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Conferenza: Un tempo per se, un tempo per il prossimo, un tempo con Dio.

Il 23 febbraio 2018, presso il Castello Aragonese di Taranto, si è tenuta la Conferenza offerta dalla Christiana Fraternitas: Un tempo per se, un tempo per il prossimo, un tempo con Dio.


La quaresima, tempo di riflessione per la maggior parte delle confessioni cristiane ha suggerito questa iniziativa. Un modo per riflettere assieme, al di là dell'appartenenza confessionale, su se stessi in relazione all'altro. L'obiettivo della conferenza era argomentare come un tempo dedicato alla propria persona possa favorire l'apertura all'altro e come l'armonia delle relazioni favorisca l'incontro, la relazione con Dio. Sono intervenuti lo Psicologo dott. Marco Campo per il rapporto della persona con se stessa, la Sociologa Prof. Veronica Maniccia per l'apertura e la relazione della persona nei contesti micro e macro sociali ed infine il Teologo Mons. Marco Gerardo per la relazione con Dio.


Intervento dello Psicologo Dott. Marco Campo

alla Conferenza del 23 febbraio 2018 presso il Castello Aragonese di Taranto.

Un tempo per sé, un tempo per il prossimo, un tempo con Dio.

Ricordo una frase di Pessoa che recita:

“Possiamo vendere il nostro tempo, ma non possiamo ricomprarlo”.

Questa frase pone l’accento sull’importanza e urgenza di avere un tempo per se. Si urgenza, perché in questo tempo della tecnica, della complessità, avere degli attimi per se, per coscientizzare il proprio vissuto con gli altri, con il mondo e con se stessi è un tempo speso bene. E importanza, perché lo fai con la persona che ami di più al mondo: te stesso. Qualcuno potrà obiettare di amare i propri figli più della sua stessa vita. Bene. Giusto. Ma affinché questo avvenga in modo sano ed equilibrato dobbiamo rispettare un processo unidirezionale di sviluppo. Facciamo un passo alla volta per capire questo processo di sviluppo unidirezionale. Partiamo dall’osservazione della natura. In natura il cucciolo di animale quando si trova nella condizione di “cucciolo”, “bambino”, “infante”, è totalmente dipendente dal genitore. È in uno stato di dipendenza totale dal punto di vista affettivo, nutrizionale, in poche parole di sopravvivenza. Successivamente si passa ad uno stato “adulto” dove vi è la separazione dai genitori. Per diventare adulto, l’animale deve conquistare la sua totale indipendenza. Solo dopo questo stato, è pronto a sua volta alla procreazione della prole. Questa semplice, quasi banale osservazione, avviene anche nell’uomo, ma in quest’ultimo la situazione si complica perché i fattori in gioco sono molti in quanto l’uomo è fortemente condizionato dalla cultura di appartenenza e dal fatto che l’uomo rispetto ad altri animali è “quasi” privo di istinti. Cosa sono gli istinti? Gli istinti sono una risposta rigida ad uno stimolo. La cosa è evidente se paragoniamo il rapporto unidirezionale e rigido tra lo stimolo e la risposta in un animale. Si pensi ad un animale, ad esempio un leone che davanti un trancio di carne(stimolo) attiverà rapidamente la voglia di azzannare(risposta) il trancio di carne. Ci accorgiamo che la stessa cosa non avviene nell’uomo perché ha più possibilità di scelta. Un altro esempio lampante viene dalla sfera sessuale, infatti mentre nell’animale la risposta è cieca e unidirezionale, per l’uomo non è così. L'uomo erotizza parti del corpo non propriamente sessuali, intesi quest’ultime come quelle adatte alla riproduzione, bensì è capace di investire la propria pulsione sessuale anche su oggetti, che vengono erotizzati creando dinamiche feticiste. Si pensi ad un tacco di una scarpa per il maschio. Ora, sgomberato il campo da un perfetto parallelismo tra animale e uomo, ci concentriamo su quest’ultimo, l’uomo. L’uomo possiede tre personalità al suo interno, intuitivamente quella infantile, adulta e genitoriale, che dipendono solo in piccolissima parte dalla condizione anagrafica. Infatti puoi chiedere ad un bambino di dieci anni di badare al suo fratellino di 4 anni in assenza dei genitore, e lui, il bambino di 10 anni applicherà la personalità genitoriale nei confronti di suo fratello più piccolo. Parimenti, un uomo di mezza età che gioca sta applicando la sua personalità infantile. Ora, non ci resta che capire che cosa sono queste personalità.

La personalità non è nient'altro che la nostra autoimmagine inconscia, ovvero come ci percepiamo a livello inconsapevole.

Facciamo un passo di lato nel nostro discorso. Prima di approfondire la dinamica psicologica delle personalità, si deve ricordare che l’uomo è gettato in un contesto, in una cultura, in una società e non possiamo prescindere nel trovare un legame tra le personalità intrapsicologiche e il contesto dove si sviluppano.

Ora, la società di oggi, per come è organizzata, per il fatto che sia tecnicamente assistita, non facilita più lo sviluppo della personalità affettivamente adulta per mancanza di riti di passaggio. Pensate ad antiche popolazioni come gli indiani d’America, quando il ragazzo doveva fare il passaggio alla vita adulta doveva affrontare delle prove di coraggio. Il superamento di tali prove era il parametro per l’accesso alla personalità adulta.

Ora, la società non permette questo riti di passaggio, a tal punto che si protrae la permanenza nella personalità infantile. Questo comporta la coazione a ripetere di comportamenti “pre-passaggio” alla dimensione adulta.

E quindi?

Le potenziali memorie traumatiche, quelle delle subpersonalità infantili permangono in memoria e si impongono come pensiero automatico, rimuginio, stati ansiosi, preoccupanti…

Passiamo in rassegna di come possono formarsi queste subpersonalità.

Immaginate il rapporto madre-figlio.

Da lì nasce tanto dello sviluppo del bambino. Le neuroscienze ci dicono che le mappe emotive e più tardi anche cognitive si formano nei primi anni di vita, dai 0 ai 6/7 anni. Naturalmente lo sviluppo è un processo che dura nell’intero arco di vita, ma il primo periodo è determinante.

Perché il primo periodo è determinante?

Il bambino interiorizza gli stimoli esterni e li elabora con il suo grado di sviluppo.

Ad un livello ideale, la relazione diadica tra madre-figlio è amorevole. Ma le persone, i genitori, sono stati piccoli a loro volta, e può capitare che abbiano subito delle ferite. Per esempio l’abbandono o il tradimento di un genitore può innescare dinamiche affettive che permangono nella memoria del soggetto in questione. Il bambino per sua natura non è supportato da istinti e quindi per formare le sue mappe del mondo deve entrare in relazione e da questa relazione che emergono le mappe affettive e cognitive.

Al pari di una mappa geografica, utile quando dobbiamo muoverci in un luogo che non conosciamo, le mappe cognitive ed emotive sono uno strumento che guida la nostra vita e ci permette di orientarci nelle relazioni, nella vita quotidiana, nelle decisioni, nelle scelte etiche.

Ora, il punto è:

“chi decide le caratteristiche della propria mappa soggettiva?”

Le relazioni.

Sarebbe bello che tutte le relazioni genitore-bambino fossero basate su comprensione, amore, accettazione, empatia, benevolenza, rispetto, incoraggiamento, organizzazione cognitiva dando feedback sulle azioni del bambino nel suo essere nella relazione e nel mondo, ma non tutte le relazioni sono cosi. Molti genitori sono ansiosi, impauriti, preoccupati, ossessivi, narcisisti, schizoidi, o meglio, alcune loro parti sono cosi.

Beninteso, i genitori fanno il meglio che possono fare con i loro strumenti.

Ora, passo in rassegna di alcune dinamiche delle subpersonalità. L’esempio che farò è volutamente estremo. Perché estremo? Perché esempi che sfociano nella patologia sono più demarcati e netti nelle dinamiche sottostanti la patologia stessa. Credo che questa maggiore demarcazione renda di più facile comprensione lo studio di queste dinamiche.

L’esempio è del genitore narcisista.

Quando parliamo di: “genitore narcisista” intendo quest’ultimo, non totalmente narcisista, ma lo è una sua parte. Questo genitore avrà anche altre parti come ad esempio parti amorevoli.

Il bambino che fa parte di questa relazione, interiorizza anche la parte narcisistica ma in modo sadico dal genitore. Perché sadico? Perché il narcisismo è interessato al potere sugli altri. Sarebbe scorretto affermare che il genitore vuole “solo” dominare sul bambino, va ricordato dunque che è solo una parte, e non altro. La parte narcisistica è per sua natura e definizione interessata alla prevaricazione, perché deve essere il più grande, il più visibile, deve emergere sugli altri. E se anche il bambino sente questa parte del genitore qualche volta su di se, la percepisce come ferita potente. Questo è sadismo.

