Meditazione del nostro Padre Abate dom Antonio Perrella
sul Vangelo della IV domenica di Deserto (quaresima) Gv 9, 1-41
Chi è cieco? E chi è vedente?
Per tornare a vedere in profondità
Cari Fratelli e Sorelle,
anche questa settimana voglio condividere con tutti e tutte voi una meditazione che se pure parte da un dato esegetico si apre a più riflessioni. Il teso da me commentato in termini esegetici invece lo trovate nel mio libro "Giovanni: la Parola esclusa perchè Parola per gli esclusi" al capitolo III.4 - Mandese Editore.
Sappiamo che l’evangelista Giovanni usa un linguaggio interessante. Le parole, ed i verbi soprattutto, sono scelte con cura, messe in parallelo e spesso in contrasto. Nei suoi testi esiste sempre un doppio binario: quello della lettura e quello della comprensione, che coincide con la introspezione. Giovanni vuole che il lettore, leggendo il testo, si legga dentro. Per questo motivo i suoi personaggi non sono mai soltanto elementi narrativi, sono sempre modelli con cui identificarsi. E questo nel bene e nel male! Giovanni non è un evangelista edulcorato, che vuole edificare l’animo dei suoi lettori, anzi ama metterli, metterci in crisi. Quando si legge un testo di Giovanni, sembra quasi di iniziare a leggere e di mettersi subito dalla parte dei “buoni”, dalla parte della luce, nel testo di questa domenica; poi finisci il testo e avverti come un pugno nello stomaco, perché ti ritrovi che stai dalla parte dei “cattivi” o delle tenebre, nel testo odierno. Il suo testo è un processo di progressiva introspezione: leggi delle righe e ti ritrovi a leggere te stesso; la luce di quel testo si proietta sul tuo cuore e ne fa emergere le ombre.
Il brano del cieco nato è uno di quei testi in cui questo modo di fare di Giovanni emerge chiaramente.
Cominciamo proprio dai verbi. In tutto il brano l’atto del “vedere” è indicato con due verbi (dal greco naturalmente): blepo e anablepo. Ciò però non accade per due persone: Gesù e il cieco! Nel v. 1, quando si dice che Gesù, passando, vide un uomo cieco fin dalla nascita, l’evangelista una il verbo eiden, che è una forma passata del verbo orao. E nel v. 37, quando Gesù dice al cieco che questi ha visto il Figlio dell’Uomo, usa eorakas, che è di nuovo una forma passata del verbo orao.
Ora, noi sappiamo che il verbo orao (vedere) ha una particolare pregnanza. È il verbo che viene usato per le manifestazioni del Risorto ed è uno degli atti che costituiscono una persona come apostolo. Sia per lo sguardo di Gesù sia per lo sguardo del cieco Giovanni usa orao; mentre per tutti gli altri usa blepo. La cosa interessante, però, è che nel racconto Gesù ed il cieco sono presentati, dai farisei e dai giudei, come dei peccatori e bestemmiatori; mentre loro, coloro che pretendono di vedere, presentano se stessi come la verità assoluta.
Chi pretende di vedere, in realtà non vede niente; chi è ritenuto cieco, invece, vede fino in fondo.
Cosa, però, permette al cieco di poter vedere fino in fondo?
Giovanni ce lo dice con un altro contrasto. Il cieco dimostra di essere un uomo a cui la vita ha tolto sin dall’inizio ogni possibilità. Cieco dalla nascita e, pertanto, rigettato sia dalla società sia dai suoi genitori, che evidentemente lo avevano abbandonato e non si erano presi cura di lui, se stava seduto a chiedere l’elemosina. Ed anche quando i genitori vengono chiamati dai farisei, essi di nuovo lo scaricano: è nostro figlio ed era cieco dalla nascita. Come mai ora ci veda, chiedetelo ha lui; ha l’età per rispondere da solo. Il cieco, quindi, per la sua storia e per come era stato trattato, avrebbe avuto tutto il diritto di essere diffidente verso chiunque. Neppure coloro che avrebbero dovuto custodirlo, si erano mai interessati a lui; lo avevano esposto al pericolo e alla solitudine. Perché mai allora fidarsi di qualcuno? Eppure, quando Gesù gli si avvicina, lo lascia fare, si lascia toccare, si lascia mettere il fango sugli occhi, va a lavarsi nella piscina come Gesù gli indica. E quando viene chiamato dinanzi alle autorità religiose non teme di prendere posizione, persino di sfidare l’autorità costituita. Quell’uomo si fida ed ha il coraggio di accogliere il nuovo che la vita e Dio gli hanno messo dinanzi.
I farisei, invece, hanno occhi fisicamente abili a vedere ciò che sta accadendo, ma preferiscono non vedere, non comprendere. Hanno dinanzi a sé un uomo cieco dalla nascita, a cui è stata donata la vista, e si rifiutano di accettare e di fidarsi della parola non di uno sconosciuto, ma di colui che in prima persona può testimoniare ciò che gli è accaduto. Ed anche dinanzi ai genitori, che non dicono molto ma che sono comunque costretti ad ammettere che si trattava di loro figlio e che egli veramente era nato cieco, anziché ammettere ciò che era evidente, preferiscono abusare del loro potere e minacciare di scomunica dalla sinagoga chiunque avesse riconosciuto Gesù come Messia. Si tratta di uomini chiusi, incapaci di fidarsi.
