Per una vera libertà oltre il CoVid-19.
Meditazione del nostro Padre Abate dom Antonio Perrella
sul Vangelo della domenica delle palme. Mc 11, 1-11
Trova il Messia oltre gli ostacoli delle strutture mentali.
Cari Fratelli e Sorelle,
Il brano dell’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme è come il preludio di un’opera unitaria. Da questo punto in poi, le narrazioni dei sinottici sulla passione e morte di Gesù saranno molto ravvicinate, rispetto al resto del racconto.
Agostino, nel suo scritto Sulla dottrina, dice che preferisce essere rimproverato dai retori, piuttosto che rimanere incomprensibile per il suo popolo. Il predicatore, cioè, deve avere come massima preoccupazione che il gregge comprenda. Per cui, anch’io dirò qualcosa che – per i raffinati di esegesi – potrà sembrare grossolano e semplicistico, ma che comunque aiuta bene a comprendere la questione a chi è meno avvezzo al fatto esegetico.
Quando si prende in mano il testo dei Vangeli sinottici (Marco, Matteo e Luca) ci si accorge subito che i loro racconti possono essere “catalogati” come in due blocchi: da un lato Marco, che segue sue fonti proprie, e dall’altro Matteo e Luca, che, oltre a Marco, hanno anche altre fonti.
C’è, però, un momento della narrazione in cui i punti di contatto tra i tre aumentano e si moltiplicano in modo esponenziale. Questo punto è proprio il brano dell’ingresso messianico di Gesù a Gerusalemme, con cui si apre il racconto della passione. Questo dato può significare solo una cosa: i primissimi cristiani, contemporanei a Gesù, ovvero i testimoni oculari di quegli eventi, hanno cominciato da subito a mettere per iscritto ciò che era accaduto. Anche mentre gli apostoli davano vita alla loro predicazione (che è quella che noi chiamiamo tradizione orale) già allora circolavano scritti autorevoli che raccontavano la passione di Gesù (dando già origine alla tradizione scritta). E questo spiega il fatto che anche il vangelo secondo Giovanni contenga lo stesso brano, per quanto egli ami discostarsi da quasi tutto il resto.
Ho fatto questa premessa per far comprendere la rilevanza assoluta che le varie tappe della passione dovevano aver avuto per la primissima comunità dei discepoli.
Cosa accade mentre Gesù sta entrando a Gerusalemme? La prima azione dinanzi alla quale ci troviamo è la requisizione di un mezzo di trasporto: il Signore ne ha bisogno! (11,3) È sufficiente questa frase perché i due discepoli possano portar via il puledro (secondo Marco e Luca), un’asina (secondo Matteo) ed un asinello (secondo Giovanni). Ora, sappiamo che il diritto di requisire un mezzo di trasporto era un diritto regale noto in tutta l’antichità. Nel vangelo di Marco il nostro brano è immediatamente preceduto dalla guarigione del cieco, Bartimeo, il quale invoca ed ottiene la guarigione con queste parole: Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me(Mc 10,47). Sappiamo che Bartimeo da quel momento si mette a seguire Gesù, il quale subito dopo fa requisire una cavalcatura. Alla luce di queste considerazioni si comprende bene perché la folla acclamerà Gesù come colui che viene nel nome del Signore e come il figlio di Davide (11,9-10). Nella folla era andata progressivamente aumentando la consapevolezza che Gesù era il Messia e come tale poteva rivendicare il trono di Davide.
Tuttavia, c’è un secondo elemento di quella requisizione che non va dimenticato: gli evangelisti non sono d’accordo su quale animale Gesù si sia fatto portare. Essi riferiscono, in fondo, due cose diverse: un puledro per Marco e Luca, un’asina o asinello per Matteo e Giovanni. Il contrasto non solo non è un problema, ma anzi è proprio la chiave che ci permette di aprire la porta della comprensione di questo brano. Nell’Antico Testamento c’era una profezia – sebbene non molto usata nella predicazione rabbinica del tempo di Gesù – che aveva in sé proprio i nomi degli animali usati dagli evangelisti. Si tratta di Zc 9,9-10: Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra.
Nella tradizione e negli insegnamenti comuni a quel tempo, le profezie che venivano tramandate circa l’avvento del Messia erano quelle che parlavano del Messia Re, che giunge trionfalmente. Questa profezia di Zaccaria, che parlava di un Messia diverso, era stata messa da parte. Gesù invece non solo la rispolvera, ma la rende determinante per comprendere la sua persona e la sua missione. La tradizione attestava che la cavalcatura regale, quella che meglio si addice al Messia Re, è quella della mula, mentre l’asinello, puledro d’asina, è la cavalcatura propria del servo. Con questa scelta, Gesù si sta presentando non come Messia Re ma come Messia Servo.
L’immagine del Servo non era sconosciuta alla tradizione profetica. Isaia aveva parlato del Servo di Jahvé, anzi del Servo sofferente di Jahvé. Questa figura (che è al tempo stesso personale e collettiva) è tratteggiata nei capitoli 42, 49, 50 e 52-53 di Isaia: Dio presenta al mondo il suo servo, che deve portare al popolo la consolazione di Dio, anche se questo gli costerà incomprensione e sofferenza grandi; egli verrà con decisione e mitezza e si caricherà le sofferenze del popolo.