Quindi si possono creare dinamiche affettive del tipo che prima il bambino si sente amato e poi si sente come sottomesso, dominato, da perseguitare, da punire.

In relazione a questa parte, cosa può fare il bambino?

Cosa può fare un infante che è totalmente dipendente dal genitore?

Inoltre, il bambino sa riconoscere chi è sua madre?

È quella amorevole o quella narcisista?

Sembra che il bambino sappia distinguere la madre amorevole come brava, e la madre narcisista come cattiva.

È vero anche che con lo sviluppo neurofisiologico e quindi con la maturazione cerebrale, il bambino acquisisce le capacità d comprendere che la parte amorevole e la parte narcisista convivono nella stessa persona, la madre. Ora, il bambino nella migliore delle ipotesi può elicitare e porre l’attenzione alla madre “buona”, mentre nella peggiore ipotesi pone attenzione su quella narcisista. Vi è anche la posizione intermedia, ovvero la mamma è amorevole ma anche “cattiva”.

Tenete conto che il bambino ha una capacità ridotta di elaborare il vissuto relazionale. Codifica il suo vissuto con il suo “io” di 2,3,4,5 anni che non è lo stesso “io” di quando abbiamo 30,40,50 anni, ma la cosa interessante è che quelle memorie di ferite e/o traumi permangono in memoria come sono state codificate. Quindi, anche all’età di 30 anni puoi avere dentro di te delle memorie relazionali di ferite affettive che sono state codificate all’età di 2,3,4 anni e sono nell’età attuale pressoché invariate. È logico e naturale presupporre che in età adulta ci siano parti di noi che entrino in conflitto con altre parti perché codificate da un “io” diverso.

Ora, ampliando la situazione, possiamo inquadrarla anche dal punto di vista della specie, che per sua logica ci predispone fin dalla tenera età all’espansione sociale e relazionale, ad apprendere sempre nuove e importanti capacità per la sopravvivenza. Questa connaturata predisposizione all’apprendimento quando incontra queste ferite può essere bloccata e questa energia di espansione può ripiegarsi su se stessa. Ripiegandosi su se stessa, può generare una parte che sente il senso di colpa.

Perché senso di colpa?

Perché il bambino essendo dipendente affettivamente dal genitore, non può incolparlo, perché non è in grado di cavarsela da solo e quindi è “costretto” ad incolparsi creando la parte di sé che non si sente bravo abbastanza di come lo vuole il care-giver, e quindi di non andare bene, di essere un poco di buono, di essere una nullità, etc.

Dunque, potete notare come da un semplice punto di partenza, la relazione diadica, si possono evolvere più parti dentro di noi. Riassumendo, finora abbiamo incontrato una parte amorevole, una narcisista, una con il senso di colpa.

Si può creare un’altra parte, di natura reattiva, che sente come ingiusto questa sottomissione e prevaricazione ad opera della parte narcisistica. Questa parte reattiva invece di incolparsi punta il dito! Perché punta il dito? Perché percepisce tale situazione come ingiusta. E da questa percezione di ingiustizia che nasce la rabbia verso l’altro. Ora, dovete capire che la parte che si incolpa e quella che prova rabbia convivono nella stessa persona.

Che dinamiche possono emergere da tale relazione tra le parti?

E cosa succede se il bambino tira fuori solo rabbia?

Può perdere l’affetto del genitore! E il bambino essendo dipendente totalmente dal genitore non può minimamente permettersi di perdere l’affetto del genitore. Quindi per scacciare questa ipotesi di perdita dell’affetto viene fuori un’altra parte che chiamiamo “maschera” che inibisce la parte narcisistica. Questa inibizione consiste nel ributtare la parte narcisistica nel senso di colpa. Così facendo, viene a crearsi una sorta di danza tra la parte che prova rabbia verso l’altro e la parte che incolpa se stessa di essere una nullità. Portare alle estreme conseguenze la parte che avverte senso di colpa, attraverso ripetute dinamiche unidirezionali di questo tipo, investono il soggetto di energia psichica ridondante, univoca e unidirezionale, stabilendo un comportamento simil-ossessivo. Perché simil-ossessivo? Perché il soggetto tenterà ossessivamente di evitare azioni e scelte potenziali a provare senso di colpa, e per evitare tale cosa, si abbassa la tensione intrapsicologica attraverso condotte compulsive, ovvero azioni rituali, schematiche e ripetitive.

Spero, di aver fatto breccia nella mente del lettore per il fatto che siamo abitati da più parti. Auguro a voi, che questa brevissima trattazione sia da stimolo per prendere consapevolezza delle proprie dinamiche interiori e utilizzarle come strumento utile per migliorare la qualità della propria vita.

Concludendo, abbiamo notato che queste parti si relazionano in dinamiche di forza e che da queste interazioni scaturiscono comportamenti nuovi.

Il fine è lo sviluppo di una memoria e autoimmagine affettivamente adulta che si imponga sulle memorie più infantili in maniera tale da superare situazioni conflittuali con la possibilità di far emergere la cosiddetta personalità integrata, dove tutte le parti “remano” in un'unica direzione.

Intervento della Sociologa Prof.ssa Veronica Maniccia

alla Conferenza del 23 febbraio 2018 presso il Castello Aragonese di Taranto.

Un tempo per sé, un tempo per il prossimo, un tempo con Dio.

1. Introduzione al “cambiamento”

La rivoluzione industriale ha portato ad uno stravolgimento netto delle condizioni socio-culturali, lasciando una pesante impronta psicologica e sociale per le persone odierne. Per la prima volta nella storia dell'umanità si assiste ad un cambiamento che investe trasversalmente tutti i settori di vita sociale, di cui l'industria ne è solo una componente. È indubbio che il lavoro sia il perno centrale da cui discendono tutta una serie di stravolgimenti inarrestabili che ancora oggi hanno un certo rilievo nel panorama economico e sociale. Basti pensare alla destrutturazione del sistema familiare: le migliori condizioni occupazionali, che non sempre coincidono con le condizioni lavorative, hanno creato i presupposti per una trasformazione totale del sistema famiglia.

Le caratteristiche più importanti della costruzione tipico-ideale della famiglia che oggi definiamo coniugale, per distinguerla dal vecchio modello patriarcale, sono:

a) la relativa esclusione di un'ampia gamma di parenti di sangue e affini dai suoi affari quotidiani allentando così i legami e gli aiuti reciproci;

b) la collocazione dell'abitazione della coppia non più determinata dai parenti, ma sarà una residenza “neolocale” cioè nuova, e a sua volta rafforzerà l'indipendenza della neo famiglia;

c) la scelta del compagno/a è libera, perché diverse sono le basi su cui viene costruito il matrimonio: la parentela non ha forti diritti o interessi finanziari nella questione. Tutto è basato sulla mutua attrazione tra due soggetti.

Quando un simile sistema comincia ad emergere in una società, è probabile che cambi l'età del matrimonio, perché non solo cambiano gli scopi, ma anche lo status delle persone. In una società postindustriale come la nostra, i giovani devono essere abbastanza vecchi da poter badare a se stessi prima di sposarsi, magari aver completato tutto il ciclo di studi, e probabilmente trovare un' occupazione soddisfacente. Dunque, devono essere tanto vecchi quanto il sistema economico li obbliga ad essere per poter considerarsi indipendenti al momento del matrimonio. Alcuni giovani di classe media possono posticipare l'ingresso nel mondo del lavoro contando sull'aiuto dei propri familiari fino a che finiscono di completare gli studi facendo slittare l'età del matrimonio, quindi, dell'emancipazione dalla famiglia di origine. La coppia decide il numero dei figli che avrà sulla base dei propri bisogni, non di quelli di un ampio gruppo parentale, e la contraccezione, l'aborto, o l'infanticidio possono essere usati per controllare questo numero.

Dato che non si può più contare sulla parentela più ampia per avere sostegno emotivo, la piccola unità coniugale è il luogo principale in cui viene mantenuto l'equilibrio, perciò le emozioni tendono ad essere intense e confinate tra moglie e marito a volte destabilizzando il rapporto. Di conseguenza il tasso di divorzi è probabile sia alto, ed è probabile che non ci si risposi dato che non c'è una unità parentale più ampia che assorba i bambini.

Lo schizzo sopra abbozzato è una costruzione tipico-ideale della famiglia “industriale” che oggi ha subito ulteriori stravolgimenti, in quanto l'industrializzazione è un processo inarrestabile nelle sue conseguenze e, sicuramente se questo schema venisse adattato alla nostra società postindustriale, postfordista, risulterebbe manchevole in alcuni punti per una giusta descrizione.

