"Per questo occorre riflettere su una dimensione di ecologia religiosa: sì, ecologia religiosa, ovvero bonificare l’esperienza di fede cristiana dall’inquinamento della divisione e della prevaricazione, che esiste purtroppo anche tra i figli di Dio". Alcune delle parole dell'omelia l'Abate dom Tonino per la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per la vigilia del giovedì santo.
Anche alla Christiana Fraternitas, presso Abbey House, si è dato inizio al triduo pasquale con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola, la commemorazione della Cena del Signore e la lavanda dei piedi moderata dal nostro Abate Antonio.
Qui sotto il testo integrale dell'omelia del nostro
Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
in occasione della Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola
per la vigilia della Coena Domini
Testi di riferimento Gv 13, 1-20
Cari Fratelli e Sorelle,
l’evento della cosiddetta ultima cena di Gesù è decisivo per la comprensione dell’intera vita cristiana. Esso si trova come esordio, e quindi come chiave di lettura, di tutto ciò che segue: il dono della Pasqua di Cristo, la sua morte, discesa agli inferi e la sua risurrezione.
Per comprenderla fino in fondo, tuttavia, abbiamo bisogno di liberarci da quello che pensiamo di conoscere, perché magari così ci è stato acriticamente insegnato sin da bambini. Solo così possiamo riappropriarci di quell’evento e del suo significato più profondo.
Anzitutto sappiamo che di quel racconto abbiamo sostanzialmente due grandi versioni differenti: da un lato, quella dei vangeli sinottici e, dall’altro, quella di Giovanni. Esse differiscono per cronologia e contenuto. Infatti, i sinottici collocano la cena nella sera del giovedì (vigilia della Pasqua ebraica di quell’anno) e la legano alle parole di Gesù sul pane e sul vino; Giovanni, invece, seguendo un’altra cronologia, fissa la cena sempre alla sera di giovedì (ma la Pasqua viene collocata al sabato e quindi la sua vigilia al venerdì) e lega la cena al segno della lavanda dei piedi e al comandamento dell’amore e del servizio vicendevole.
Le differenze cronologiche non sono di poco conto: se si segue la cronologia dei sinottici, la cena avviene alla vigilia della pasqua, mentre si immolavano gli agnelli pasquali; se, invece, si segue quella di Giovanni, è la morte di Gesù che viene collocata alla vigilia di pasqua e alla immolazione degli agnelli. La cena, in Giovanni, quindi, non è una cena pasquale come sempre avevamo pensato…
C’è, però, un dato su cui i quattro Evangeli concordano: ciò che Gesù fa e compie durante la cena non ha riferimento alcuno al rito della cena pasquale ebraica. Senza entrare troppo nello specifico di complesse riflessioni storiche ed esegetiche, oggi la tendenza maggioritaria degli esperti è affermare che la cronologia giovannea sia quella storicamente più attendibile.
Rimane da farsi una domanda: se l’ultima cena non è stata una cena pasquale, perché i sinottici hanno costruito il racconto per farla diventare cena pasquale? La risposta è semplice: perché ciò che è avvenuto in quella cena sarebbe stato così centrale e vincolante per la comunità cristiana che elevare quella cena conviviale (e di commiato di Gesù) al rango di una cena rituale – anzi della cena rituale ebraica per eccellenza – era il miglior espediente letterario-narrativo per rimarcarne il suo grande significato.
Questa sera noi facciamo memoria di quella cena: abbiamo ascoltato il testo di Giovanni e tra un po’ commemoreremo il comandamento dell’amore nel segno della lavanda dei piedi; poi faremo memoria anche del pane e del vino, segni del corpo e del sangue di Cristo, nella commemorazione della Cena.
Per comprendere quella Cena ed il suo significato occorre tenere tutto insieme e viverla nel suo insieme.
Quali allora sono gli elementi costitutivi della Cena del Signore? Potremmo schematizzare così:
è momento di convivialità fraterna attorno al Maestro, durante il quale egli
compie alcuni segni costitutivi,
fa riferimento al suo insegnamento e alla sua Parola,
compie un atto paradigmatico di amore e di servizio vicendevoli,
dona un comandamento, ovvero un’indicazione di vita futura per tutti i suoi discepoli.
