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Fede, cura e salute nelle confessioni religiose: l'intervento dell'Abate dom Antonio Perrella per l'Università degli studi di Bari "Aldo Moro" - Dipartimento Jonico

"l’esperienza della fede non è solo trascendente, nel senso che impone domande su ciò che non è tangibile ma è ugualmente vero, ma è anche assolutizzante, perché non esclude nulla della totalità della persona: conoscenza, volontà, intelletto, amore, salute e malattia, vita e morte. Tutto è coinvolto in questa esperienza, perché la fede prende sul serio l’uomo nella sua fattualità concreta e la concretezza della vita ci dice che nessuno può immaginare un’esistenza senza contemplare la possibilità della sofferenza - e quindi la necessità della cura - e la certezza della morte". Sono alcune parole tratte dall'intervento che ha tenuto l'Abate Antonio Perrella persso il Dipartimento Jonico della Università di Bari per gli studenti del corso: "Percorsi di competenze trasversali - CULT. IU. RE: Ambiente, cibo salute".



Mercoledì 24 aprile 2024 alle ore 10.30 presso il Dipartimento Jonico della Università degli Studi di Bari in Taranto si è tenuto il penultimo incontro del corso interdisciplinare: "Percorsi di competenze trasversali; CULT. IU. RE: ambiente, cibo e salute" coordinato dalla Prof. ssa Adriana Chirico.

La chiarissima Professoressa, Docente in Diritto Canonico e delle Religioni del Mediterraneo, ha relazionato sull'approccio buddista: tradizione religiosa e impegno sociale.

Insieme a lei, l'Abate dom Antonio Perrella è intervenuto, con "incarico di docenza esterna", trattando il tema: "Fede, cura e salute nelle Confessioni cristiane".

A fare gli onori di casa è stato il Prof. Stefano Vinci, coordinatore dei corsi giuridici dell'Università il quale ha introdotto e salutato i relatori con parole di gratitudine e riconoscimento.




Qui sotto l'intervento integrale

del Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella


Fede, cura e salute nelle Confessioni religiose


1. Carissimi, saluto e ringrazio il Prof. Stefano Vinci, coordinatore dei corsi giuridici, per il suo saluto e le sue parole e la prof.ssa Adriana Chirico, cara ed intelligente amica, per l’invito che mi ha rivolto a tenere una conversazione in questo corso multidisciplinare.

Entrare in una Università, che è il santuario della conoscenza e della ricerca appassionata e sincera della verità, è sempre un privilegio. Per questo ancora grazie agli esimi Docenti e a tutte e tutti voi che mi presterete cordialmente ascolto.


2. Mi è stato chiesto di offrire alcune riflessioni sul rapporto tra l’esperienza umana della cura della persona e della sofferenza, da un lato, e l’esperienza di fede in generale, e di quella cristiana in particolare, dall’altro lato.

Prima di entrare nel merito della questione, ritengo che sia necessario compiere alcune precisazioni previe, per fugare il campo da possibili fraintendimenti.


a) Il tema della sofferenza e della cura è trasversale, perché riguarda l’esperienza della vita umana. La domanda sul perché e sul senso che si può dare alla sofferenza è anzitutto una domanda filosofica e specificatamente antropologica, prima che essere una domanda teologica. Oggi noi viviamo in un contesto culturale profondamente esistenzialista, anche se la maggior parte delle persone non conosce la propria forma di pensiero. Si trova immersa in un contesto culturale, lo assorbe, ma non lo sa neppure definire. La filosofia esistenzialista non è uniforme, omogenea. Esistono diverse correnti di esistenzialismo. Esse, tuttavia, convergono tutte su un punto: la centralità dell’esistenza dell’individuo, che si pone domande sul perché, sul senso e sulla destinazione della propria esistenza. Quello in cui noi viviamo oggi è un esistenzialismo che potremmo definire positivista e funzionalista.