Ad oggi:

a) i legami nipoti-nonni sono molto più intensi in quanto quest'ultimi suppliscono alle mancanze dei genitori per esigenze lavorative, dedicando tempo di qualità ai propri nipoti;

b) il matrimonio non è l'unica via per la costruzione di una famiglia e le convivenze, anche tra omosessuali, senza matrimonio nella fase postindustriale sono aumentate,

c) il modo di vivere la sessualità fuori dalla sfera familiare è forse il cambiamento più evidente. L'aumentata attività sessuale significa anche un incremento del rischio di gravidanze non volute, e tale rischio non è cancellato totalmente dalla contraccezione e dall'aborto, difatti sono specialmente le coorti più giovani a non aver acquisito la disciplina del controllo delle nascite.

Sostanzialmente non dobbiamo pensare, quindi, che le reti parentali scompaiano definitivamente con l'industrializzazione. Vi è una fondatezza teorica nell'aspettarsi una vitalità dalle reti parentali in una società tecnologicamente avanzata; esse rispondono a molti bisogni meglio di quanto possa fare la burocrazia. Questa evoluzione, prodotto del capitalismo, ha depauperato la famiglia dalle sue funzioni morali e materiali che in passato organizzavano la totalità della vita personale e sociale. L'eliminazione del pesante apparato di controllo familiare basato sull'autorità non ha comportato un'autentica liberazione, in quanto le antiche relazioni non sono state sostituite da forme di organizzazione nuove in grado di soddisfare le esigenze create dalle moderne strutture di produzione. Scompare, quindi, quello spirito comunitario, che seppur opprimente nelle società tradizionali, fungeva da faro valoriale.

Accanto alla disgregazione della struttura familiare e al suo nuovo assetto, c'è sicuramente l'industria e la sua produzione di valori al consumo. La nostra società è definibile come postindustriale, postfordista, alcuni teorici parlano di terza rivoluzione industriale, per indicare la fase più avanzata dell'industrializzazione: le macchine, la tecnologia, il modo di lavoro e di produzione, l'orientamento al consumo non sono più novità ma realtà economiche e sociali.

L'allargamento del mercato transita da qualitativo a quantitativo, e quindi da una produzione di oggetti di alto valore specifico, nati per stimolare la capitalizzazione e il senso edonistico-estetico, si passa ad un allargamento del mercato di tipo quantitativo con la democratizzazione dei lussi[1]. Questo traslare da un modello all'altro non libera però l'uomo dalla presenza costante del bisogno. Se il desiderio di beni nuovi e non propriamente necessari è uno degli elementi propulsivi del primo capitalismo, la gestione dei lussi, la loro creazione e il loro “addomesticamento” nelle dinamiche della moda è uno dei fattori che mantengono in costante movimento la ruota del commercio nelle sue fasi più mature. Nella società capitalistica i lussi vengono prodotti in serie per cerchie sempre più allargate di persone, in questo modo esse non solo si democratizzano ma si assoggettano, si piegano alle dinamiche della moda, divenendo largamente e fortemente “responsivi”, non come comunemente si pensa alle esigenze dei ricchi, quanto alla produzione programmata su larga scala: i consumatori moderni sono vittime della moda tanto quanto i consumatori delle società primitive. Con la divisione del lavoro e la mobilità sociale tutti, se dispongono del denaro sufficiente, hanno il diritto di acquistare beni sul mercato. Diritto non banale se si pensa alleleggi suntuarie, quel particolare dispositivo legislativo atto a disciplinare l’ostentazione del lusso per classi sociali, sesso, statuseconomico, religioso o politico. Note in Italia fin dall'epoca romana, tali norme assumono rilievo dal duecento, con l’espandersi degli scambi commerciali e la nascita di nuove necessità e dei relativi simboli di ricchezza. Nate per evitare il rischio di “contaminare” le barriere fra gruppi sociali ed entrare in contrasto con la moralità invocata dalla Chiesa.

In questa nuova situazione, la moda orienta sicuramente i soggetti all'acquisto, diventando a tratti anche indipendente dai singoli individui, impegnandoli costantemente in nuovi atti di consumo. Le grandi città, le metropoli diventano il luogo principe del consumo, la loro esistenza si deve a una vasta concentrazione di consumatori. Nello stesso tempo consolida l'egemonia pressante del consumo di beni e ovviamente anche servizi. Le feste, e in generale qualsiasi occasione di aggregazione sociale non rimane confinata in luoghi esclusivi, non è più elitaria ma fruibile a tutti. La democratizzazione dei lussi è dunque effetto e causa di quell'organizzazione capitalistica della produzione che, si sottrae dai capricci dei ricchi e si piega, oltre che a elementi soggettivi, ad una sovrastruttura più ampia: quella della moda frenetica che permette alle persone di riconoscersi in

un gruppo di appartenenza, e allo stesso tempo di distinguersi; un nuovo registro di consumo di lusso e cioè di beni la cui principale funzione è retorica e sociale.

Possiamo considerare, quindi, la società dei consumi come un tipo storico di società tipicamente occidentale. Se è vero che gli esseri umani da sempre hanno usato i beni per scopi simbolici, è pur

vero che merci, luoghi, processi di consumo e produzione particolari hanno caratterizzato la genesi dei modelli e della cultura di consumo moderna.

Storiograficamente e sociologicamente si individua come momento nodale per la nascita della società dei consumi l'ottocento. I vari studi rilevano innanzitutto la diffusione dei grandi magazzini, quei luoghi che Emile Zola avrebbe definito come paradiso delle signore[2], del sistema pubblicitario, e la diffusione di beni domestici: frigorifero, televisione, lavatrice ecc.. A questi studi poi si aggiungono quelli sull'analisi sociologica del passaggio a un modello di produzione postfordista e il concomitante diffondersi di modelli di consumo flessibili e sempre più individualizzati. La nascita dei grandi magazzini ha segnato il nostro modo di consumare perché ha reso visibile all'intera popolazione un gran numero di merci tanto da rendere “viva” la connessione tra identità personale e commercio: sono quello che compro. Il tempo libero, anch'esso invenzione dell'ottocento, è fortemente interconnesso con la commercializzazione e lo shopping. A partire dall'Ottocento chi cammina per le strade delle grandi città può considerarsi un consumatore, soggetto attivo nell'acquisizione dei significati che ricava dalla spettacolarizzazione delle merci. Vi è ormai consenso sul fatto che siamo entrati in un'era postindustriale e/o postfordista che tende ad allontanarsi dai prodotti standardizzati producendo una maggiore varietà di merci in rapido mutamento, e modelli di consumo eclettici, fluidi e anche di nicchia.

Un'era che ha consentito l'incremento delle possibilità di mobilità sociale, l'evoluzione dei rapporti tra sessi, l'urbanizzazione, la crescita del consumo di merci voluttuarie. Un'era che ha consentito anche alla classe media, divenuta protagonista del cambiamento, di accedere al consumo di merci umili ma iperesteticizzate. Pensiamo al successo commerciale di Ikea che offre elementi di arredamento innovativi a prezzi accessibili. La società dei consumi è quindi emersa gradualmente con il progressivo, ma non lineare o uniforme, coagularsi di una varietà di fattori che si sono declinati di volta in volta in forme anche profondamente innovative.

2. Per una definizione di società dei consumi.

Si delinea cosi una trasformazione di vastissima portata il cui senso si legge soprattutto in chiave culturale, come il consolidarsi di una forma di vita caratterizzata dalla centralità della figura del consumatore e delle azioni di consumo.

Queste azioni di consumo sono cariche di potere valoriale, e il loro valore non è fondato su un dato oggettivo e assoluto come le proprietà materiali e la quantità di lavoro che incorporano e

che è stato necessario per produrle[3].

