraternitas ispirato, per il numero delle settimane che lo compongono, alla tradizione ambrosiana.

Ogni venerdì d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sulla preghiera del Padre nostro.

La Celebrazione Ecumenica della Parola è arricchita dal lucernario tratto dalle Constitutiones Apostolorum e dal canto delle Antifone Maggiori (comunemente dette: Antifone "O").





Testo integrale della I meditazione sul Padre nostro del nostro

Rev. mo Padre Abate dom Antonio Perrella

Cari Fratelli e Sorelle,

questa sera la nostra Comunità inizia il tempo forte dell’avvento. Non innanzitutto un tempo di preparazione alla commemorazione del Natale del Signore, ma un tempo pedagogico che ci rimanda alla reale, irriducibile, fondamentale dimensione escatologica della Chiesa di Dio: attendere il ritorno del Signore e cooperare all’avvento del suo Regno. La Chiesa non è realtà ultima, ma penultima: essa rimanda sempre ad un di più che deve venire e che non può darsi lei da sola, ma deve attendere come dono da Dio.

Questa dimensione dell’attesa e del non bastare a se stessa, dalla Chiesa passa a noi. Neppure noi bastiamo a noi stessi, nessuno di noi è sufficiente a se stesso. Ci portiamo nel cuore un profondo e insopprimibile bisogno di essere completati. Il tempo di avvento è il tempo della riscoperta di cosa o di chi riteniamo che possa completarci, che possa darci la pienezza del nostro essere. Solo quando accettiamo che sia Dio ad essere la pienezza dell’uomo, solo allora siamo sulla via della nostra piena realizzazione. In questo tempo possiamo umilmente riconoscere con il salmista: «Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene. Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 15). L’espressione “parte di eredità” non voleva dire una parte dell’eredità, ma il meglio dell’eredità, il proprio dell’eredità spettante in quanto figlio. In questo modo il salmista sta dicendo che egli riconosce che solo Dio gli può dare la pienezza della sua esistenza e della sua dignità, dignità di figlio.

Vivere questo tempo, quindi, vuol dire ritrovare la nostra intera dimensione spirituale, cioè ricercare l’essenziale della nostra spiritualità che è il cercare quella finestra d’accesso attraverso cui “intravvedere” Dio e da Dio lasciarsi raggiungere. Il testo evangelico, che ci accompagnerà nelle sette settimane d’avvento, sarà quello della preghiera del Signore. Cooperare all’avvento del Regno e attendere il ritorno del Signore sono cose che insinuano nel cuore del credente una domanda: cosa debbo fare? E come? La risposta, come avremo modo di meditare in queste settimane, non sta nel compiere atti religiosi come le devozioni, il moltiplicare giaculatorie, bensì nel disporsi, aprirsi, scoprire la capacità che grazie a Gesù Cristo abbiamo innestata nella carne e nello spirito e cioè di relazionarci al Creatore come cosa a lui preziosa: suoi figli! Suoi figli!

La Preghiera del Signore ci è giunta attraverso due evangelisti (Matteo e Luca). Le loro redazioni non solo contengono differenze testuali rilevanti, ma si collocano anche in contesti differenti. Anche questi contesti, con le loro specificità, sono rilevanti. Matteo dice che la Preghiera è insegnata da Gesù spontaneamente, Luca invece dice che essa è la risposta di Gesù alla domanda di un [non specificato] discepolo: «Insegnaci a pregare». In un modo o nell’altro, tanto che l’iniziativa parta da Gesù, tanto che parta da un discepolo, rimane un dato determinante: l’uomo si porta dentro una insopprimibile sete, che può essere estinta solo dalla ricerca di Dio, dal dialogo con Lui. L’uomo si porta dentro una profonda nostalgia che Dio solo può appagare: «Signore, ci hai fatto per te ed il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te» (Agostino di Ippona, Confessioni). Questa sete che l’uomo ha di Dio, poi, è il riflesso della sete che Dio ha dell’uomo (cf Gv 19,28): lo ha cercato, lo cerca, lo vuole trovare.

Senza entrare ancora nel testo, fermiamoci ai contesti evangelici.

In Luca si ritrova una forma più asciutta rispetto a Matteo. La sinteticità della prima porta alcuni esegeti a ritenere che essa sia più antica per contenuto. La seconda, invece, se da un lato fa pensare ad una redazione più tardiva per il contenuto, d’altro lato, però, il suo linguaggio rimane più arcaico di quello di Luca. Non è, quindi, semplice stabilire quale sia la forma più antica.

In merito al contesto in cui vengono collocate le parole di Gesù sulla preghiera del Padre nostro, possiamo fare alcune interessanti considerazioni.