Occorre ripercorrere tutti questi passaggi, per comprendere la Cena. Sarebbe metodologicamente sbagliato sottolinearne uno o alcuni a discapito di altri, magari per sostanziare la propria tradizione… Invece, solo l’insieme di tutti dati ci offre la comprensione del tutto.
Ciò che sta sopra e prima di tutto e che dà senso al tutto è la Cena conviviale dei discepoli riuniti attorno al Maestro. Inserendoci nel filone esegetico cui abbiamo prima accennato, abbiamo detto che storicamente non si trattava di una cena pasquale e, come tale, non soffriva delle restrizioni religioso-cultuali del tempo. Ne consegue che a quella cena potrebbero tranquillamente aver partecipato non solo i dodici (come i sinottici dicono), ma semplicemente i discepoli (come Giovanni attesta). Del resto, già altrove Gesù si era dimostrato fin troppo libero dalle norme circa i pasti: con i suoi discepoli mangia senza aver fatto le abluzioni (cf Mc 7,2), siede a tavola con pubblicani e peccatori (cf Lc 15,2), si fa toccare da una donna durante un pasto (cf Lc 7,38). È evidente che questa cena, non rituale e non pasquale, sia stata voluta da Gesù come cena di congedo, in cui avrebbe lasciato il testamento del suo amore per l’umanità, del suo messaggio per lei e della missione che i discepoli avrebbero dovuto continuare. Sembra, quindi, logico ipotizzare che abbia voluto assieme a sé quanti più discepoli e discepole possibili. È logico per ragioni di comprensibile umano bisogno di tenere vicini a sé le persone più care ed è logico per il desiderio che il maggior numero di discepoli potesse vedere ed ascoltare il suo insegnamento ultimo e decisivo.
Questo contesto comunitario è dato irrinunciabile: la comunità dei discepoli è il contesto in cui tutto ciò avviene, è il contesto destinatario di ciò che avviene ed è il contesto in cui tutto ciò potrà continuare in futuro. Senza questo contesto comunitario quella Cena (con tutto ciò che è stato detto e fatto) non avrebbe più alcun significato.
Un’altra coordinata previa, che la pericope ascoltata ci offre, è il contenuto che attraversa e dà sostanza alle parole ed ai gesti di Gesù: il suo amore fino alla fine verso i suoi. Nel v. 2 per ben due volte compare il verbo “amare” con quel verbo greco che non ha paralleli nella letteratura greca non cristiana – agapao – e che indica quella forma specifica di amore con cui Gesù ama i suoi e con il quale vuole che essi lo amino e si amino tra di loro: un amore irriducibile ad ogni altra forma di amore comunemente conosciuto.
Alla luce di queste due precisazioni previe – contesto comunitario e contenuto agapico – possiamo anche comprendere tutto il resto, sul quale non occorre neppure dilungarsi troppo.
Il dono del pane e del vino come segno della sua permanente presenza nella sua comunità e come via di partecipazione al dono della salvezza; il pane ed il vino come strumento del prender parte alla Sua stessa vita divina, per essere e rimanere in comunione con Lui. Attraverso i segni del pane e del vino Gesù sta in qualche modo anticipando ciò che a breve avverrà: la Sua vita data, il Suo corpo spezzato ed il Suo sangue versato, come dono di amore per i suoi e per l’umanità intera. La sua chiesa, quindi, sarà quella che Gesù vuole, solo nella misura in cui, rimanendo radicata in Lui e in comunione con Lui, darà se stessa, sarà pronta a spezzare il suo corpo, a versare il suo sangue per amore dei fratelli, ovvero di tutti gli uomini e le donne.
La lavanda dei piedi ed il conseguente comandamento dell’amore reciproco completano questo testamento del Signore. Lui, il Maestro ed il Signore, fa ciò che a nessun ebreo – ancorchè schiavo – era consentito fare, perché ritenuto troppo umiliante e degradante: lavare i piedi! Gesù si spoglia delle vesti, come il Verbo si era spogliato della Sua gloria divina per venire al mondo in forma umana, e mostra la misura dell’amore di Dio e dell’amore che deve regnare nella sua comunità: un amore che si fa dono incondizionato, servizio senza riserve, una comunità nella quale l’unica legge ancora valida è quella dell’amore vicendevole fino al mettersi gli uni al di sotto degli altri, nella quale non esistono gerarchie ma uguaglianza di fratelli e di servi.