Vi sorgerà certamente la domanda su quale forma di pensiero intendo caratterizzare con il nome di esistenzialismo positivista e funzionalista? È una forma di pensiero che esalta l’individuo. Individuo è concetto differente da quello di persona. L’individuo è indicato nella sua singolarità e solitudine, mentre la persona indica la singolarità nella relazione. L’individuo del pensiero contemporaneo è visto invece come isola tra isole. Questo individuo solo e solitario, poi, è interpretato in modo positivista, cioè attraverso i dati sensibili dell’esistenza, senza che esso si ponga domande metafisiche. L’individuo esiste da solo e sperimenta e vive ciò che tocca, ciò vede, ciò che è capace di manipolare e assoggettare ai propri fini, ai propri bisogni. Le domande sul senso, per l’individuo così inteso, sarebbero quindi inutili perché non sono sperimentabili. È il dominio del bene-stare sul ben-essere. Inoltre, questo individuo solitario e positivista ha un valore in rapporto alla sua funzione: quanto può produrre? Quanto può guadagnare? Qual è il suo valore socio-economico?


Questa impostazione di pensiero oggi non è tanto filosofica, cioè frutto di una riflessione sistematica e pensata, ma è esperienza del flusso inarrestabile della vita quotidiana e permea i nostri stili di vita. Alcune frasi, che oggi vengono pronunciate come se fossero massime di sapienza, lo dimostrano tanto eloquentemente quanto drammaticamente: “pensa a te stesso, che nessuno penserà a te” (individualismo); “se c’è la salute, c’è tutto” (positivismo); “quello sì che è un grande: guarda che strada si è fatto” (funzionalismo). Da queste frasi, che servono solo come esemplificazione, comprendiamo che si tratta di una forma di pensiero diffusa, di una impostazione di vita e di stili di vita, di una “filosofia di vita” piuttosto che di una scuola filosofica in senso tecnico.


Questa impostazione del pensiero diffuso manca evidentemente di una antropologia. Non ha una visione di uomo, che – come tale – non può eludere le domande sul senso, la ricerca del senso: a nessuno basta vivere, a nessuno basta avere i mezzi con cui vivere. Tutti abbiamo bisogno dei motivi per cui vivere.

In assenza di una antropologia, l’esperienza della sofferenza è un insensato black-out dell’esistenza, un corto circuito nella costruzione dell’affermazione di se stessi. Il mondo nel quale viviamo ci propone modelli di perfezione estetica, di affermazione sociale, di forza economica; meno invece modelli di virtù morali, di costruzione del bene comune, di stili di vita virtuosi nella solidarietà, nella ricerca del bene, nella custodia delle fragilità e valorizzazione del creato.

In assenza di antropologia o di visione antropologica, non si può dare risposta alla domanda di senso dell’esistenza e ancor meno alla domanda di senso sulla sofferenza. Sono questi i presupposti dai quali possono derivare i discorsi di senso sulla cura della persona in se e in relazione alla fede.


b) L’esperienza della fede è esperienza di un incontro di salvezza. È l’incontro tra Dio e l’umanità. L’esperienza della fede porta sempre con sé un contenuto veritativo ed un’esperienza di valorizzazione della persona umana. La verità dell’esperienza di fede parla all’uomo e lo invita a scoprire il senso della sua esistenza e di tutte le espressioni della sua esistenza: la gioia ed il dolore, la solitudine e la compagnia, la vita e la morte. In questo senso l’esperienza della fede non è solo trascendente, nel senso che impone domande su ciò che non è tangibile ma è ugualmente vero, ma è anche assolutizzante, perché non esclude nulla della totalità della persona: conoscenza, volontà, intelletto, amore, salute e malattia, vita e morte. Tutto è coinvolto in questa esperienza, perché la fede prende sul serio l’uomo nella sua fattualità concreta e la concretezza della vita ci dice che nessuno può immaginare un’esistenza senza contemplare la possibilità della sofferenza - e quindi la necessità della cura - e la certezza della morte. In questo senso, potremmo dire che solo la comprensione antropologica che nasce dalla fede è veramente esistenzialista, perché prende sul serio tutta l’esistenza e tutte le sue fasi, anche quelle che un certo tipo di cultura vorrebbe cancellare, eludere.


