Sul Conditor alme siderum: "Celebriamo Cristo che è venuto, perché con lui è giunta a noi anche la vera umanità: quella che sa donarsi, fino all’abbassamento di se stessa, perché è lì, nell’umiltà del dono, che risiede la vera gloria di Dio e dell’Uomo. Celebriamo Cristo che è venuto e ci ha mostrato il volto umano di Dio ed il volto divino dell’uomo". Sono le parole tratte dall'omelia dell'Abate dom Antonio Perrella che hanno aperto le predicazioni del Tempo d'Avvento alla Christiana Fraternitas.
Domenica 27 novembre 2022, presso la Cappella monastica ecumenica "Santi Benedetto e Scolastica", si è inaugurato il tempo d'Avvento alla Christiana Fraternitas con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola arricchita dal lucernario tratto dalle "Constitutiones Apostolorum". Ogni settimana d'avvento l'Abate dom Antonio Perrella terrà la predicazione sugli Inni della liturgia delle ore propri di questo tempo forte. Il primo Inno, oggetto della condivisione, è stato Conditor alme siderum.
Testo integrale della I predicazione sul Conditor alme siderum
del nostro Rev. mo Abate dom Antonio Perrella
1. Carissime Sorelle e Fratelli, cari amici ed amiche, uno dei patrimoni teologici e spirituali più ricchi della tradizione di preghiera cristiana sono gli Inni.
Oggi noi conosciamo perlopiù gli Inni della Liturgia delle Ore, ma il patrimonio letterario e musicale in nostro possesso ci lascia intendere che la tradizione degli inni sia molto più vasta e ricca.
Già la prima comunità cristiana doveva conoscere un patrimonio innico. Forse, reinterpretando la originaria tradizione ebraica, la Chiesa delle origini ha naturalmente dato vita a un proprio deposito di inni e cantici che esprimevano la venerazione e la devozione del popolo verso Dio.
Già nel Salmo 65 troviamo un accenno ad una specifica forma di lode, chiamata «hymnus»: te decet hymuns, Deus, in Sion – a te si deve la lode (l’inno), o Signore, in Sion.
Occorre che ci soffermiamo un po’ allora su questo versetto, considerandolo all’interno di tutto il Salmo 65, che è un gioiello di sintesi dell’Antico Testamento. In esso si ritrova una molteplicità di accenti: dalla lode a Dio per la bellezza del creato all’estasi dinanzi ai doni del suo perdono e della sua giustizia. Cosmo e storia sembrano intrecciarsi; sembra quasi che il salmista voglia cantare per la grandiosità delle opere che Dio ha compiuto nel cosmo, nel libro meraviglioso della natura, e nella storia, un libro talvolta più difficile da leggere, ma nel quale pure si ritrovano i segni del passaggio e dell’intervento di Dio. Tuttavia, questo Salmo, se da un lato loda Dio per quanto ha già compiuto, proprio in questo fare memoria del già fatto da Dio, dilata il cuore all’attesa di quanto Dio non ha ancora compiuto e che certamente compirà per il suo popolo, in favore del suo popolo, perché il suo popolo abbia vita. Nella memoria lodante, memoria innica, c’è sempre un senso di attesa, una vena escatologica. Se Dio ha compiuto opere grandi – sembra dirci il Salmo – chissà cos’altro dovremo attenderci dal suo amore misericordioso.
Alcuni autori ritengono che questo salmo si collochi nell’epoca post-esilica. Il popolo d’Israele, ha appena assaporato la gioia di essere rientrato nel possesso della terra promessa e già assapora la gioia di una nuova stabilità, di una ricostruzione. Anche il riferimento al culto, ai sacrifici, ci fa pensare ad un popolo che ha riedificato il suo tempio e può tornare a cantare i canti del Signore.
Nell’inno c’è sempre tutto questo: la memoria delle opere di Dio, la lode gioiosa per esse e la speranza che attende le ulteriori manifestazioni della infinità bontà di Dio.
È questo il motivo biblico, teologico e letterario che mi ha indotto a dedicare questo Tempo Avvento alla meditazione sugli Inni da condividere con voi, perché essi in fondo nella loro struttura intrinseca corrispondono perfettamente al senso del Tempo d’Avvento: prepararsi cioè alla memoria della prima venuta di Gesù nella carne, per ricordarci che egli – già venuto – pure tornerà nella sua gloria per dare compimento al suo Regno. L’Avvento è tempo di attesa e di memoria.