E che questa sia l’unica interpretazione possibile lo conferma, tra gli altri, un testo del Nuovo Testamento che non viene dalla tradizione giovannea. Se si trattasse, infatti, di un testo delle lettere di Giovanni, si potrebbe obiettare che quella era la sua linea teologica. Invece, si tratta di un testo della prima lettera di Pietro; quindi da ben altro ambiente teologico ed ecclesiale. Lì si dice: le medesime vostre sofferenze sono imposte alla vostra fraternità sparsa nel mondo (1Pt 5,9; cfr 2,17). La parola «Fraternità» è resa con il greco adelphótes. Anche questo termine non trova paralleli nella letteratura greca coeva: si tratta di un termine squisitamente cristiano. Romano Penna così commenta: «L’autore della lettera non intende parlare di un amore esercitato individualmente verso gli altri cristiani, ma di un amore collettivamente indirizzato verso l’intera comunità di fratelli e sorelle, che viene così […] designata come “casa” (2,5), “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquisito” (2,9), “gregge di Dio”!(5,2)» (R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone, tempi, luoghi, forme, credenze, Carocci ed., Roma 2017, 29).
Allora è questa realtà comunionale che è destinataria dei doni del pane e del vino, del segno della lavanda e del comandamento dell’amore; è la chiesa, in quanto tutta popolo di sacerdoti, che potrà continuare nella storia l’opera di Gesù e compierne i segni; non un individuo in essa, ma essa in quanto comunità, in quanto fraternità!
L’immagine paolina del corpo di Cristo ci viene in aiuto. Nella prima Lettera ai Corinti egli ci offre la sua teologia del corpo, che qui possiamo solo richiamare. Questa teologia però è sempre stata interpretata nel senso di un rapporto tra persona e comunità, cioè: io sono un membro del corpo di Cristo che è la Chiesa. In realtà, esiste un altro livello di interpretazione. Quando Paolo parla di chiesa-ekklesia non lo fa in riferimento a quella che noi diremmo la chiesa universale, ma in riferimento alle singole comunità. Esistevano più comunità in singole città e piccole comunità in piccoli villaggi, ed è a loro che Paolo si riferisce quando usa il termine ekklesia-convocazione-adunanza (cf Penna, 24-28). L’immagine del corpo di Cristo e delle membra, allora, oltre ad avere senso come prima abbiamo detto, ne assume anche un altro: le chiese cristiane, le comunità che portano il nome di Cristo, sono esse stesse parte di un Corpo che le supera e le presuppone, che è più grande di loro e le ingloba. È questo corpo, questa Chiesa – non riducibile a nessuna delle singole chiese soltanto – ad essere il popolo sacerdotale. Ed è solo in questa prospettiva di assoluta uguaglianza fraterna che si mantiene l’insegnamento della Cena del Signore e del mistero del Suo corpo mistico!
Quando una chiesa pensa di essere più chiesa di un’altra sta semplicemente dimenticando il contesto comunionale ed il contenuto agapico dell’ultima Cena! Quando una chiesa pensa di poter fare a meno di un’altra sta dimenticando di non essere da sola corpo, ma di essere membro di un corpo.
Cari fratelli e sorelle, il discorso, forse, è un po’ difficile e richiede un’attenzione particolare, però, era necessario farlo per non correre il rischio che questo dono d’amore del Signore, che oggi celebriamo, perda la sua portata rivoluzionaria, per non correre il rischio che ciò che Lui ha fatto per unirci, alla fine ci porti a dividerci. Se le chiese perdono l’orizzonte di senso dell’ultima Cena, allora continueranno ad essere divise e, quel che è peggio, a farsi la lotta reciproca. Solo le chiese disposte a svestirsi e a mettersi il grembiule del servizio reciproco, solo quelle disposte ad inginocchiarsi dinanzi alle altre, come Gesù ha fatto dinanzi ai suoi discepoli, potranno ancora dirsi chiese di Cristo!