Nella metropoli l'individuo avrà bisogno di poter indossare vestiti che sappiano segnalare agli altri la sua identità, sia come appartenenza a un gruppo, sia come originalità e individualità. Nelle società tradizionali il principio guida per l'attribuzione di valore ai beni era dato dalla patina (ovvero dall'aspetto consunto che i beni acquistano a causa dell'usura nel corso di diverse generazioni), nel postmoderno il principio guida diviene la moda, intesa proprio come ricerca del nuovo, e ricerca continua di una propria identità. L'appropriazione di nuovi modelli implica un processo di rinegoziazione della propria identità per cui il soggetto mentre assorbe o si appropria, espande e modifica se stesso. Molte sono le voci che si sono levate a stigmatizzare il consumo, additandolo come fonte di disordine morale, come miraggio che corrompe gli animi. Secondo tale visione, il consumo, deprecato nella sua veste moderna come “consumismo”, ha dato luogo ad un impoverimento spirituale per cui si ricorrerebbe a beni materiali quali surrogati di altre, tradizionali forme di soddisfazione, autorealizzazione e identificazione. La cultura del consumo ha promosso un tipo di personalità “narcisistica” così ossessionata dai propri bisogni da vedere gli altri solo in relazione ad essi. La formazione dell'identità non avverrebbe più in relazione a ideali stabili sostenuti dalla famiglia, che come abbiamo visto vive un momento di forte crisi, ma alla possibilità di presentare un'immagine di sé vendibile e convincente. In quest'ottica, laddove la cultura ascetica della produzione favoriva lo sviluppo di personalità forti e attaccate al dovere e alla famiglia, la cultura del consumo favorisce lo sviluppo di personalità deboli e isolate che vanno alla continua ricerca di una gratificazione negli oggetti e che sono destinate a essere continuamente deluse[4]. Un piacere di cui i soggetti sono alla continua ricerca per riempire il loro vuoto interiore è infatti una forma di aggressività, che non riconosce nulla di sacro ma riduce tutto a una merce, un oggetto interscambiabile con altri.

La cultura delle merci che entra nelle case e trasforma tutti in consumatori isolati è ,quindi, una

fonte costante di insoddisfazione. L'attore sociale passa da una situazione in cui la sua identità è, in un certo senso, imposta dalle cose, le sue azioni e scelte di vita sono determinate dagli oggetti che possiede in base ad una condizione di potenzialità assoluta. La conseguenza più immediata di tale fenomeno è l'evidente potere delle cose di determinare le persone, le loro vite, e le loro azioni. Il dominio assoluto sulle merci comporta una libertà negativa, e cioè libertà da vincoli esterni, incluse le prescrizioni legate alla tradizione e alla religione, su cosa consumare e su come farlo. Così, diviene dominante un profondo nostalgico desiderio di conferire alle cose una nuova significatività[5]. Paradossalmente, lo spazio del soggetto aumenta, ma proprio per questo egli può

trovarsi a essere paralizzato, incapace di dare valore personale alle cose.

In altri termini, come suggerisce Simmel, nelle società moderne la costituzione del soggetto mediante i beni si configura come un processo attivo, ma inconcludente. Non si deve pensare che, con l'avvento dell'e-commerce si sia aperto un canale in cui l'attore, magari assumendo un'identità fittizia, navighi liberamente tra le merci, ormai capace di concentrarsi solo sui significati degli oggetti e affrancato dalle tentazioni della materialità. Al contrario, non si deve pensare che sia preda dell'acquisto facile. Internet è uno spazio moralmente strutturato che ha le sue regole persino quando l'oggetto di scambio è materiale pornografico. L'acquisto in internet richiede consumatori molto più attivi di quanto ci si possa aspettare; basti pensare a Amazon, per esempio, per l'acquisto di libri o altre merci, che domanda ai clienti di inviare le proprie considerazioni per inserirle successivamente nel proprio sito. In tale modo, i consumatori non hanno solo l'onere di fare ordini ma possono contribuire attivamente a far circolare alcune merci anziché altre, sottolineando alcuni significati piuttosto che altri. Un'opportunità di risparmiare tempo e, al contempo, un invito ad allargare all'infinito il tempo dedicato alla selezione del prodotto per riuscire ad effettuare la scelta più oculata.

3. L'era globale

Questa spiacevole percezione del fatto che le cose non sono più sotto controllo è stata espressa col concetto oggi molto di tendenza: la globalizzazione. A voler scavare il suo significato più profondo, l'idea di globalizzazione rimanda al carattere indeterminato, ingovernabile, autopropulsivo degli affari mondiali. La globalizzazione è il nuovo disordine mondiale.

Questo concetto si è sostituto a quello di universalizzazione tanto amato dai filosofi, quest'ultimo però racchiudeva la speranza, l'intenzione e la determinazione di creare un ordine, ma significava soprattutto ordine universale[6]. Allo stesso tempo dichiarava l'intenzione di rendere simili le condizioni e le possibilità di vita per tutti e dovunque. Niente di tutto ciò è presente nel concetto di globalizzazione, i cui effetti non sono né voluti né anticipati. Insomma, globalizzazione non è quanto attiene a ciò che tutti noi, o almeno quelli dotati di maggior iniziativa e risorse, vorremmo o spereremmo di fare; bensì a ciò che ci sta accadendo.

Bauman sostiene che tale fenomeno spinge le economie a produrre l'effimero, l'instabile, il precario; tutto ciò per la ricerca spasmodica dell'attenzione del pubblico. Beni, servizi e messaggi devono sedurre e indurre desideri, e nella seduzione avviare la lotta tra potenziali concorrenti; una volta riusciti in questo intento devono fare spazio in fretta per altri oggetti del desiderio.

L'industria di oggi è sempre più legata alla produzione di attrazioni e tentazioni, il desiderio una volta soddisfatto, non può sopravvivere a se stesso pertanto viene aperta nuovamente la caccia a inventare nuovi desideri. La società moderna ha scarso bisogno di una massa di manodopera industriale; ha invece bisogno di impegnare i suoi membri nel ruolo di consumatori a cui si impone una norma: saper e voler consumare. Aspetto presente anche nelle società tradizionali, ma la differenza risiede nell'enfasi e nel considerare il consumo come priorità.

L'uomo postmoderno, tardomoderno, “l'abitante della società dei consumi” che tipo di uomo è? Quesito importante da analizzare per capire, successivamente, se sia veramente fondamentale e necessario per l'attore sociale, oggi, contemplare un tempo per il prossimo. Il consumatore di quest'epoca è una creatura totalmente diversa dal consumatore di qualsiasi altra società precedente. Non si lavora più per vivere, né tanto meno si vive per lavorare o meglio non solo; oggi il dilemma è se si abbia bisogno di consumare per vivere o se si viva per consumare, qualora si sia ancora capaci di separare il vivere e il consumare, e se ne senta la necessità.Nulla dovrebbe essere abbracciato dal consumatore come definitivo, nessun desiderio come l'ultimo; è la temporaneità a contare davvero. Il gioco del consumismo non si basa tanto sul possesso e sull'acquisizione di merci, quanto sull'eccitazione per sensazioni nuove mai sperimentate prima. I consumatori sono prima di tutto raccoglitori di sensazioni: sono collezionisti di cose solo in un senso secondario e derivato[7].

Il desiderio non vuole soddisfazione, al contrario il desiderio vuole desideri. La prospettiva di un mondo che non contenga niente di desiderabile deve essere il più sinistro tra gli orrori per il consumatore ideale, che ha bisogno di “rimanere sveglio” e perennemente sedotto. Tutti vogliono essere consumatori ma non tutti possono esserlo nel senso pieno del termine, ad alcune persone manca la ragionevole speranza di avvicinarsi a ciò che si desidera, ovvero mancano i mezzi. Si tratta di un tipo di privazione resa ancor più dolorosa dall'ostentazione con la quale i media mettono in mostra la conquista dello spazio e la virtuale accessibilità a spazi che nella realtà non virtuale restano ostinatamente irraggiungibili.

Coloro che risiedono in questo mondo degli oppressi, ovvero coloro che non dispongono dei mezzi adeguati per accedere allo spazio del consumo, e pertanto subiscono questa anomia[8]per dirla alla Merton, condividono lo stesso grado di oggettività, esternalità, coercizione che Emile Durkheim ha elencato tra i caratteri di ogni realtà sociale. Ovvero: consapevoli di una realtà consumistica oggettiva, esistente, la osservano e la esperiscono dall'esterno perché propinata dai media o da altri

canali pubblicitari, ma subiscono la privazione di non potervi accedere.

Si delineano così due tipologie di mondo, per usare la suddivisione di Bauman[9]: a) ilturista ; b) il vagabondo. I turisti cavalcano i piaceri offerti dalla globalizzazione, la flessibilità ha offerto loro opportunità meravigliose, di cambiamento. La loro vita si dilunga sui piaceri che il nuovo mondo dell'alta velocità e mobilità, elettronico, computerizzato le offre. Costoro viaggiano quando vogliono, sono indotti a viaggiare e vengono pagati per farlo e, quando lo fanno sono accolti benevolmente.

I secondi, i vagabondi, viaggiano da clandestini, spesso illegalmente. Accade che paghino per l'affollata stiva di barche più di quanto gli altri non paghino per il lusso dorato della “classe affari”. Ciononostante, li si guarda con disprezzo. Per questa tipologia di persone appartenenti a questo “secondo mondo” la globalizzazione distrugge l'esistenza; la mancanza di risorse familiari o risparmi personali, maggiore flessibilità vuol dire essere sfruttati più a fondo dai datori di lavoro. I vagabondi sono, si potrebbe dire, turisti involontari.

