"Il mite sconfigge la violenza, soccombendo ad essa, perché la svergogna nella sua follia attraverso il sacrificio della propria vita. La vita stroncata del mite sarà ricordata con venerazione; la vita perdurante del violento sarà dimenticata con disprezzo". Così, alcune parole dell'omelia dell'Abate dom Tonino per la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola nella vigilia della domenica delle palme.
Anche alla Christiana Fraternitas, sabato 9 aprile 2022, presso la Cappella di Abbey House, si è dato inizio alla Grande Settimana con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola e la commemorazione della Cena del Signore moderata dal nostro Abate Antonio Perrella. Non è mancato il segno dei rami d'olivo con la processione.
Qui sotto il testo integrale dell'omelia del nostro
Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
Testi di riferimento Mt 21, 1-11
Carissime sorelle e fratelli, cari amici ed amiche!
Con questa celebrazione diamo inizio alla Settimana più importante dell’anno liturgico e del nostro itinerario di fede alla sequela di Gesù. Rivivremo le tappe della sua donazione completa alla volontà del Padre e della realizzazione della nostra salvezza.
Il fatto che a donarsi per la nostra redenzione sia il Figlio stesso di Dio, fattosi uomo, deve farci comprendere che l’amore del Padre verso di noi è unico e irripetibile, non conosce eguali né confronti. Da qui nasce in noi, bruciante, la domanda: e il mio amore verso di Lui è altrettanto unico, totalizzante ed irripetibile? O il nostro cuore vive diviso tra molteplici idoli?
Gli eventi della pandemia e della guerra, che abbiamo vissuto e stiamo vivendo oggi, ci mostrano quanto sia urgente ricentrare la nostra vita in Cristo, non anteporre nulla al suo amore (cf Benedetto da Norcia, Regola 4, 21; 72, 11). Immergerci nel mistero di grazia e di amore di questa settimana vuol dire lasciarci riconciliare con Dio, lasciarci vincere ed avvincere dal suo amore, permettendogli di togliere dal nostro cuore e dalle nostre labbra i nomi dei vari baal che ci siamo costruiti nella vita (cf Os 2,16). I baal sono le divinità – demoniache, perché ci separano da Dio – a cui l’uomo può prostituire il proprio cuore. Il Salmo 114 ci ricorda che essi «hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno mani e non toccano. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida». Il salmista fa riferimento alle statue delle divinità, ma ci ricorda che chiunque si costruisce degli idoli, che prendono il posto di Dio, diventa come loro: incapace di vedere, ascoltare e toccare…
Ricentrando la nostra vita in Dio ed in Gesù, noi ci riappropriamo di tutta la nostra vita umana, anche quella dei sensi, perché essi vengono cristificati!
I sensi, questo sarà il filo conduttore, il tema di questa settimana di grazia che ho scelto di trattare con voi. Scopriremo l’importanza della dimensione sensoriale nella fede cristiana come strumento che favorisce l’accoglimento, la pratica e la celebrazione della Fede. Ora entriamo nella grazia specifica di questa domenica; entriamo nel mistero che essa ci svela.
Gesù compie il suo ingresso messianico a Gerusalemme e lo fa con delle modalità ben precise. Se l’ingresso a Gerusalemme è in qualche modo l’introduzione, l’atto introitale di tutto ciò che Gesù farà, dirà e vivrà nella settimana decisiva della sua vita e della nostra redenzione, allora le modalità del suo ingresso devono avere un significato determinante per comprendere tutto ciò che verrà dopo.
Giungendo a Gerusalemme, Gesù non parla, ma compie un’azione. Per comprendere questa azione, dobbiamo ricordare prima alcuni elementi utili del ministero profetico in generale, così come Dio lo ha donato ad Israele e come il suo popolo l’ha vissuto e compreso.
Nella tradizione biblica il profeta parla, a nome di Dio, attraverso le parole (oracoli di giudizio, oracoli di consolazione, visioni interpretate, processi) ma anche attraverso le azioni simboliche.
Il gesto in ebraico è definito ȏt, segno. L’ ȏt profetico non è solo un simbolo che trasmette un significato, ma è un’azione nella quale Dio si rende presente, nella quale Dio opera qualcosa in mezzo al suo popolo e per il suo popolo. Il segno profetico attiva un dinamismo nella storia umana: è come un rivolo di potenza divina, che dapprima si fa faticosamente strada nella steppa deserta e poi, un po’ per volta, si ingrandisce fino a diventare un impetuoso torrente, che irriga le sue sponde e trasforma la terra che solca ed attraversa.
Uscendo dalla metafora, il segno profetico è un’azione con la quale il profeta manifesta la presenza di Dio in mezzo alla storia del suo popolo; e il nostro, è un Dio che parla ed agisce!
Per comprendere meglio, vorrei fare un esempio, abbastanza classico ma eloquente. Il profeta Osea riceve da Dio il comando di sposare una prostituta. Il profeta stesso diventa un segno: egli è come Dio, che ama fedelmente un popolo infedele. Quel matrimonio-segno, però, trasforma la storia: quella donna non sarà più senza moralità, senza amore, senza fedeltà.