2. Anche il Nuovo Testamento conosce gli inni. Più volte Paolo invita le comunità, da lui evangelizzate, ad elevare inni e cantici spirituali (cf Ef 5,19; Col 3,16) e, proprio nei testi delle Lettere apostoliche, troviamo alcuni inni che forse potrebbero essere la testimonianza di Inni, precedenti alla Lettere stesse, che gli autori citano nei loro Scritti, che poi formeranno il canone del Nuovo Testamento. Gli esempi sono molteplici e non possiamo, certo, analizzarli tutti: basti pensare agli inizi dell’Evangelo di Luca, nel quale l’autore pone sulla bocca degli angeli un cantico di lode, che la comunità cristiana, destinataria di quel Vangelo, doveva con tutta probabilità conoscere, forse perché lo cantava nei suoi raduni di preghiera e, quell’inno lo ricordiamo tutti anche noi: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini da lui amati» (Lc 2,14). Il grande esegeta dell’Apocalisse, Ugo Vanni, riteneva che tutte le visioni, narrate dall’autore, fossero come ricordi gioiosi e nostalgici dell’anziano presbitero dei tempi in cui si radunava assieme alla sua comunità per celebrare il culto e le lodi del Signore. Del resto, come non ritenere un Inno liturgico, una centonizzazione di citazioni e allusioni veterotestamentarie, i vv. 3-4 del cap. 15 dell’Apocalisse: «Grandi e mirabili sono le tue opere, Signore Dio onnipotente; giuste e vere le tue vie, Re delle genti! O Signore, chi non temerà e non darà gloria al tuo nome? Poiché tu solo sei santo, e tutte le genti verranno e si prostreranno davanti a te,perché i tuoi giudizi furono manifestati»? Sulla stessa scorta si potrebbe fare riferimento a Ap 1,5-7 e 5,9-10; Ef 2,6-11; 1Tim 3,16; 6,15-16; 2Tim 2,11-13 e a tanti altri testi che, se non riportano testi innici, comunque sembrano riportarne alcuni segmenti o almeno l’eco e l’afflato letterario tipico degli inni. Ma allora chiediamoci: cosa rendeva l’inno così diffuso nell’esperienza di fede e di preghiera? Agostino di Ippona, nelle Enarrationes in Psalmos 148,17, afferma: «Sapete che cos’è un inno? Gli Inni sono canti in lode di Dio. Se è una lode ma non è indirizzata a Dio, non è un Inno. Se è una lode di Dio ma senza canto, non è un Inno. Perché sia un Inno deve avere dunque questi tre requisiti: essere una lode, rivolta a Dio, espressa nel canto». Aiutati dalle parole del Vescovo d’Ippona allora comprendiamo che un inno, quindi, per la sua stessa intrinseca indole ci ricorda il senso profondo della preghiera: lode a Dio e nel canto. Cantare amantis est – cantare è proprio di chi ama, afferma lo stesso Agostino (Serm. 336,1,1). La preghiera è un canto di amore e di ringraziamento, che sale a Dio, dall’anima (cioè dalla totalità della vita e della persona) innamorata di Lui.
3. È con questa comprensione di fondo che vogliamo ora lasciarci guidare dai testi degli Inni, presenti nella liturgia delle ore, del Tempo Avvento, cominciando dal primo, che è proprio l’Inno dei Vespri, con cui si è dato inizio alla celebrazione della prima domenica d’Avvento:Conditor alme siderum – o benigno creatore degli astri. Si tratta di un testo antichissimo che trova le sue prime attestazioni nel VII secolo. Sebbene non conosciamo il suo autore, possiamo subito dire che l’epoca in cui l’Inno venne alla luce fu un periodo di grandi fermenti. Da un lato si assisteva ad uno sviluppo culturale senza precedenti, che aveva il suo centro di raccolta e diffusione proprio nelle abbazie benedettine; dall’altro lato la società occidentale viveva un periodo difficile di integrazione tra il mondo latino ed il mondo delle popolazioni del nord Europa, discese verso il centro della cristianità. Sul fronte orientale, le spinte di espansione del mondo arabo, che iniziava a sentirsi unito sotto la fede in Allah, creavano profonda incertezza nel mondo occidentale, che si sentiva stretto come in una morsa. Si aveva la percezione diffusa di trovarsi in un’epoca spartiacque: il mondo conosciuto vacillava e affrontava qualcosa di inedito. Questa situazione nuova poteva far pensare al tramonto, al crepuscolo di un mondo e non tutti riuscivano a vedere che anche dalle macerie di un mondo crollato può essere riedificato un mondo nuovo, diverso dal primo, ma non per questo meno entusiasmante… È in quell’atmosfera crepuscolare che l’autore del nostro Inno compone i suoi versi. Proviamo ora, attraverso la lettura, a ricordarli:
Benigno Creatore degli astri, eterna Luce dei credenti, Cristo, redentore di tutti, esaudisci le preghiere di chi ti supplica. Tu compatendo il mondo che andava in rovina nella morte, salvasti l'umanità ammalata, donando una cura ai peccatori, Mentre scendeva la sera del mondo, come uno sposo uscito dal letto nuziale, uscisti dal castissimo grembo della Vergine Madre. Alla tua forte potenzaogni ginocchio si piega;
sia in cielo sia in terra, sottomesso alla tua volontà. Te, o Santo, con fede preghiamo, tu, che verrai come giudice del mondo: conservaci nel tempo dalla lancia del perfido nemico.