L’esperienza della fede è concreta. Non lascia nulla dell’esperienza umana e tutto valorizza ed aiuta a vivere.


c) Dobbiamo però chiarire che l’esperienza della fede non va confusa con la l’esperienza religiosa. Religione e fede non si equivalgono. Per religione si intende l’esteriore, il visibile della fede: preghiere, atti di culto, organizzazione di una comunità, di una micro società. Per fede si intende, invece, la scelta fondamentale della vita, orientata a Dio. Paradossalmente si potrebbe essere religiosi, senza vivere la fede. La dicotomia tra il culto, celebrato nei templi, e la vita, vissuta nel quotidiano, è esperienza abbastanza diffusa. Così accade che, per esempio, dinanzi all’esperienza della malattia, una persona che frequenti regolarmente il culto dica di aver perso la fede, perché Dio non doveva dare questo castigo ingiustificato. È il frutto di una vita religiosa che non è una vita di fede.


Le fedi sono molteplici; ed anche il cristianesimo stesso non è un fenomeno monolitico, ma prismatico per quanto in Italia non si ha la reale percezione. Esistono differenze abissali tra le differenti forme di vivere il cristianesimo. Per esempio, sui temi della bioetica gli approcci dei cristianesimi sono molto distanti. Tra le diverse confessioni cristiane – lo dico solo a titolo esemplificativo – la maggioranza di esse lascia alla libertà della coscienza del fedele la questione del testamento biologico. Solo la confessione cattolica romana impone l’obbligo della idratazione e ventilazione forzate, anche dinanzi ad esili speranze di ripresa della coscienza.


Ovviamente la comprensione, che le fedi hanno sulla questione della cura della persona e sulla salute, dipende dal concetto di Dio che esse diffondono e, di conseguenza, dal concetto di uomo che ne scaturisce.


Senza voler troppo articolare il nostro discorso, fermiamoci ai tre grandi monoteismi: Ebraismo, Cristianesimo ed Islam. Essi hanno in comune il concetto del Dio creatore ed onnipotente. Da Lui fanno derivare la grazia e la benedizione della salute, ma anche la permissione della malattia. Il senso che, tuttavia, si dà all’esperienza della sofferenza è differente. Per l’islam essa rientra nel piano imperscrutabile di Allah, per Israele essa è un castigo per qualche peccato della persona o della sua famiglia, per il cristianesimo essa è un’esperienza umana possibile a cui il fedele deve dare un senso unendosi alla croce di Cristo. Il cristianesimo non si pone una forte domanda sull’origine della sofferenza: essa fondamentalmente deriva dal peccato originale che ha deturpato il piano originario di Dio sull’uomo. Con la venuta di Cristo, con la sua morte e risurrezione, l’esperienza della malattia e della morte assumono un nuovo senso soteriologico: la singola persona offre le sue croci assieme a quella di Gesù per la salvezza del mondo e lo fa sapendo che anche il suo corpo, per quanto malato, è votato alla vita e alla risurrezione.


Questa genuina visione cristiana, tuttavia, nella storia ha subito anche visioni esasperate: la sofferenza è stata esaltata come una benedizione, tanto che nei tempi di forte ascetismo, le persone con una forte tensione spirituale sono andate alla ricerca del sacrificio, della mortificazione del corpo, fino a minare la propria salute. In una prospettiva cristiana, radicalmente fondata sulla Sacra Scrittura conosciuta intelligentemente, tuttavia, questa sovra esaltazione della sofferenza ricercata è un discostamento dall’insegnamento di Gesù.


3. Compiute queste premesse e chiarificazioni previe, possiamo ora delineare, almeno come in una bozza, una griglia di comprensione dei temi della salute, della sofferenza e della cura della persona, alla luce del dato scritturistico e neotestamentario in modo particolare.


I) Nell’insegnamento di Gesù la persona ha la centralità. Lo si evince chiaramente dalle parole e dai gesti del Signore. Non solo egli guarisce i malati, libera gli oppressi, ma anche perdona i peccatori, li reinserisce nella loro piena dignità umana. Per Gesù la persona vale indipendentemente dal suo stato fisico e indipendentemente dal suo stato morale.


