"(la Chiesa) deve essere odòs, deve essere cammino e strada, deve essere in cammino e per strada. Essa non può che fare come il suo Fondatore, Maestro e Signore: deve andare verso gli uomini e, con essi, poi andare verso Dio. Non esiste alcuna contrapposizione tra l’andare verso l’uomo e l’andare verso Dio. I due movimenti sono concomitanti, oserei dire convergenti: quanto più la Chiesa si fa prossima all’umanità, tanto più essa si approssima anche a Dio, perché è lì che Dio la vuole e lì che Dio l’ha inviata.". Alcune parole dell'omelia dell'Abate dom Tonino per la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola nella vigilia della domenica delle palme.
Anche alla Christiana Fraternitas, sabato 1 aprole 2023 alle ore 19.30, presso la Cappella "Santi Benedetto e Scolastica" si è dato inizio alla Grande Settimana con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola e la commemorazione della Cena del Signore moderata dal nostro Abate Antonio Perrella. Non è mancato il segno dei rami d'olivo con la piccola processione.
Qui sotto il testo integrale dell'omelia del nostro
Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
Cari fratelli e sorelle,
con la celebrazione della domenica, detta delle palme, diamo inizio alla Settimana Santa, ai giorni santi e benedetti in cui, nel mistero celebrato, ci uniamo alla passione, morte, sepoltura e risurrezione del Signore nostro Gesù Cristo.
Sappiamo che celebrare gli eventi del mistero pasquale non vuol dire fare un ricordo, ma celebrare un memoriale. La celebrazione memoriale fa sì che noi diventiamo contemporanei di quegli eventi: lo Spirito, che agisce nella celebrazione, ci porta mistericamente a quel tempo, quell’ora, quel luogo in cui la persona di Gesù viveva su di sé quegli stessi eventi.
Gesù Signore è il rivelatore del Padre ed il Salvatore degli uomini: le due cose vanno sempre assieme. Dio che si rivela è anche Dio che si dà. Dio si comunica in un duplice modo: si comunica a noi, perché si manifesta a noi e ci permette di conoscerlo; ma si comunica anche perché si dà a noi, ci permette cioè di partecipare della sua stessa vita divina.
Questo vuol dire che, meditando e vivendo questi misteri santi, noi entriamo nell’opera della grazia salvatrice di Dio e conosciamo il suo progetto di salvezza.
In altri termini, queste celebrazioni, con i loro segni ed i loro ritmi, ci dicono e ci danno Dio, ma al tempo stesso ci dicono e ci danno noi stessi, secondo il progetto di Dio!
Per questa ragione teologica fondamentale, ho deciso di dedicare la predicazione di questa Settimana santa al mistero della Chiesa. Unendoci agli eventi salvifici e rivelatori, che Gesù ha vissuto, noi ci domanderemo: alla luce di questi eventi, la Chiesa cos’è? Cosa deve essere? Come deve essere?
Se celebrare vuol dire unirsi alla vita di Gesù, allora la forma di quella vita personale di Gesù viene riversata anche nella vita dei suoi discepoli, perché essa – sia singolarmente sia comunitariamente – ricalchi la forma della vita di Cristo. Non si tratta solamente di un esempio che Gesù ci offre e che noi dobbiamo imitare. Se si trattasse di questo, allora tutto dipenderebbe dalla nostra volontà e dalle nostre azioni. Si tratta invece anzitutto di una grazia che Dio compie: noi celebriamo e Lui, con la forza del suo Spirito, ci plasma, ci trasforma, ci educa perché assumiamo – come singoli e come comunità – la forma della vita di Cristo. Celebrando, lasciamoci plasmare dallo Spirito; permettiamo cioè alla grazia amorevole di Dio di penetrare le viscere più profonde della nostra personalità e della nostra esistenza, perché veniamo consacrati e trasformati ad immagine di Cristo Signore.
L’odierno itinerario di meditazione che insieme affronteremo trae i suoi spunti dalla mistagogia liturgica di questa celebrazione anzicché – come nostro solito- partire dalla Parola proclamata e ascoltata. Sin dal suo sorgere, la domenica prima di Pasqua è stata celebrata – nella Chiesa di Gerusalemme – come commemorazione dell’ingresso di Gesù nella Città Santa. Già Giustino – e con lui la Chiesa del II secolo – interpretava quell’ingresso come una manifestazione della messianicità di Gesù (Apologia 35,11; Dialogo con Trifone 88,6). Negli anni passati abbiamo visto che l’ingresso di Gesù a Gerusalemme, in sella ad un puledro d’asina, era una personale rivisitazione di Gesù della profezia di Zaccaria 9,9. Egli entrava nella Città santa come il Messia, il figlio di Davide, però non lo faceva sul dorso di un cavallo, come un re guerriero, bensì a dorso di un puledro d’asina, come principe della pace.