O Cristo, re piissimo, a te e al Padre sia gloria con lo Spirito Paraclito per i secoli eterni. Amen
Cónditor alme síderum, ætérna lux credéntium, Christe, redémptor ómnium, exáudi preces súpplicum. Qui cóndolens intéritu mortis períre sæculum, salvásti mundum lánguidum, donans reis remédium, Vergénte mundi véspere, uti sponsus de thálamo, egréssus honestíssima Vírginis matris cláusula. Cúius forti poténtiae genu curvántur ómnia; cæléstia, terréstria nutu faténtur súbdita. Te, Sancte, fide quæsumus, ventúre iúdex sæculi, consérva nos in témpore hostis a telo pérfidi.
Sit, Christe, rex piíssime, tibi Patríque glória cum Spíritu Paráclito, in sempitérna sæcula. Amen
Anzitutto vediamo che si tratta di un inno marcatamente cristologico. Tutto ruota attorno alla figura di Gesù; persino il riferimento alla creazione degli astri, l’iniziativa di redimere gli uomini, la nascita dal grembo di Maria. Non si fa menzione alcuna del Padre e dello Spirito. Tutta la storia della salvezza è riletta nella prospettiva del Figlio, nella prospettiva di ciò che il Verbo incarnato ha compiuto.
Questo “artefizio teologico” mi sembra avere un suo significato e un suo motivo specifici. Anzitutto il Tempo di Avvento, che ci prepara anche alla memoria della nascita umana del Salvatore e ci educa soprattutto all’attesa del suo ritorno, è un tempo fortemente cristologico. Anzi, sembra il tempo liturgico per eccellenza in cui, attraverso la contemplazione del mistero della Incarnazione di Cristo, siamo chiamati a rifare di Gesù il centro della storia, il centro della nostra vita personale. E, poi, quest’inno ci fa ripercorrere velocemente la parabola dell’economia della salvezza. Il Verbo, creatore degli astri, è assiso nelle regioni celesti. Da queste discende per compassione dell’umanità: è la kenosis (cf Fil 2,6-11), la katabasis, l’abbassamento del Verbo. Il punto centrale di questo abbassamento è il grembo di Maria (che, come vedremo, viene cantato – secondo la migliore tradizione patristica – come talamo nuziale) – e da quel punto di sommo abbassamento, inizia la risalita, la anabasis, l’innalzamento, la adorazione in ginocchio da parte di tutto ciò che esiste. Tuttavia, l’Adorato non è identico a Colui che è disceso: era disceso il Verbo increato e creatore, ma viene innalzato il Verbo incarnato, fatto Uomo. La sintesi teologica, soteriologica e antropologica di quest’Inno è potentissima. In pochissimi versi vengono racchiuse verità di fede e di salvezza determinanti della fede cristiana. Dio discende, per innalzare l’umanità; il Verbo si incarna, si umanizza, per divinizzare l’umanità. Ed il punto di abbassamento coincide con quello di innalzamento perché chi si umilia sarà esaltato (Lc 14, 11); perché nella logica dell’Evangelo, che racconta la carne umana di Gesù (fatta di parole e di gesti, di annuncio e di opere), solo chi si spoglia per donarsi diviene re.
Dobbiamo, allora, scendere un po’ profondità in quella strofa che racchiude il riferimento a quel punto in cui katabasis e anabasis si incontrano, in cui svuotamento e gloria entrano in contatto. Si tratta della terza strofa.
Leggiamola, doverosamente, in latino e spieghiamola in italiano:
Vergénte mundi véspere,
uti sponsus de thálamo,
egréssus honestíssima
Vírginis matris cláusula.