Il fenomeno che oggi viene acclamato come globalizzazione è volto a soddisfare i sogni e i desideri del turista. Il suo secondo effetto è, collaterale eppure inevitabile, di trasformare molti altri in vagabondi.Le conseguenze culturali e psicologiche della polarizzazione sono enormi. Il vagabondo è l'alter ego del turista, il suo più ardente ammiratore e non ha altra immagine della buona vita. Si adora la ricchezza stessa, la ricchezza come chiave di uno stile di vita più fantasioso, come capacità di scegliere come vivere, i luoghi dove soggiornare, con chi stare, e possibilità di cambiare tutto secondo volontà e senza alcun sforzo. La ricchezza, nella società dei consumi, diventa valore insieme al prestigio sociale. L'effetto perverso è che il povero, ma anche colui che si trova a metà tra i due mondi, non abita in una cultura separata da quella del ricco e osserva dall'esterno la vita che vorrebbe, a volte scimmiottando uno stile di vita che non gli appartiene, magari indebitandosi. Ilvagabondo è un consumatore pieno di difetti, non lubrifica gli ingranaggi della società del consumo, non aggiunge nulla. È inutile, e quindi anche indesiderabile[10],rappresenta l'incubo del turista, il suo demone interiore, perché è ciò che potrebbe diventare; i vagabondi mostrano l'alternativa a quella vita.

La religione dei consumi, così la definiva George Ritzer, sociologo americano, che attraverso una ricca e dettagliata analisi dei principali canali del consumismo, ci fa riflettere su quanto la nostra realtà quotidiana sia guidata dalle grandi catene commerciali tanto da avere delle forti implicazioni sociali. Continueremo a comprare molto di più di quello che abbiamo bisogno. Cambieranno i modi di acquistare magari spariranno i supermercati ma compreremo sempre e comunque. Quello

che ci si augura è di trovare il tempo da dedicare alle cose importanti[11].

Tempo da costruire, soprattutto in considerazione del fatto che durante il processo di modernizzazione in Italia, la Chiesa cattolica viene investita da una crisi che sembra completare il processo di secolarizzazione inteso come emancipazione mondana dalle forme della religione cristiana. Questa crisi è determinata dalla mutazione antropologica degli italiani, che a partire dagli anni Settanta, assumono sia un modello di vita edonistico e consumistico, sia una concezione della realtà razionale e prettamente scientifica. Nonostante facesse parte di quella tradizione monoteistica che ambiva ad identificarsi come una cultura desacralizzata, la Chiesa cattolica rappresentava paradossalmente l’ultima àncora di salvezza per il sacro, grazie alla realizzazione della mediazione tra le forme sacrali pre-cristiane adottate dalla società contadina e la dottrina cattolica.

Anche la nostra sfera privata ne è travolta. Come agisce tutto ciò sulle esistenze individuali e sulla vita sociale? Con quali conseguenze?

4. La costruzione di un “tempo”

Alla luce di questa, seppure breve, analisi contestuale/culturale che vede la società odierna caratterizzata da forze antagoniste e da un equilibrio precario, le domande a cui cercare di dar risposta sono: Chi è l'uomo di oggi? C'è spazio per un tempo per sé, per il prossimo, e c'è un tempo per Dio?

Cercherò di argomentare tali punti partendo da un presupposto fondamentale: ogni uomo trascorre la sua intera esistenza nella ricerca incessante della propria identità, quella domanda “chi sono io?” lo perseguita, lo interroga e a tratti lo inquieta. Sapere chi si è, conoscere se stessi e assumere se stessi non è mai un percorso che arriva a compimento, nulla è mai definitivo perché la costruzione della nostra persona avviene sempre in relazione ad un altro significativo e significante. L'identità è un vero compito spirituale per il religioso: perché è a partire da questo che la vita cristiana assume quei caratteri di dinamicità, apertura e spiritualità,oserei dire autentica. Particolarmente in una società dell'incertezza, diventa un compito essenziale perché la tendenza è quella di rifuggire la soggettività, la responsabilità, la necessaria differenza, l'urgenza della scelta in nome di un'identità globale, che però non può essere l'unica. La ricerca dell'identità è fatta sempre da un uomo che vive, subisce molteplici interazioni con tutto ciò che lo circonda, pertanto l'obiettivo è quello di integrare i diversi aspetti che costituiscono la realtà dell'uomo, quali: sesso, famiglia, chiesa, professione; i diversi riferimenti ideologici: politica, religione, concezione del mondo; i

comportamenti: etica, stile di vita. Se questo processo non avviene, allora ha il primato la frammentarietà, l'esasperazione dell'individuo, la schizofrenia spirituale e interiore.

Per quel che riguarda l'identità religiosa, e l'uomo è per definizione animale sociale e religioso, occorre tener conto che oggi nella nostra società postmoderna, globale e uniformante segnata da una velata tolleranza, pluralismo, complessità e indifferentismo, i riferimenti oggettivi sono diventati più labili e anche meno efficaci. L'adesione a un corpo di dottrine, l'appartenenza a una confessione, l'etica sono riferimenti che hanno perduto molto il loro peso, mentre appaiono più determinanti per l'identità alcuni cammini soggettivi, e percorsi personali. Il rischio è sicuramente quello di un ripiegamento individualistico, definito come religions à la carte[12]proprio di chi sceglie dal supermercato delle religioni quello che gli piace, l'abito che lo veste meglio perdendo l'autenticità del messaggio divino.

Contrariamente a quanto si possa pensare, la secolarizzazione non ha cancellato la religione, oggi il fenomeno religioso si presenta sostanzialmente in maniera diversa, trasformato e a tratti più aggressivo: le forme settarie, terapeutiche, riescono a sedurre gli inquieti occidentali impegnati in esperienze spirituali, come se fossero dei viaggi da intraprendere, da provare. In realtà, li conducono, molto spesso, ai lidi dell'indifferenza soprattutto verso gli altri.

Vi è oggi un religioso anche selvaggio che si richiama più a delle tecniche che a una cultura spirituale, ed è l'espressione del narcisismo dominante che privilegia le emozioni, la dipendenza nei confronti dei leader carismatici, l'effusione, l'immediatezza della presenza divina, l'indifferenziazione degli individui, la credenza poco razionale: un ambiente cristiano mondanizzato che scambia il parlare di Dio e su Dio con la conoscenza e l'esperienza di Dio, riducendo tutto a una religione del narcisismo totalitario[13].Proprio per questo motivo è necessario un lavoro individuale, e di relazione sulle persone stesse. Il discorso su Dio deve essere necessariamente un discorso sulla qualità stessa degli uomini di Chiesa, dei cristiani, l'esperienza religiosa non può rimanere confinata nel misticismo, e/o nel carisma di un uomo ma deve essere convinzione acquisita di un viaggio, di un uomo che ha compiuto una traversata e odora di religioso. Questa sua esperienza, e conoscenza ha coinvolto tutta la sua vita eplasmato la sua morte a immagine della morte del Crocifisso[14]. Ogni comunità, anche e soprattutto quella religiosa, si fonda e si stabilisce non attorno alle pietre di un edificio, ma da quelle pietre vive che sono gli stessi credenti. Nella nostra società la velocizzazione dei ritmi e la concorrenzialità strutturano la vita collettiva come una lotta contro il tempo. Questa inimicizia fa sì che oggi abbiamo a che fare

non tanto con il tempo, quanto piuttosto con i tempi segmentati, incalzanti. La percezione frammentaria della dimensione temporale diventa automaticamente percezione frammentaria della propria identità, di cui l'aspetto temporale è un elemento costitutivo. La percezione dell'identità è inestricabilmente connessa con la percezione dell'altro: la relazione e quindi la presenza dell'altro sono elementi costitutivi nel processo di formazione dell'identità personale, storica e quindi anche religiosa. È nell'incontro autentico con l'alterità, che diventiamo veramente noi stessi, anche se l'attuale analisi storico/culturale ci mostra però la forza della tentazione di seguire una scorciatoia che consiste nel concepire l'altro, il diverso, lo straniero come un nemico, come una minaccia. Quindi, di darsi una propria identità contro qualcun altro, da ciò consegue anche lo squilibrio nei confronti della dimensione spaziale: è sempre più difficile intendere lo spazio come condiviso, piuttosto viene interpretato come spazio da difendere dal diverso.

Ovviamente, oggi la metropoli offre agli uomini un'identità dinamica, liquida, plasmabile, costantemente ricostruita e rinnovata, e mantiene questo carattere di vocazione alla pluralità e alla complessità. Produce inesorabilmente differenze disorientanti, paure nei confronti di un altro sconosciuto e percepito come nemico, ma la città “globale” non può evitare queste emergenze, altresì deve essere capace di integrare il nuovo, il diverso per instaurare un'ulteriore unità che costituisce un arricchimento per la società stessa. Ciò non significa inneggiare all'integrazione, in quanto questo è sempre un processo bilaterale e mai frutto di assistenzialismo, piuttosto prendere consapevolezza che il tipo di società che abbiamo davanti può essere anche letta positivamente laddove se ne percepiscano le potenzialità e non si facciano richiami nostalgici al mondo antico/tradizionale.