Gesù confermerà questa interpretazione di se stesso nell’ultima cena, quando si cingerà un grembiule e laverà i piedi dei discepoli (cf Gv 13). C’è, però, qui un elemento importante e discriminante: Gesù, attraverso l’asinello ed il riferimento implicito a Zaccaria e al Servo, spiegato da Isaia, si presenta come Servo, ma non solo di Jahvé, ma anche dell’uomo. Il Servo di Dio è sempre anche e contemporaneamente Servo dell’uomo, di ogni uomo.
Ci troviamo, tuttavia, dinanzi ad un dato tragico: Gesù ha compiuto dei segni (ingresso, l’asino o puledro d’asina) che avrebbero dovuto esprimere chiaramente al popolo in che senso egli avrebbe inteso essere re e messia. Eppure il popolo non comprende, tant’è che gli stende i mantelli davanti. Anche questa era un’usanza tipicamente regale. In 2Re9,13 è addirittura l’atto di omaggio per il riconoscimento dell’unzione del re. Se, però, prendiamo quel brano, che riguarda la regalità di Ieu, ci accorgiamo che i toni sono esattamente contrari a quelli di Zaccaria. Gesù sceglie un segno profetico che parla del re come mite servo di pace e la gente gli risponde con un segno di sottomissione che parla di un re vendicatore che deve sterminare.
Sembra proprio inutile! Gesù parla un linguaggio e gli uomini ne ascoltano un altro. Come è possibile? Eppure la lingua è la stessa, la regione della terra anche, il tempo storico pure, le Scritture di riferimento anche. Cos’è che causa questa incomunicabilità o questa deformazione del messaggio? Gli schemi di partenza! E sì, proprio gli schemi e le strutture culturali tradizionali, così radicate nella mente delle persone che, per quanto uno possa apertamente parlare e spiegare, esse continueranno a non comprendere, perché non sono disposte a cambiare i loro schemi. Non fa nulla se il rischio è quello di non comprendere ciò che veramente il Signore vuole dirmi con la sua Parola e le Azioni; gli schemi non si cambiano, le strutture non si toccano.
Questo è l’eterno problema dell’uomo: le strutture che è riuscito a creare gli danno sicurezza, tranquillità, lo fanno sentire padrone del mondo. Con esse può controllare ciò che accade e determinarlo… o almeno così pensa… poi accade, anzi incombe l’imponderabile, ciò che non aveva previsto, ciò che – per quanto si affanni – non riesce a controllare e dominare e lo sovrasta. Tutto sembra divelto sin dalla radice, ma poi – quando le acque si sono calmate – ecco che spunta cosa? Altre strutture che prendono il posto di quelle che c’erano prima.
Il periodo che stiamo vivendo, con la pandemia e l’improvvisa, quanto imposta, necessità di cambiare stili di vita, ha messo in crisi la maggior parte degli schemi portanti del nostro mondo contemporaneo. Si tratta di un tempo in cui noi possiamo scegliere se vivere una parentesi, peraltro fastidiosa, della nostra vita o piuttosto vivere un tempo opportuno, un tempo favorevole.
La ripresa non sarà immediata e non sarà facile. Questo vuol dire che non si potrà tornare alle cose di prima immediatamente e probabilmente non tutto sarà come prima.
Facciamo alcuni esempi, per comprendere le due strade che avremo dinanzi.
Anzitutto il tempo. Fino al decreto dell’8 marzo vivevamo una corsa affannata. Il tempo non ci bastava mai; anche se – bisogna ammetterlo – più il tempo ci sfuggiva e più, alla fine della giornata, ci domandavamo che cosa avessimo realmente fatto. La molteplicità degli impegni che riempiva le nostre giornate, tuttavia non riusciva sempre a riempirle di senso. Così ci sembrava di fare molte cose, ma di non sapere cosa stavamo facendo della nostra vita e perché. L’arresto immediato del tempo e della sua corsa ci ha lasciato spiazzati. Chi già sapeva vivere il suo tempo, sta vivendo più o meno bene questa quarantena; chi, invece, dal tempo era fagocitato, ha dovuto reinventarsi, non senza esiti devastanti per qualcuno: il giorno diventa notte e viceversa, noia esistenziale, incapacità di trovare una qualsiasi occupazione casalinga o intellettuale che riempisse le giornate. Il primo schema culturale che dovrà cambiare è proprio il nostro rapporto con il tempo: esso va vissuto, organizzato perché ogni ambito della vita possa essere vissuto e goduto appieno.