I cristiani di Gerusalemme, che avevano la fortuna di avere a disposizione i luoghi in cui quegli eventi erano accaduti, ben presto cominciarono a rivivere, quasi fisicamente, la passione di Gesù, recandosi laddove la storia si era compiuta. La pellegrina Egeria, nel Diario del suo viaggio in Terra Santa, ci descrive la ricchezza dei testi e dei gesti con cui oramai nel IV secolo quel giorno era celebrato: si partiva dal Monte degli Ulivi e ci si recava, con una solenne processione comunitaria, verso la basilica dell’Anastasi, della risurrezione per concludere l’assemblea con la celebrazione dell’Ufficio lucernare (cf M. Righetti, II, 185). Nel VI secolo la processione si allungò così tanto da richiedere cinque stazioni (soste di preghiera) prima di giungere al luogo conclusivo.
Quando questa usanza passò alle Chiese occidentali e latine incontrò la tradizione delle liturgie stazionali, che erano tipiche del periodo quaresimale della Chiesa di Roma. Quella comunità cristiana, nei giorni previsti, si radunava in un luogo (collecta) e processionalmente si dirigeva verso una chiesa (statio), ove veniva celebrata l’eucaristia.
Tanto in Oriente, ove la tradizione è nata, tanto in Occidente, ove è giunta sposandosi con le tradizioni pre-esistenti, l’ingresso di Gesù fu celebrato attraverso un raduno, un cammino ed una meta comuni.
È facile allora comprendere il motivo per cui quella particolare forma di celebrazione ebbe tanta fortuna e si diffuse rapidamente ovunque, fino a raggiungere forme persino spettacolari (e forse troppo spettacolari) nel medioevo. Essa era come il paradigma della Chiesa: un popolo in cammino dietro Gesù, con Gesù, verso Gesù.
Sappiamo dal Nuovo Testamento e dai Vangeli in particolare che Gesù annunciava camminando e che, per essere suoi discepoli, bisognava camminare con lui. Così Marco, per esempio, con il suo stile asciutto e sintetico, dopo aver presentato in poche battute la figura del battista, il battesimo di Gesù ed il contenuto essenziale del suo vangelo, del suo annuncio, subito ci narra la chiamata dei primi discepoli: venite dietro a me (1,17). Matteo ci offre la stessa prospettiva, sebbene con una sottolineatura diversa. Infatti, dopo la chiamata dei dodici, egli pone sulle labbra di Gesù l’invito: Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro (11,28). Il discepolo di Matteo è colui che vive in comunione con Gesù, è sempre uno che va, ma va a Gesù. Se il cammino, in Marco, è quello della sequela dietro Gesù, in Matteo sembra essere quello verso Gesù. Luca aggiunge un altro particolare interessante. Egli, differentemente da Marco e Matteo, non parla della chiamata dei discepoli all’inizio della predicazione di Gesù, ma – per così dire – lo fa in corso d’opera. È solo nel capitolo 5 che Gesù chiama anzitutto Pietro, il quale decide di seguire Gesù per un atto di fiducia: sulla tua parola getterò le mie reti (5,5). Per Luca il discepolo cammina; tutto il suo vangelo è costruito sulla scia del percorso di Gesù verso Gerusalemme, ma sottolinea che il discepolo è colui che cammina, fidandosi di Gesù. Per il vangelo di Giovanni, che rappresenta un mondo a sé, il discorso è più complesso, però potremmo dire che le figure di discepoli presenti nel suo Vangelo sono diverse, come se si collocassero in cerchi concentrici attorno alla persona di Gesù, chi da più vicino, chi da più lontano. Come a dire che il discepolato di Gesù permette diverse forme e differenti coinvolgimenti.
Gli Atti degli Apostoli, poi, ci offrono una notizia del tutto decisiva. È quest’opera lucana, infatti, ad informarci che i discepoli di Gesù vengono chiamati quelli della via (At 9,2). E che si tratti di una definizione particolarmente cara all’autore lo dimostra il fatto che egli la usi sia in termini assoluti (quelli della via e basta) sia in termini relativi (con il genitivo: via del Signore in At 18,25 e via di Dio 18,26). Il termine greco è odòs. Un termine che Gesù stesso ha utilizzato in rapporto a se stesso: Io sono la via, la verità e la vita.
Evidentemente era fin troppo chiaro ai credenti della prima ora, come a quelli delle epoche successive, che per essere discepoli di Gesù occorreva essere disposti a camminare, a mettersi sulla strada, sulla via che è Gesù stesso.
La celebrazione delle Palme, caratterizzata dal camminare, allora ci mostra che la Chiesa, per essere quella che Gesù ha voluto, deve essere una Chiesa sulla strada, della strada, che si fa a sua volta strada e via per gli uomini e le donne a cui annuncia l’Evangelo di Gesù Cristo.
Il tema della via è di assoluta importanza per la comprensione della fede e della vita di fede; di conseguenza anche per la forma storica concreta che la comunità dei discepoli di Gesù deve assumere nei luoghi e nei tempi in cui essa a chiamata a vivere e a esercitare la sua missione.