La mondanità non è solamente qualcosa di osservabile ma è un concetto che portiamo dentro, come uomini e come cristiani, mostrando agli altri; è ciò che Bordieu definirebbe come habitus.

Quando nell'uomo insorge la domanda di senso, ed è attratto dalla conoscenza di se stesso inizia ad esplorare ciò che a lui è interiore, ad osservare il mondo, ad ascoltare, a pensare, a meditare, a decidere, ad assumere sentimenti e comportamenti, solo in questi momenti inizia in lui la vita spirituale. Fondamento della vita spirituale è l'esigenza di senso che abita l'uomo, per cercarlo egli deve vivere, e sperimentare in profondità: ecco perché la vita spirituale può anche essere detta vita interiore. Quest'ultima è ciò che caratterizza la vita nel profondo, le sue motivazioni ultime, il suo fondamento vitale, i suoi ideali. Le domande: “chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Chi sono gli altri per noi?” devono essere ripetute in quella struttura dialogica interiore che è la coscienza e aprire itinerari di senso, che ogni uomo può sviluppare per non essere in balìa, soprattutto oggi, di quell'omologazione dell'intimo a cui tendono le società odierne.

Discorso altrettanto vero per il fenomeno religioso, l'incontro con l'altro è sintomatico di quel

sentimento, legame, spinta vitale che Simmel definisce come religiosità volutamente distinto dal suo aspetto più istituzionale che prende il nome di religione. Mentre la religiosità rappresenta una spinta vitale dell'individuo, il versante spirituale della dialettica che stabilisce la forma, la

religione ne è il versante oggettivizzante che tende ad ingabbiare la prima[15]. In altre parole, religiosità sta a soggettivo, come religione sta ad oggettivo.

Ciò che si persegue nella vita spirituale dev'essere l'incontro con il Dio vivente, l'Altro. Vita spirituale cristiana e non fusione impersonale con Dio; si vorrebbe immediatamente accedere al religioso, avere un Dio disponibile nelle sue operazioni, ma molto spesso si rigetta l'arte dell'incontro, della comunicazione nella differenza. Questo atteggiamento regressivo e narcisistico cerca unioni fusionali, non considerando che la via spirituale, che è percorso interiore, si costruisce attraverso un continuum tra similaritàe differenza, ovvero ciò che mi accomuna all'altro e ciò che

mi rende differente, e quindi irripetibile. Ogni individuo è quindi unico, l'individualità è cosa moderna perché non è più strettamente legata al luogo di nascita, alla famiglia ma abbiamo di fronte una personalità frammentata e segmentata: l'individuo può scegliere la propria religione, perché non vi è più un singolo principio che determina il suo essere,e questa sua libertà lo rende religioso e non della religione. Pertanto, non è un percorso impersonale ma arricchente, fatto di esperienza vissuta. La religione sociologicamente è la cultura della comunità, e non esiste comunità priva di rapporti interpersonali, di legami affettivi, di anonimato. Le relazioni che intercorrono tra le persone, oggi, più che personali sono contrattuali, fatte di ruoli: venditore-cliente; imprenditore–operaio. La fiducia personale è sostituita da relazioni impersonali con esperti, e tutto questo fa retrocedere la religione intesa in senso istituzionale, ovvero del “devi”, mentre esplode il sentimento religioso, libero e autentico. La religiosità diventa scelta, non è un dettame perché oggi la nostra società non ha bisogno di religione come sottosistema educativo come avveniva negli anni della tradizione. Non è un caso che la secolarizzazione è spettatrice dell'esplosione dei movimenti religiosi, sintomatico di una religiosità che non può rimanere confinata, o offuscata da altri valori esprimendo il bisogno umano di ritorno all'acquisizione di spazi propri che trascendano dal consumo. L'individuo moderno è non solo più libero rispetto al gruppo di appartenenza, ma dispone anche di una maggiore qualità interiore: gli interessi religiosi vengono separati da altri interessi diventando più individualizzati e minimizzando il lato istituzionale.

A proposito di scelta, e di individualità, Freud nell'opera Il malessere della civiltà si chiede: “ Quali sono i progetti e gli obiettivi vitali rivelati dal comportamento degli uomini?” e risponde: “Si è certi di non sbagliare, essi aspirano alla felicità. Gli uomini vogliono essere e rimanere felici!”.

Ma quale felicità possiamo trarre dal consumo, se è vero che alcuni tra i nostri valori principali abitano questa nuova società, che tipo di felicità possiamo trarne?

Una felicità effimera, labile e istantanea che appaga il nostro bisogno momentaneamente ma un secondo dopo ci sentiamo già frustrati, e nuovamente bisognosi di altro. La relazione, l'incontro, il lavoro su se stessi è ciò che salva l'uomo dal malessere, ed è ciò che persiste nel tempo. Lavorare su noi stessi è un investimento per la nostra individualità, ma anche per il prossimo.

Quando un oggetto qualsiasi si rompe è facilmente sostituibile, oggi questo concetto di sostituibilità è vero anche nel mondo del lavoro, e nelle relazioni con le persone ma, noi rimpiangiamo e piangiamo il distacco da una persona perché è nell'altro che c'è un pezzo di noi, un frammento del nostro essere diversi e simili. Un bene può essere durevole, ma non lo è il bisogno che è continuamente rinnovabile. Il consumo non è tanto il fine dell’agire nei diversi contesti della prassi umana, ma il fine in sédi questa stessa prassi, ormai ridotta a un moto continuo senza orizzonte né prospettiva, senza alcunché ad essa estrinseco che la giustifichi [16], cheporta paradossalmente a una divinizzazione dell’inutilità del consumo.

In questo contesto alcuni si lamentano della caduta de valori, caduta della quale ci si è lamentati molto spesso nella storia. Il punto è passare da una sterile lamentela all'interrogarsi: è ancora possibile l'integrazione nelle società altamente individualizzate? Vi può essere coesione sociale senza le colonne portanti della famiglia stabile, della religione e quindi della cultura del “noi”? È possibile passare da una morale individuale ad una relazionale?

In tale contesto, quello di una società pan-lavorista e pan-consumista dominata da una religione del consumo, recede la religione dell'ascolto e della fraternità. Ma chi ha il tempo di ascoltare? Il padre che torna la sera stanco e svuotato di un lavoro spesso di routine? La madre spezzata dalle contraddizioni del “ doppio ruolo”? Il rischio sembra quello di una società consegnata all'aridità di un deserto spirituale in cui anche i rapporti interpersonali sono assorbiti dal freddo calcolo utilitario. La professione, il lavoro ancor più che in passato, è divenuta la fonte più importante dell'identità. A volte il superlavoro, la carriera ricercata in maniera spasmodica diventano reazione ad un senso di inadeguatezza personale, soprattutto nelle relazioni con i propri figli. Secondo Maurizio Andolfi[17], psicoterapeuta, oggi la media nazionale dei minuti giornalieri passati da un genitore con il proprio figlio piccolo è di quattro minuti, e lo stesso autore ci invita a pensare a quanto tempo passa davanti al televisore.

Non c'è cammino di crescita se non a partire dalla consapevolezza dell'ascolto e della mediazione: la tendenza al vittimismo; la colpevolizzazione dell'altro; l'uso della violenza, diretta o indiretta,

sono solo mezzi per cambiare il prossimo a nostro piacimento conducendo l'individuo verso un percorso sterile. La progettazione di percorsi di maturazione e preparazione alla vita adulta sembra particolarmente importante oggi per fuggire da una religione del consumo e spingersi verso la ricerca di un universo di meditazione e di incontro col prossimo, ancor prima di costruire edifici teorici. L'unica realtà a cui possiamo appellarci è il nostro “dentro”, quindi direi che un tempo per il prossimo per un tempo con Dio è l'unica possibilità che abbiamo in questa società di riscattarci come persone. La relazione è l'unico punto di riferimento nella società postmoderna, e solo nella relazione possiamo trovare una nuova spiritualità. Farò un esempio. Quando guardiamo un quadro, una scultura che ci intriga, non pensiamo alla fame che abbiamo che in quel momento è un nostro bisogno. Sappiamo che mangeremo dopo, e sappiamo che questo bisogno ci distrarrebbe da quel momento di bellezza contemplativa. Bene, se potessimo stare con l'altro con un simile atteggiamento contemplativo, tutte le nostre relazioni si rilasserebbero e noi potremmo poi andare a mangiare senza sentirci in colpa. Quello che noi facciamo, invece, è di non stare totalmente con l'altro; ci facciamo distrarre dai nostri bisogni. La spiritualità ha quindi a che fare con la capacità di lasciarsi andare all'esperienza dell'altro, unica salvezza e protezione contro il nomadismo culturale, etico, identitario che si sta diffondendo e che ormai caratterizza la società postmoderna.