Matteo colloca la Preghiera del Padre nostro al capitolo 6 e, quindi, all’interno del discorso della montagna, che comprende l’arco dei capitoli da 5 a 7. In questo discorso Matteo raccoglie redazionalmente molteplici insegnamenti su differenti tematiche, che Gesù certamente ha pronunciato in momenti differenti, ma che egli ritiene opportuno tenere assieme perché costituiscono la nervatura portante della fede cristiana. Se le beatitudini offrono l’insegnamento sulla specifica visione morale del cristianesimo, che non è assimilabile a nessun’altra esperienza precedente, neppure a quella giudaica, radicata sul comandamento e sul precetto, la preghiera del Padre nostro non è da meno, in quanto inaugura un nuovo e specifico modo di relazionarsi a Dio: Non più come Signore, Creatore e Re, bensì come Padre. In questo modo, l’esperienza di fede, vissuta ed insegnata da Gesù ai suoi discepoli, non ha paralleli in altre precedenti esperienze. Al discepolo, infatti, non è trasmesso anzitutto un contenuto dottrinale o morale o religioso, né anzitutto un contenuto di preghiere da dire, bensì uno stato ed un atteggiamento. Il discepolo è tale perché è reso partecipe del rapporto, unico, che Gesù - il Figlio - ha con Dio - il Padre. Discepolo, quindi, non è più chi conosce la dottrina del maestro e ne segue gli insegnamenti morali; discepolo è, invece, chi accoglie Dio come suo Padre e vive secondo il cuore del Padre traendone così la beatitudine della vita. Le Beatitudini, infatti, non insegnano un atteggiamento solo “passivo” ma anche uno “attivo”. Per esempio, quando dice: “beati gli afflitti, perché saranno consolati” (Mt 5,4), Gesù non sta soltanto invitando a fidarsi di Dio nella afflizione perché egli ci consolerà, ma ci sta insegnando ad essere noi consolatori degli afflitti. Il discepolo così vive i sentimenti del Padre ed è sempre beato, sia che si trovi in stato di afflizione sia che si faccia operatore di consolazione. Il contesto in cui Matteo inserisce il Padre nostro, quindi, non è anzitutto quello dell’insegnamento di alcuni contenuti, ma quello in cui si sta manifestando che Gesù trasmette ai discepoli una relazione, quella con il Padre suo, che attiva uno specifico dinamismo di vita, vita ricevuta e vita donata, trasmessa ai fratelli.

Matteo, inoltre, colloca questo insegnamento all’inizio del ministero di Gesù, quasi a porre le condizioni per chi vuole essere suo discepolo.

Luca, invece, colloca l’insegnamento della Preghiera a Gerusalemme, quindi a ministero inoltrato. Ed anche il suo contesto letterario ci mostra un fatto determinante.

La preghiera in Luca è la terza di tre pericopi successive: la parabola del buon samaritano - la carità - (10, 29-37); il dialogo con Marta e Maria - l'ascolto della Parola - (10,38-42); la preghiera del Padre Nostro (11,1-4). Quasi a mettere in luce che carità, ascolto della Parola e preghiera sono inscindibili.

Anche questo fatto è innovativo, perché al tempo di Gesù (e forse ancora oggi…) la relazione con Dio era ritenuta un assoluto, ovvero una relazione di obbedienza ad alcuni precetti e doveri religiosi, che non si apriva e non nutriva altre relazioni. Al massimo le determinava: per la Legge di Dio, per esempio, non si entra in relazione con gli impuri. Invece, Gesù, insegnando la preghiera dopo la parabola del buon samaritano insegna l’esatto contrario e cioè che entrare veramente in relazione con Dio significa anche e sempre entrare in relazione con tutti gli uomini, soprattutto con coloro che erano esclusi da questa relazione e che adesso diventano addirittura il paradigma e l’esempio di una corretta relazione con Dio e con gli altri. Anzi, proprio la parabola del buon Samaritano, ci dice che la relazione con Dio è vera solo se la relazione con gli uomini è messa al primo posto. In quel testo, il sacerdote ed il levita vanno oltre, perché non devono contaminarsi e devono andare a Gerusalemme. Il precetto religioso deturpa la relazione umana, e quindi deturpa la relazione con Dio. Il samaritano, invece, facendosi carico dell’uomo ferito, è l’unico che entra in relazione con Dio, perché si fa immagine e strumento del Dio che si prende cura dell’uomo ferito.

Ciò che accomuna i due testi evangelici, però, è la sobrietà delle parole e l’inserimento in una relazione attiva e vitale. La preghiera non è un cumulo di parole, ma è anzitutto un afflato del cuore che cerca, perché cercato; che si pone in cammino, perché seguito, anzi inseguito; che si raccoglie per dilatarsi; che invoca e chiede per poi donare; che ama perché si lascia amare; che tende le braccia, verso altre braccia già tese, quelle di Dio; che chiama Dio con il nome di Abbà – Papà, perché ha il coraggio di sentirsi chiamare “figlio”. Amen.




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