Colui che non aveva nulla, che non aveva mai avuto nulla, è capace di accogliere le sorprese della vita; quelli che avevano avuto tutto e che si erano procurati di tutto e di più, invece, non sanno più accogliere alcuna novità, neppure se gliela sbatti in faccia.
Tutto questo in che modo può parlare a noi, oggi, in questo preciso momento della nostra vita?
La nostra comune “quarantena forzata” a causa della pandemia da CoVid-19 si sta prolungando e forse andrà avanti più di quanto avevamo sperato o ipotizzato. All’inizio tutto appariva più semplice, ora, mentre il tempo passa, la stanchezza e la noia iniziano a farsi sentire e, forse, cerchiamo un po’ di scuse per delle scappatoie e non riusciamo a vivere la solitudine o la convivenza forzata.
Forse dobbiamo cambiare lo sguardo, la prospettiva. Siamo costretti a stare in casa o – al di là delle norme – è una personale assunzione di responsabilità, attraverso la quale impariamo che il bene di tutti va avanti e sopra al mio capriccio e al mio desiderio? Non può essere questa un’occasione per imparare di nuovo uno stile di vita diverso da quello che abbiamo normalmente e che spesso si risolve in una lotta di tutti contro tutti?
Siamo costretti a stare da soli tra le quattro mura di casa nostra oppure è un’occasione per recuperare la necessità del silenzio e della solitudine, come luoghi e strumenti attraverso rientriamo in noi stessi per ritrovare le dimensioni essenziali della vita?
Non possiamo uscire a comprare qualsiasi cosa che ci passa per la testa e spesso dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo in casa. È una schiavitù o una occasione per tornare a discernere ciò che è essenziale da ciò che è superfluo, per imparare a rinunciare al superfluo ed allargare così gli orizzonti di condivisione con chi non ha neppure il necessario, che alla maggior parte, invece, non manca mai?
Dobbiamo stare gomito a gomito con i membri della nostra famiglia, sempre, mattina, sera e notte. Non abbiamo possibilità di evasioni e fughe. È uno strazio, uno stillicidio di pazienza e sopportazione, oppure è un’opportunità per accorgerci che le persone con cui viviamo hanno dentro di sé una ricchezza inesauribile e che, alla fine, lasciandomi prendere dal ritmo vertiginoso delle giornate, io ho dato per scontato o non ho fatto la fatica di continuare a scoprire?
Alcune Chiese cristiane non hanno dato alcun segno di vita significativo. I fedeli sono lasciati a se stessi, devono inventarsi da soli come vivere questo tempo, mentre i loro Pastori se ne stanno chiusi nelle loro case con le loro famiglie, come se non avessero sulle loro spalle il peso di un gregge comunque da condurre sulle vie di Dio anche, e forse soprattutto, in questi tempi. Di tanto in tanto spunta un telepredicatore che legge un brano o una preghiera e così sembra aver acquietato la propria coscienza, come se avesse compiuto fino in fondo il proprio dovere pastorale. La pandemia è diventata, per costoro, come il lupo dinanzi al quale questi, che dovrebbero essere pastori (cf Gv 10,11), hanno preferito scappare e rinchiudersi al sicuro delle loro case, assomigliando molto a quei pseudo-pastori che Gesù chiama mercenari (cf Gv 10,12).
Da ieri imperversa sui social la delusione e la polemica per le decisioni della Chiesa cattolica romana di celebrare la Pasqua a porte chiuse. I presbiteri dovranno celebrare da soli gli eventi liturgici centrali della loro esperienza. C’è chi voleva spostare la Pasqua e chi non vuole proprio sentire; c’è chi grida allo scandalo perché il triduo verrà celebrato senza fedeli e chi rassicura che tanto sarà possibile seguirlo via streaming. Si sono cercate soluzioni tecniche e con questo si è messa a tacere la domanda. Sì, una domanda che fa paura! Ciò che sta accadendo in questi giorni è una situazione che si presenta oggi ed è un limite oppure era una possibilità per riflettere sul modo di concepire e di vivere la Chiesa? Perché qui non si tratta soltanto se fare le cose con o senza gente (liturgie in chiesa), con o senza prete (liturgie domestiche). Qui si trattava di ripensare la Chiesa stessa, di comprendere il sacerdozio di tutti; era l’occasione per prendere coscienza che la storia (e forse la Provvidenza) sta mettendo dinanzi ad un giro di boa, ad un tempo in cui è giunto il momento di ripensare la Chiesa in senso comunitario, come era all’origine, e non sempre e soltanto in senso gerarchico e ministeriale. O la Chiesa torna ad essere una comunità o semplicemente finirà di essere. Non si tratta di spostare o meno la Pasqua, ma di cambiare il modo di celebrarla, passando da una Chiesa di preti che fanno cose a cui i fedeli assistono, con più o meno consapevolezza, ad una Chiesa di credenti, nella quale tutti sono ugualmente membri dell’unico popolo, costituito da Gesù come un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre (Ap 1,6).
Dom Tonino +
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