Pensiamo ai miracoli di guarigione. Se leggete i quattro Vangeli di seguito, vi accorgerete che tutte le guarigioni avvengono in giorno di sabato e spesso nel luogo sacro (tempio o sinagoga). Come mai Gesù opera le sue guarigioni proprio nel giorno sacro e nel luogo sacro? Dovete sapere che per la tradizione ebraica, il sabato (lo shabbàt) è il giorno del riposo di Dio e, di conseguenza, del riposo dell’uomo. I rabbini avevano individuato ben 39 azioni che erano proibite in giorno di sabato, perché considerate un lavoro, una fatica. Fra queste azioni proibite c’era esattamente il prendersi cura degli ammalati. Nella visione rabbinica il primato di Dio entrava in conflitto con la centralità della persona. Il diritto di Dio prevaleva sul diritto umano. Il sacro dovere di riposare prevaleva sul dovere di prendersi cura dell’ammalato. Le guarigioni, operate da Gesù in giorno di sabato, invertono la questione: non può esistere conflitto tra diritto divino e diritto umano; non può esistere un precetto religioso che causi la mancanza di cura del debole, dell’indifeso, del fragile. Da Gesù in poi prendersi cura dell’ammalato è un atto di culto, un atto di obbedienza a Dio che è per l’uomo, mai contro l’uomo!


La famosissima parabola del buon samaritano è eloquente da questo punto di vista. Un uomo, incappato nei briganti, viene lasciato a terra ferito e sanguinante. Le norme religiose proibivano il contatto con il sangue altrui, perché fonte di impurità rituale. Il sacerdote ed il levita – gli addetti al culto – nell’incontrare il malcapitato vedono e passano oltre dall’altra parte della strada. Sono il simbolo del diritto religioso ma disumano. Un samaritano – quindi uno ritenuto eretico – invece si prende cura dell’uomo accasciato. Colui che era condannato dai religiosi, viene indicato da Gesù come un esempio. L’evangelista Luca, che riporta questa parabola, descrive con minuzia il modo di agire del samaritano e lo fa usando ben sette verbi. Proviamo a prenderli in considerazione per cercare di comprendere il concetto di cura nella prospettiva cristiana.


Il Samaritano - passa accanto: nessuna cura della persona può esserci se esorcizziamo dalla vita sociale l’esperienza della debolezza e della fragilità. Essa fa parte dell’esperienza umana e, quindi, fa parte della struttura sociale. Civile è proprio la società che riversa sui suoi membri più fragili le maggiori attenzioni. I continui tagli alla spesa pubblica sanitaria sono una forma di inciviltà. Stiamo andando verso una sanità di nicchia, alla salute come un lusso; cioè stiamo costruendo una società in cui potranno accedere alle migliori cure solo i ricchi. Ma questo, per noi occidentali, sarebbe un tremendo passo indietro. Nel medioevo – proprio grazie alle forme consociate di attività caritatevoli – scoprimmo che la salute era un diritto e non un lusso;


Il Samaritano - vide: è il superamento della cultura dell’indifferenza. “Non mi interessa, fintanto che non mi tocca da vicino”. Vedere, accorgersi della sofferenza altrui significa anche offrire il proprio contributo alla costruzione di una cultura della cura. Vale per tutte le grandi tematiche della nostra vita civile: la politica, l’ambiente, la promulgazione delle leggi. Non sono questioni che possono interessarci solo quando ci toccano da vicino;


Il Samaritano - ne ebbe compassione: prendersi cura richiede empatia. Una persona porta con sé un universo. La persona, soprattutto quando ammalata, non può essere trattata come un caso, né seguita a suon di protocolli. Il rapporto personale ed empatico (anche tra medico e paziente) è un sostrato necessario alla relazione di cura. Grandi ospedali, immensi centri di cura, con un numero esorbitante di pazienti favoriscono la spersonalizzazione di questa relazione e la disumanizzazione dell’esperienza della sofferenza. La tendenza ad accorpare, per ridurre la spesa, risponde a criteri di funzionalismo ma non di umanesimo. La prossimità – anche territoriale – dei presidii di cura e terapia dovrebbe essere perseguita come un miglioramento ed un efficientamento dell’offerta sanitaria pubblica;