L’improbabile, insensato ed immeritato amore del profeta verso quella donna infedele la redime e le restituisce la sua dignità di donna. Così lei, a sua volta, diventerà un segno: una prostituta sarà un ȏt profetico, perché essa rappresenterà il popolo di Dio: «ecco l’attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore […] Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà» (Os 2,16.21-22).
L’ ȏt – il segno profetico inizia come un rivolo (la chiamata del profeta, che è già un uomo di Dio) e diventa un torrente impetuoso che trasforma tutto: una prostituta non viene più usata ma amata, ed essa stessa diventa capace di amare fedelmente, fino a diventare ȏt – segno profetico del popolo. Una donna – rigettata – viene eletta come segno profetico.
Quindi, il segno significa, ma soprattutto dà inizio alla realizzazione di ciò che significa!
Solo alla luce di questa teologia biblica del segno possiamo ora comprendere l’ingresso di Gesù a Gerusalemme.
Il Signore fa una scelta chiara, nel momento in cui manda i suoi discepoli a prendergli una cavalcatura. Avrebbe potuto entrare nella Città Santa con il corteo dei pellegrini, cantando i salmi ascensionali. Invece afferma di avere bisogno di quella precisa cavalcatura. Fratelli e Sorelle, ci avete pensato: cos’ha di tanto rilevante un puledro?
Il riferimento è al libro del profeta Zaccaria – profeta poco letto al tempo di Gesù, in verità, perché non parlava di un Messia condottiero e vittorioso – il quale annuncia l’arrivo del Messia di pace e non di guerra. Egli – re – giungerà a Gerusalemme «giusto e vittorioso, umile, in groppa ad un asino, sopra un puledro, figlio di un’asina» (Zc 9,9). Egli farà sparire i carri da guerra, distruggerà gli archi e parlerà di pace a tutte le nazioni (cf Zc 9,10).
Con questo segno- ȏt Gesù sta dando inizio alla trasformazione della storia: egli viene a liberare l’umanità da ogni sopraffazione e da ogni violenza non con la forza, ma nella pace e nel dono di se stesso. Libera l’umanità mostrandole che la vita è vera, libera e sensata solo se rifiuta la logica della violenza e se la rifiuta fino alle estreme conseguenze, ovvero accettando la morte per non cedere alla logica della violenza.
Il mite sconfigge la violenza, soccombendo ad essa, perché la svergogna nella sua follia attraverso il sacrificio della propria vita. La vita stroncata del mite sarà ricordata con venerazione; la vita perdurante del violento sarà dimenticata con disprezzo.
Il segno era eloquente, anzi, evidente! Era lì, sotto gli occhi di tutti! Chiunque poteva vedere la “stravaganza” della scelta di quella cavalcatura. Eppure la gente di Gerusalemme che fa? Stende mantelli, acclama inni messianici, sventola fronde esattamente come per accogliere un condottiero.
Guardano, ma non vedono! I loro occhi sono chiusi, sono preclusi!
La cecità interiore o spirituale è probabilmente uno dei peggiori mali che ci possono capitare, perché ci chiude alla grandezza delle opere di Dio, che ci circondano, e non riusciamo più a lasciarci stupire e commuovere. Anzi, guastiamo tutto vedendo solo ciò che vogliamo vedere e che spesso non coincide neppure con la verità!
È un po’ quello che accadde al cieco nato del vangelo di Giovanni (cf Gv 9, 1-41): gli apostoli vedevano solo un mendicante, i genitori del cieco videro un problema di cui sbarazzarsi, i farisei videro solo un pericolo da arginare; solo Gesù vide una persona con una storia ed un bisogno. La tristezza, che nasce dalla cecità interiore, è che ci preclude ogni sguardo alternativo sulla realtà, paralizza i nostri occhi, atrofizza il nostro cuore, devasta la nostra fantasia.
È cieco chi, negli altri, vede solo il male; è cieco chi pensa che nella sua vita ci siano solo problemi; è cieco chi non si accorge di quale sia l’origine vera del suo malessere; è cieco chi non sa gioire del sole che sorge; è cieco chi si lamenta del mondo, ma non fa nulla per cambiarlo; è cieco chi, pur di non mettersi in discussione, è capace di usare ed abusare della Parola di Dio, per piegarla ai propri interessi; è cieco chi non comprende che le sue parole ed i suoi atti nei confronti delle persone hanno un peso ed una responsabilità verso quelle persone; è cieco chi pronuncia parole di amore e fedeltà, ma non le vive veramente; è cieco chi pensa che la situazione generale del mondo non dipenda anche da lui; è cieco chi – passando accanto al fratello bisognoso – pensa di farla franca voltandosi dall’altra parte; è cieco chi pensa di essere perfetto e altrettanto chi pensa di non avere pregi e talenti!
Questa cecità è triste, chiude nel buio del cuore e della vita, relega persone in una egoistica solitudine, insinuando la presunzione di poter stare al sicuro nell’oscurità della loro posizione, delle loro convinzioni e dei loro interessi.
«Hanno occhi e non vedono»! Da questa oscurità degli occhi della mente e del cuore liberaci, Signore, con la luce nuova della tua Pasqua.
dom Tonino +
Qui sotto il video integrale della preghiera
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