Già l’Antico Testamento sintetizzava il cammino di fede, il rapporto con Dio e la interpretazione della vita, che ne deriva, con il termine via. Senza perderci nella ridda di citazioni veterotestamentarie, basti pensare al Salmo 1, che è l’architrave per la comprensione del libro dei salmi e la visione sapienziale della vita in Israele. Quel testo presenta all’orante due vie davanti a sé: la via dei peccatori e la via dei giusti. In questo testo, però, la via dei giusti è la via della Torah, la via della Legge. Così letteralmente la assumerà la comunità di Qumran – i cui membri amavano definirsi discepoli della Via – tanto da identificare l’obbedienza alla Legge con l’obbedienza al superiore.
Quando, però, Gesù attribuisce a sé l’appellativo di via (Gv 14,6) lo farà a modo suo. E la primitiva comunità cristiana comprenderà da subito che lì c’è l’essenziale della sua esistenza. Gesù dice: io sono la via, la verità e la vita. Su questo versetto sono stati scritti fiumi di parole. Ma scelgo di seguire e condividere con voi la equilibrata interpretazione di Brown (Giovanni, p. 745-746): Gesù afferma di essere la via, in risposta a Tommaso che gli domanda: qual è la via per il posto dove tu vai? Gesù aveva annunciato che stava andando al Padre e che nella casa del Padre vi sono molte dimore. Tranquillizzava gli apostoli dicendo: voi conoscete la via. Il dubbioso Tommaso, emblema di tutti coloro che si mettono in cammino con Gesù e dietro Gesù, parla per tutti: e qual è questa via?
È a questa domanda che Gesù risponde: io sono la via, la verità e la vita.
Sappiamo che nel quarto vangelo le frasi, che cominciano con io sono, sono frasi di rivendicazione della natura divina di Cristo e, al tempo stesso, auto-rivelazioni. In esse riecheggia l’Io sono colui che sono del libro dell’Esodo. Si capisce così, che Gesù sta rivelando la sua identità divina e lo fa con tre appellativi (via, verità e vita), che tuttavia hanno rapporto semantico stretto all’interno della frase. Potremmo tradurre così: io sono la via, che è verità e vita. In questo modo Gesù sta affermando che egli, in quanto Figlio di Dio, è l’unica via che conduce al Padre, ma che questa via non è la via della Legge, ma la via della verità – perché è in quella via che Dio si lascia conoscere – e della vita – perché è percorrendo quella via, che si riceve la comunicazione della vita divina, la partecipazione alla vita divina. Torna quello che abbiamo detto all’inizio: Dio si dice e si dà a noi, contemporaneamente.
Se la via è Gesù (inteso anche come verità e vita) allora la Chiesa di Gesù, se vuole essere il volto visibile di Gesù nella storia del mondo, deve seguire il movimento di Gesù, il cammino di Gesù.
Il Signore è la via degli uomini, perché anzitutto egli è stato la via di Dio verso gli uomini. In tanto l’uomo può dirigersi verso Dio, in quanto è stato Dio per primo a dirigersi verso l’uomo. Questo dato è evidente nella Scrittura e nel Nuovo Testamento in particolar modo. Il famoso inno cristologico di Filippesi 2 lo dice a chiare lettere: Gesù viene sovraesaltato perché prima si è piegato, si è svuotato, è disceso.
Questo dato della missione e della persona del Figlio di Dio è un dato insuperabile per la Chiesa. Essa deve essere odòs, deve essere cammino e strada, deve essere in cammino e per strada. Essa non può che fare come il suo Fondatore, Maestro e Signore: deve andare verso gli uomini e, con essi, poi andare verso Dio. Non esiste alcuna contrapposizione tra l’andare verso l’uomo e l’andare verso Dio. I due movimenti sono concomitanti, oserei dire convergenti: quanto più la Chiesa si fa prossima all’umanità, tanto più essa si approssima anche a Dio, perché è lì che Dio la vuole e lì che Dio l’ha inviata. Quanto più la Chiesa di Cristo è capace di incarnarsi nel mondo, di inculturarsi nelle diverse aree geografiche e storiche del mondo, tanto più essa scopre i meravigliosi segni della presenza di Dio disseminati in mezzo all’umanità. Solo così essa rimane «la vigna eletta del Signore, che ricopre dei suoi tralci il mondo intero e avvinta al legno della croce innalza i suoi virgulti fino al cielo» (Pontificale romano, Preghiera di dedicazione della Chiesa, 58).
Cari Amici, imploriamo dalla grazia misericordiosa del Signore, sul cui cammino anche noi ci poniamo, di essere sempre la sua Chiesa che si protende verso di Lui, senza mai distaccarsi dal cammino dell’umanità tutta.Amen.
dom Tonino +
Qui sotto il video integrale della preghiera
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