Il Samaritano - si piegò: ogni relazione di cura, ogni momento in cui ci si prende cura di qualcuno è al tempo stesso un atto di sacrificio, di rinuncia a qualcosa di sé da destinare al bene altrui. Noi sappiamo che le cose che veramente contano per noi, sono quelle per cui siamo capaci di fare sacrifici. L’esperienza dell’abnegazione e della donazione di se stessi in favore dell’altro è un’esperienza altamente umana e umanizzante. Abbiamo salutato i medici e gli infermieri come eroi nel periodo del CoVid. Tuttavia, l’esperienza che spesso facciamo, quando siamo costretti a sostare al pronto soccorso (talvolta persino per giornate intere) o nelle corsie degli ospedali è assolutamente diversa, perché sembra che la dignità della persona sia annichilita;

Il Samaritano - fasciò le ferite versandovi olio e vino: bagnare le ferite con il vino e l’olio era una forma di pronto intervento. L’alcol del vino disinfettava e l’azione lenitrice dell’olio aiutava la cicatrizzazione delle ferite. La fasciatura preservava dall’insorgere di infezioni.


L’insieme di queste azioni ci dice almeno due cose: in primo luogo, è quanto mai urgente una alfabetizzazione a largo spettro almeno dei rudimenti sul primo soccorso. Ognuno di noi dovrebbe sapere come intervenire, quando possibile per salvare la vita di una persona. In secondo luogo, vino e olio rappresentavano la cura del fisico ma anche dell’animo, della mente. La salute non riguarda soltanto il corpo, ma le condizioni di vivibilità, di benessere integrale della persona. Occorre tornare ad una visione olistica, integrata della persona umana. Oggi ci troviamo dinanzi ad una eccessiva specializzazione che è potenzialmente pericolosa. Un cardiologo conosce perfettamente il funzionamento di tutto l’apparato circolatorio e si prodiga a curarne i difetti, prescrivendo alcuni farmaci; accade però che talvolta sottovaluti o ignori l’impatto che essi hanno su fegato, pancreas ed ossa.


Siamo all’ ultimo passaggio: il Samaritano - lo portò in albergo, estrasse due denari e li diede all’albergatore chiedendogli di prendersi cura di lui e promettendo che avrebbe saldato eventuali spese aggiuntive: è quella che noi chiamiamo sussidiarietà orizzontale. Esiste una sussidiarietà verticale: tra lo stato e la base ed i corpi intermedi. Ma ne esiste anche una orizzontale: tra le persone, le istituzioni e le associazioni. Un centro di cura, un ospedale, una clinica – da soli – non possono rispondere a tutte le esigenze dell’ammalato. Hanno necessariamente bisogno dell’apporto di associazioni che aiutino i malati a non rimanere soli, che diano loro sollievo soprattutto nei casi di lungodegenza, che facilitino il rapporto con i parenti che magari vivono distanti. Non è sufficiente, da questo punto di vista, la presenza delle cappellanie. Anzitutto perché si tratta di una presenza confessionale che non soddisfa la molteplicità dei bisogni religiosi delle persone. Lo Stato garantisce l’assistenza spirituale cattolica romana, ma non quella delle altre confessioni cristiane né tanto meno delle altre religioni. Questo dato di fatto è di per sé anticostituzionale perché crea disparità tra i cittadini a motivo della loro confessione religiosa. Andrebbero piuttosto creati servizi di aiuto e sostegno integrato ai pazienti e, se richiesto, questi centri dovrebbero informare lo specifico ministro di culto esterno.


Ho voluto offrire alcune linee di comprensione dell’ampia tematica della salute e della cura soprattutto alla luce di una corretta antropologia cristiana. Ho voluto anche tentare di mostrare – e spero di esserci riuscito – come a partire dalla Scrittura e dall’esperienza di fede cristiana si propaghi una valorizzazione della persona, la cui inviolabile sacralità – sempre e comunque – è un bene prezioso da custodire, servire e promuovere.





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