Mentre scendeva la sera del mondo: si fa riferimento ad una notte, come indicazione cronologica. Se pensiamo, però, a quello che abbiamo detto circa la situazione politica e sociale in cui l’inno viene scritto, dobbiamo pensare anche ad una indicazione culturale: mentre finiva il mondo come noi lo conosciamo, quindi, mentre le ombre ricoprivano il mondo e la vita. Ci troviamo, pertanto, in una situazione crepuscolare, tenebrosa, di incertezza. Il sostantivo mundi, tradotto con mondo, indica proprio il mondo inteso come realtà composita di tempo, di situazione, di cultura. È un termine esistenziale più che geografico. Per intenderci: oggi noi usiamo la parola mondo con due significati. Quello geografico indica il pianeta terra; quello esistenziale indica questo mondo di oggi come noi lo abbiamo costruito, lo percepiamo, lo conosciamo e lo viviamo. Il mondo che volge alla sera allora è esattamente questo mondo esistenziale.
In questo contesto crepuscolare, avviene un fatto inaudito: Gesù esce dal talamo nuziale – che è il grembo della Vergine – come uno sposo.
Ambrogio di Milano ed Agostino di Ippona hanno commentato il brano biblico che soggiace al testo dell’inno in questione. Si tratta del Sal 19 ai versetti 5-6: «Là pose una tenda per il sole, che esce come sposo dalla stanza nuziale: esulta come prode che percorre la via».
Ambrogio identifica il talamo con il grembo di Maria, definito “aula regale del pudore”, da cui è uscito il “gigante”, il Verbo, per correre incontro alla natura umana, con la quale avrebbe stretto una unione nuziale.
Anche Agostino, nel suo commento a questo salmo, dice che il Signore, che aveva posto nel sole nascente il suo tabernacolo, esce come uno sposo dal grembo di Maria, che è il luogo in cui egli si è sponsalmente unito alla natura umana.
Ed Agostino è così persuaso che si tratti di un fatto di immensa rilevanza che lo ribadisce, con ancora più forza, nel Discorso 291,6: «E il Verbo si congiunge alla carne, e il Verbo si unisce alla carne; ed il talamo di questo così grande connubio è il tuo grembo. Ripeto, il talamo di un così grande connubio, cioè del Verbo e della carne, è il tuo grembo: da dove quale sposo esce dalla stanza nuziale».
L’inno Conditor alme siderum è davvero un gioiello di teologia, ma anche di afflato d’amore per il Signore Gesù. Si canta la sua potenza creatrice, si benedice la sua compassione per l’uomo, si innalza la lode al suo umiliarsi nel farsi egli stesso creatura, ovvero membro, parte di ciò che lui stesso ha creato. Si riconosce, però, nella fede e secondo l’insegnamento dello stesso Verbo incarnato, che solo il farsi piccolo coincide con l’esaltazione, con la glorificazione.
In questo Inno – la cui origine ambrosiana è fortemente discussa – c’è, però, un indubbio elemento proprio della spiritualità e della teologia dell’avvento e del Natale, che è quello dell’admirabile commercium, del meraviglioso scambio.
Nell’ottava di Natale, al primo di gennaio, l’antifona al Magnificat recita così: «O admirabile commercium – O meraviglioso scambio! Il Creatore ha preso un’anima e un corpo, è nato da una Vergine; fatto uomo senza opera d’uomo, ci dona la sua divinità».
È stato Ireneo di Lione il primo autore cristiano antico a coniare questa espressione che ha avuto una diffusione enorme ed ha permeato i testi della liturgia di avvento e Natale, dando origine, poi, a numerose forme musicate. Egli scrive: «Dio è diventato uomo, perché l’uomo diventasse Dio».
La patristica e la teologia occidentali, in seguito, non hanno molto sviluppato questo tema, mentre esso ha goduto di molta attenzione nei padri e negli scrittori orientali che hanno coniato la felice espressione di «divinizzazione dell’uomo».
Credo che la Liturgia non potesse farci iniziare meglio questo cammino di Avvento, questo capodanno liturgico. Ci è posto dinanzi il dono dell’infinito amore del Padre che, nel suo Figlio, fatto Uomo in Gesù di Nazareth, ha compiuto il meraviglioso scambio che ci ha resi partecipi della sua stessa natura divina.
Celebriamo Cristo che è venuto, perché con lui è giunta a noi anche la vera umanità: quella che sa donarsi, fino all’abbassamento di se stessa, perché è lì, nell’umiltà del dono, che risiede la vera gloria di Dio e dell’Uomo. Celebriamo Cristo che è venuto e ci ha mostrato il volto umano di Dio ed il volto divino dell’uomo. Amen.
dom Tonino +
Qualche scatto.
Qui sotto il video integrale della predicazione
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UT UNUM SINT
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