[1]R. Sassatelli, Consumo, cultura e società, Il Mulino, 2000, pp. 38 – 39.

[2]Il titolo originale è: Al paradiso delle signorepubblicato nel 1883 da Emile Zola. Questo romanzo si propone di indagare sulla realtà dei grandi magazzini.

[3]G.Simmel,Filosofia del denaro, Utet, 2003.

[4]R.Sassatelli,Consumo, cultura e Società, pp.152-153.

[5]G.Simmel,Filosofia del denaro, p.571.

[6]Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Editori Laterza, 2010, p.67.

[7]Ivi,p.93.

[8]Concetto analizzato da Durkheim e Merton. Per quest'ultimo l'anomia è un certo tipo di squilibrio della struttura culturale, cioè una forte valorizzazione degli scopi e una debole definizione normativa dei mezzi validi per raggiungerli.

[9]Nota distinzione del mondo globale rintracciabile in Z. Bauman sopracitato.

[10]Cit. Z. Bauman, Dentro la globalizzazione.

[11]George Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell'iperconsumismo,Il Mulino, 2012.

[12]Saggio di Jean-Louis Schelegel filosofo e sociologo che approfondisce i caratteri ineluttabili della secolarizzazione sulle società europee e le relative conseguenze sul fenomeno religioso.

[13]E. Bianchi, Cristiani nella società, Rizzoli, 2010, p116.

[14]Ibidem.

[15]G. Simmel,La Religione, Bulzoni, 1994.

[16]George Ritzer, La religione dei consumi, 2012.

[17]Cfr. M. Andolfi, Il bambino nella terapia familiare, Franco Angeli, 2010.


Intervento del Teologo Prof. Marco Gerardo

alla Conferenza del 23 febbraio 2018 presso il Castello Aragonese di Taranto.

Un tempo per sé, un tempo per il prossimo, un tempo con Dio.


1. Questo è il titolo che avete voluto dare alla vostra tavola rotonda. Ad uno sguardo superficiale, si potrebbe obiettare: che senso ha mettere insieme queste cose? Può un tempo per sé (ovvero un tempo in cui l'io è al centro) essere anche un tempo per l'altro e per Dio?

E soprattutto: che ha a che fare tutto ciò con l'esperienza cristiana in particolare e religiosa in generale?

A dire il vero, non solo questo tema ha a che fare con la questione religiosa e spirituale, ma - a mio modesto avviso - è oggi la questione centrale! La cultura diffusa nella quale viviamo - lo sappiamo bene - è caratterizzata da un forte individualismo. Di solito si dice che tutto ciò è frutto di un processo storico che, partendo dall'umanesimo e passando per l'illuminismo, ha portato a questa visione del mondo e dell'uomo quasi come un'isola. E si dice che il cristianesimo ha subito questa trasformazione della cultura e tenta di combatterla.

Io non sono certo che le cose stiano veramente così e penso anzi che in questo processo culturale e sociale, in cui le strutturali relazioni che costituiscono la persona umana sono andate spezzandosi, il cristianesimo e la Chiesa cattolica abbiano la loro buona parte di responsabilità. Tento di spiegare cosa voglio dire: persa l'unità dell'Europa e, di conseguenza, l'egemonia religiosa e politica della Chiesa cattolica, essa si è dovuta confrontare con spinte riformatrici interne e con nuove visioni della fede che dapprima erano interne e poi divennero esterne, come per esempio la riforma protestante.

In tutte queste situazioni la Chiesa cattolica mai ha iniziato con il dialogo per comprendere le ragioni di chi - per così dire - le si opponeva. Mai ha tentato di concepire se stessa in relazione con ciò che la circondava; ha invece sempre preteso che il mondo si adeguasse, che gli altri rivedessero il proprio modo di pensare, fare ed essere per conformarlo al suo insegnamento. Solo dopo che ci sono stati scismi, separazioni e fratture e queste hanno dato vita a culture e addirittura ad altre Chiese, allora la Chiesa cattolica non ha potuto fare a meno di entrare in dialogo. Viene da domandarsi: ma tutto questo non si poteva fare prima?

In questo modo, la Chiesa cattolica ha proposto se stessa come una vetta di verità, alta e ben visibile a tutti, ma sempre più distante e separata dal contesto. La nostra amata Chiesa cattolica si è autoreclusa in un recinto dal quale ancora oggi fa difficoltà ad uscire, nonostante i molteplici e salutari impulsi del nostro Santo Padre Francesco. Questa visione solitaria della Chiesa cattolica - che essa stessa ha creato e offerto di se stessa - ha contribuito a creare e consolidare l'individualismo anche religioso, in cui ognuno pensa di bastare a se stesso e di essere il metro e la norma di tutte le cose. Resta, però, il fatto che tutto ciò la nostra Chiesa non solo non lo ha subìto ma ha contribuito a crearlo.

2. Cosa ci dice, in merito al nostro tema, la prima fonte ispiratrice, la norma suprema del cristianesimo, che è la Parola di Dio?

Nel libro della Genesi troviamo un'interessante indicazione. Siamo alle origini del mondo, all'atto creatore di Dio. Qui ritroviamo non tanto la narrazione di come sono andate veramente le cose, quanto piuttosto la logica di Dio nel creare il mondo. Nel libro della Genesi, Dio crea il mondo secondo un ordine nel quale ogni cosa - uomo compreso - è in relazione con tutto ciò che la circonda. La bellezza e l'armonia del creato risiedono proprio in questa relazionalità ordinata e armonica.

Quando, però, interviene il peccato, accade qualcosa di sconvolgente: l'armonia si rompe, perché si rompono le relazioni. L'uomo si nasconde da Dio, con il quale prima parlava amichevolmente. Quando Dio lo trova, l'uomo si vergogna di se stesso perché è nudo; ovvero si rompe la relazione con se stesso. Quando Dio gli chiede spiegazione, l'uomo incolpa la donna, rompendo la relazione con l'altro essere umano. Quando Dio chiede alla donna cosa abbia fatto, ella incolpa il serpente, rompendo la relazione con il mondo non umano. Spezzata una relazione (quella con Dio), si spezzano tutte le altre: con se stessi, con l'altro uomo, con il creato.

Se questo dato biblico è vero, allora ne deriva un dato essenziale e determinante: non esiste relazione religiosa con Dio, che non si esprima in una relazione armonica e piena con se stessi e con l'altro. Questo dato verrà confermato e sancito da Gesù, allorquando darà ai suoi discepoli il comando di "amare il fratello come se stessi". Questo dice chiaramente che uno non ama se stesso contro l'altro, ma anche che non può amare l'altro, senza amare se stesso; ed, in ultima analisi, che nessuno potrebbe amare Dio, senza amare se stesso e l'altro.

O le tre relazioni (con me, con l'altro, con Dio) stanno tutte assieme oppure nessuna sopravvive. Per questo vorrei fare un particolare plauso a chi ha pensato non solo al tema di questo incontro, ma anche per le voci e le competenze chiamate a relazionare. Lo psicologo ci aiuta a ritrovare la armonica relazione con se stessi, la sociologa ci aiuta a ritrovare la armonica relazione con la società ed il teologo ci aiuta - o per lo meno dovrebbe - a ritrovare la armonica relazione con Dio.

3. Nel Nuovo Testamento ripetutamente troviamo Gesù che si ferma per un tempo in solitudine, ma che è finalizzato a ricalibrare le relazioni; e sempre avviene prima di momenti decisi per la sua vita.