Poi, abbiamo dovuto rivedere i nostri rapporti famigliari e sociali. Prima dell’8 marzo ci siamo trovati, spesso, a puntare molto sui rapporti sociali (necessari al lavoro, alla vita comunitaria, alle relazioni amicali) e – diciamolo onestamente – a dare un po’ per scontati i rapporti famigliari. Eppure, nella maggior parte di noi, la famiglia è l’ambito di realizzazione umana e vocazionale. La famiglia doveva essere il rapporto primario, al cui servizio e completamento vivere tutti gli altri rapporti. In realtà, nel concreto, le cose non andavano così: tra lavoro, sport, amici, comunità, a soffrire erano proprio i rapporti famigliari. E quanto sia vera questa riflessione, lo dimostra proprio la quantità epocale di vignette e battute che su questo argomento sono state veicolate attraverso i social. Ne cito una per tutte: “sto passando molto tempo con i miei famigliari in questo periodo. Sembrano proprio delle brave persone”. Ammettiamolo: i rapporti fondamentali erano diventati corollari! Abbiamo dovuto reimparare a conoscerci, ad adattarci, a venirci incontro, a modulare esigenze e desideri in base alle persone che con cui dovremmo condividere la nostra vita. Un bambino – nella sua ingenuità – mi ha detto: “speriamo che non finisca presto, perché ho sempre i miei genitori con me. Di solito non li vedo mai”. A chi di noi, in questo tempo, non è capitato di vedersi contattare da una persona amica, veramente amica, che non sentiva da tempo e non si è trovato a chiedersi: ma perché l’ho trascurata questa persona? Chi di noi non si è trovato in questo tempo a ripensare ad un rapporto affievolito per la mancata frequentazione o rotto per chissà quale idiozia e magari senza aver fatto un tentativo di riconciliazione, perché non ci eravamo soffermati a pensare? Alla ripresa, anche lo schema dei nostri rapporti e delle priorità che diamo alle relazioni, dovrà essere rivisitata.
Uno dei più grossi problemi che stiamo vivendo è quello del lavoro e del sostentamento di molte famiglie, mentre la politica trema per il calo altalenante delle borse. Questa è la struttura maggiormente vulnerabile, che ha rivelato la sua assoluta pericolosità, anche se il mondo fatica a cambiare. Col tempo, abbiamo sostituito l’economia con la finanza. Ed è un dramma, perché l’economia si basa sul duro lavoro e sul sacrificio del risparmio, mentre la finanza si basa sulle speculazioni e sul fallimento. Sì, in finanza si arricchisce chi sa profittare delle debolezze altrui. In questo periodo, in cui manca il lavoro – che produce la vera ricchezza – noi siamo facilmente aggredibili dagli speculatori, che potrebbero ridurci in schiavitù finanziaria ed economica. La finanza non crea capitali, ma li sposta e li sposta sempre verso il pesce più grosso, che mangia il pesce più piccolo. Solo l’economia, basata sull’onesto lavoro, produce vero capitale e ricchezza. Ed è qui che si dovrà fare il vero sforzo di cambiamento; perché ne va della sopravvivenza del nostro paese e di ciascuno di noi.
Anche la religiosità ha dovuto fare i conti con il vacillare degli schemi e delle strutture. Nella cultura diffusa dell’Italia, e del Mezzogiorno in particolare, si era abituati ad una sorta di funzione vicaria del clero. Il prete prega, il prete celebra, il prete si occupa delle cose di Dio a nome di tutti. Noi, poi, facciamo il nostro dovere di cristiani, andando a Messa. Proibite le celebrazioni, la maggior parte si è trovata impreparata a vivere la propria fede senza un luogo di culto, senza un’azione sacra e senza un ministro. Abbiamo delegato ad altri l’esercizio della nostra fede, dimenticando che ognuno di noi è membro del popolo sacerdotale e regale, costituito dal Signore Gesù, e che ciascuno di noi offre al Padre il culto in spirito e verità. È vacillato lo schema religioso diffuso, che erroneamente era stato creato e che ha mostrato la sua insufficienza proprio perché ha cambiato alcune forme degli schemi veterotestamentari, ma la sostanza era rimasta immutata: le strutture create da rabbini e sacerdoti in qualche modo sono state divelte alla radice dallo tsunami di Cristo, eppure che cosa è sorto dopo? Le strutture ecclesiastiche. Siamo passati dal sacerdozio di Aronne a quello ministeriale; dal tempio e dalle sinagoghe alle basiliche; dal sacrificio di sangue a quello incruento; dalle leggi inviolabili della Torah a quelle altrettanto sacre – se persino non di più – del diritto canonico; dal potere del sommo sacerdote a quello dei prelati; dalla legge del corban al suffragio delle messe ed alle indulgenze. Mediazioni, mediazioni su mediazioni delle mediazioni… Strutture e schemi che costantemente si frappongono tra Dio e l’uomo, mentre Gesù è venuto proprio per scardinare le mediazioni e mostrare a tutti che ognuno ha diritto di rivolgersi a Dio, guardare il suo volto, ascoltare la sua voce e parlare con lui.
Quante volte ci siamo sentiti dire: andrà tutto bene! Ce lo auguriamo, ma la verità è che “andrà tutto bene” in base a ciò che noi sceglieremo di essere e costruire quando inizieremo di nuovo la normalità. Starà a noi scegliere se gettarci di nuovo nella schiavitù degli schemi e delle strutture o se finalmente abbracciare la libertà donataci da Gesù.
Dom Tonino +
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