Facciamo alcuni esempi. Dopo il suo battesimo, egli viene sospinto dallo Spirito nel deserto. Sappiamo che in ebraico la parola "deserto" è midbar, che ha la stessa radice di "parola"-dabar. Il deserto, quindi, è il luogo non della solitudine intesa come chiusura dell'individuo a ciò che lo circonda, ma come "solitudine abitata". Nel deserto egli viene tentato proprio nei suoi rapporti con sé stesso e tutto ciò che lo circonda. La prima tentazione - quella delle pietre da trasformare in pane - è in realtà una tentazione sulla relazione con il mondo delle cose: la tentazione di asservire tutto al proprio bisogno, di pensare che il mondo esista nella misura in cui mi serve e mi può essere utile a soddisfare me stesso. La seconda tentazione è quella di dare dimostrazione di se stesso: "Se sei il figlio di Dio, gettati giù dal pinnacolo del tempio". È la tentazione del rapporto con se stessi, quella di pensare che il proprio valore dipenda dal riconoscimento o meno da parte degli altri. È la tentazione di chi sceglie non in base a ciò che si porta dentro, ma in base a ciò che può attirare il compiacimento altrui e così uno si trova senza consistenza personale. Infine, la terza tentazione è, sì, quella del potere, della regalità ("inginocchiati davanti a me e ti darò tutto il mondo"), ma di una regalità vissuta fuori dal corretto rapporto di Gesù con il Padre suo e, di conseguenza, con gli uomini. Se, per assurdo, Gesù avesse ceduto a queste tentazioni, egli avrebbe dominato il mondo ma schiacciandolo. Ma, appunto, si tratta di un ragionamento per assurdo. Gesù vince le tentazioni perché vive rapporti equilibrati con sé, con il mondo, con il Padre.

Anche prima della chiamata dei dodici apostoli - atto decisivo per la futura comunità cristiana - Gesù passa una notte in preghiera al Padre: anche in questo caso, Gesù comprende se stesso secondo la volontà del Padre suo e chiama degli uomini a fare comunità con lui. Le tre relazioni ancora e sempre insieme.

Nel Getsemani, prima di morire, prega per non venire meno al progetto del Padre, che ha accolto come suo, e per questo può offrire se stesso per la salvezza del mondo. Di nuovo, le tre relazioni insieme.

Se prendiamo i Vangeli, ci accorgiamo come essi sono una costante storia di ricucitura di rapporti spezzati. Il Figlio di Dio nasce in una famiglia umana e così entra nella storia del mondo attraverso la trama di relazioni armoniche ed equilibrate; opera con un gruppo di amici e di discepoli, intessendo relazioni umane significative; ciò che dice e ciò che compie lo fa anzitutto in favore degli emarginati ed esclusi di quel tempo: poveri, peccatori, rigettati dal sistema religioso-politico. Ed, infine, offrendo la sua vita per tutti, ricuce l'ultima relazione: quella con Dio, ora conosciuto non più come Dominatore da temere, ma come Padre che ama.

4. La Chiesa sin dal II secolo ha iniziato a celebrare la morte e la risurrezione del Signore non solo tutte le domeniche, come avveniva sin dagli inizi del cristianesimo, ma in una domenica particolare, che noi chiamiamo Pasqua. Sulla data della Pasqua si erano accesi dibattiti, talvolta anche feroci (chissà perché sulle questioni religiose i dibattiti devono essere sempre feroci e quasi mai pacati?!). Alla fine, l'orientamento maggioritario per la scelta della data della Pasqua, stabilito nel 325 dal concilio di Nicea, fu che la Pasqua doveva essere celebrata la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera. Si celebra cioè la festa della risurrezione e della vita proprio mentre la natura si risveglia dal torpore invernale e sboccia ad una nuova vita. Il principio teologico e quello astronomico si intrecciano meravigliosamente, in una consonanza simbolica di altissimo significato.

Nel tempo prese forma il periodo di preparazione alla Pasqua, che noi chiamiamo Quaresima, ovvero quaranta giorni. Senza scendere troppo in noiosi dettagli storici, vorrei condividere con voi soltanto il significato originario della quaresima.

Sappiamo che inizia il mercoledì delle Ceneri e prima terminava il giovedì santo con la lavanda dei piedi, per far posto poi al triduo della morte (venerdì), della sepoltura (sabato) e della risurrezione di Gesù (domenica). Oggi noi abbiamo cambiato la scansione temporale e celebriamo il triduo dal giovedì al sabato per poi celebrare a parte la domenica di Pasqua. Non ha molto senso, ma così stanno le cose.

Veniamo all'origine: dal mercoledì con le ceneri al giovedì con l'acqua per la lavanda dei piedi. Una simbologia interessante! Chi ricorderà i racconti delle nonne, certamente avrà sentito che per far uscire il bucato bianco venivano usate le ceneri. Acqua e ceneri richiamano subito alla purificazione, al togliere le macchie per restituire candore ai vestiti.

Ancora una volta, linguaggio teologico e linguaggio umano si intrecciamo meravigliosamente.

Ciò che la maggior parte delle persone - anche dei cattolici praticanti (e forse anche dei sacerdoti, chissà?) - ignora, è che la quaresima originariamente non era conosciuta come un tempo di conversione personale. Il mercoledì delle ceneri, coloro che avevano commesso peccati particolarmente gravi, per i quali era previsto un cammino di penitenza pubblica, venivano in chiesa, dove c'era il vescovo con la comunità radunata. Il vescovo ascoltava riservatamente la loro confessione dei peccati, quindi li prendeva per mano e li portava fuori della chiesa e lì imponeva sul loro capo le ceneri in segno di penitenza. Il giovedì santo, poi, dopo aver fatto la pubblica penitenza, il vescovo li aspettava davanti alla porta della chiesa, li assolveva dai loro peccati e lavava loro i piedi, in segno di ritrovata purezza per la grazia misericordiosa del Signore, li riprendeva per mano e li riportava in chiesa. Per tutta la quaresima, l'intera comunità cristiana pregava e digiunava non per se stessa o ciascuno per se stesso, ma tutti per i penitenti che attendevano l'assoluzione e per i catecumeni che attendevano il battesimo nella veglia pasquale. La quaresima era come il tempo della maternità della Chiesa che attendeva di generare alla vita nuova i catecumeni e di vedere risorti i penitenti. Potremmo dire che il tempo di quaresima era il tempo più penitenziale dell'anno liturgico e al tempo stesso più comunitario, durante il quale nessuno pensava - scusate l'espressione - a "salvarsi la propria anima", ma tutti pensavano alla salvezza altrui!

Oggi abbiamo impoverito la quaresima come un tempo in cui ciascuno pensa a se stesso, al proprio rapporto con Dio, quasi del tutto dimenticando il proprio rapporto con la comunità.

Potremmo dire che questo tempo di quaranta giorni era - e dovrebbe tornare ad essere - il tempo in cui il rafforzato rapporto con Dio, ci aiuta a riscoprire l'equilibrato rapporto con noi stessi, in quanto persone vitalmente inserite in una comunità, senza della quale rischiamo di non avere né storia, né identità, né futuro cristiano.

5. Alla luce di questo breve excursus biblico e liturgico, quali conclusioni possiamo trarre per il nostro incontro di stasera e, più ancora, per la nostra vita?

Forse né più né meno, che abbiamo bisogno disperato di tornare alle nostre origini, cioè al modo con cui siamo nati da Dio e come vivevamo all'origine del cristianesimo la nostra fede.

Oggi troppo spesso assistiamo nelle nostre Chiese a personalismi distruttivi. L'"io" dei singoli e delle comunità è diventato patologico. Ognuno pensa di incarnare in sé, nella propria esperienza religiosa e nei propri convincimenti pastorali la totalità della verità di Dio e su Dio. Le singole persone e le singole comunità spesso vivono in competizione: attività che si accavallano, fantasie pastorali - le più stravaganti - per attirare quante più persone a degli eventi che hanno l'attrattiva più degli spettacoli che la forza sconvolgente di momenti di fede, iniziative prese per fare più bella figura degli altri... E, se qualcuno sembra fare meglio di noi, ecco pronti alla critica, al pettegolezzo, all'accusa reciproca, all'allontanamento gli uni dagli altri. È vero che questa tentazione era presente sin dagli inizi del cristianesimo e che anche gli apostoli, pur di fronte a Gesù, sebbene a bassa voce, discutevano tra loro chi fosse il più grande. Ed è vero che l'apostolo Paolo, quasi sconfortato, diceva alla comunità dei Galati (5,15): "Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardatevi almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri". Ma questa considerazione sarebbe una magra consolazione rispetto a quello che Gesù ci ha donato e chiesto.

Se torniamo al racconto della Genesi e alla storia delle relazioni infrante, dobbiamo domandarci: ma penso davvero di avere un buon rapporto con Dio, se non ho un altrettanto buon rapporto con il fratello? Ma penso davvero di essere un buon cristiano, se uso ed abuso del mondo nel quale vivo e lo assoggetto al mio guadagno, al mio interesse? Penso davvero di stare in pace con me stesso, se rompo i legami che fanno di me una persona? Penso davvero di essere una persona completa, se spendo il mio tempo e le mie energie per affermare me stesso contro e sopra gli altri?

A dire il vero, se le relazioni con me stesso, con gli altri, con il mondo e con Dio non sono vissute in armonia, il vero problema, la vera domanda, quella radicale, non è più se posso ancora considerarmi cristiano. Alla fine, è ancora più originaria: ma sono ancora un Uomo?

Grazie per la pazienza e per l'ascolto!

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