E, per quanto riguarda ogni singolo battezzato: solo essendo parte viva di una comunità, solo sentendomi davvero fratello e sorella di altri fratelli e sorelle, solo cingendoci reciprocamente il grembiule del servizio, possiamo dirci ancora discepoli di Gesù. Le comunità di Gesù non sono il supermaket del sacro! Non ci si accosta alle chiese come per l’acquisto di prodotti “usa e getta”! Staccati dalla Sua comunità, dal Suo Corpo, non perdiamo solo il contesto, ma anche il contenuto! Senza una comunità di appartenenza, nella quale riconoscermi, semplicemente io divento una cellula staccata e, perciò, destinata a morire; è la morte di relativismo spirituale. Da questa convinzione ecclesiologica nasce la missione pastorale che noi, come Christiana Fraternitas, offriamo. Pensiamo fortemente ci sia stata ispirata dallo Spirito di Dio e cioè: offrire alle cellule disperse un tessuto connettivo di amore nel quale essere e sentirsi ancora interamente parte del corpo di Gesù Cristo!
Cari amici ed amiche, qui si apre il discorso sull’ecumenismo. L’ecumenismo non è una possibilità e non è neppure un’attività, che dovrebbe ricevere una legittimazione da chissà chi. L’ecumenismo è per ogni battezzato un imperativo categorico! Il lungo discorso di Gesù, collocato dall’evangelista Giovanni proprio nell’ultima Cena, si conclude che quella preghiera sacerdotale che culmina nell’accorata richiesta al Padre: ut unum sint! Affinché siano una cosa sola, Padre, come tu ed io siamo una cosa sola; divenuto -non a caso- anche motto nello stemma e saluto della nostra Famiglia Monastica. Questa sera noi, facendo memoria della Cena e del comandamento dell’amore reciproco, non possiamo dimenticare che quel discorso culmina proprio con questa richiesta: ut unum sint!
È una preghiera che Gesù eleva al Padre prima di dare la Sua vita e ciò vuol dire che il suo desiderio è che chi porta il suo nome (cristiano) faccia tutto ciò che può perché quel desiderio diventi realtà! L’ecumenismo, il dovere ecumenico è immesso nel nostro DNA come la fede, la speranza e la carità. Nessuno ci direbbe che per vivere la fede, la speranza e la carità – che ci sono state donate nel battesimo – abbiamo bisogno di qualche mandato o legittimazione, che non sia quella stessa del battesimo; nessuno, quindi, deve attendersi che qualcuno che gli conferisca un mandato ecumenico: lo ha già fatto Gesù a tutti i suoi discepoli! Tranne che poi qualcuno voglia mettersi al posto di Gesù e sostituirne l’autorità e le parole…
Per questo occorre riflettere, brevemente ma seriamente, su una dimensione di ecologia religiosa: sì, ecologia religiosa, ovvero bonificare l’esperienza di fede cristiana dall’inquinamento della divisione e della prevaricazione, che esiste purtroppo anche tra i figli di Dio.
La verità è una e una soltanto: la dimensione ecumenica, l’ansia dell’unità sono strettamente connesse alla intensità della vita di fede cristiana. Possiamo dire che la passione ecumenica è la “cartina al tornasole” della esperienza dell’incontro con Gesù. Un animo senza passione ecumenica semplicemente non ha incontrato Gesù; quantunque si illuda di essere fedele, devoto e magari cristiano, semplicemente non ha conosciuto Gesù, perché se lo avesse conosciuto veramente si farebbe togliere il sonno da quella Sua supplica accorata: ut unum sint!
L’universo cristiano attinge ad un’unica testimonianza sulla rivelazione di Dio all’umanità, cioè dalla sua Parola. Tuttavia, sappiamo anche come, storicamente, le dinamiche della vita religiosa delle comunità cristiane siano spesso determinate anche da molteplici altri fattori: la loro storia, le loro tradizioni, i condizionamenti culturali ed anche il peso politico e sociale che le singole comunità hanno raggiunto dei diversi territori. Pensate addirittura che esistono territori ritenuti come appartenenti ad una confessione cristiana per diritto esclusivo, quasi che i confini geografici pongano un limite anche all’esperienza della fede e alla vita ecclesiale. Ciò accade quando – corrompendo la genuinità della verità di Cristo – le tradizioni ecclesiali vengono elevate alla stessa dignità della sua Parola. Si crea un cortocircuito micidiale: se una tradizione (che come tale è storicamente caratterizzata) equivale alla Parola di Dio, che è divina e pertanto universalmente valida, allora si genera un contrasto insanabile: il divinamente eterno viene sottomesso allo storicamente mutevole! Sì, perché storia, tradizione e cultura cambiano e ciò che è stato detto 300 anni fa aveva – forse - senso allora e non può rimanere immutabile oggi! Persino la Parola, il cui Spirito è eterno, viene giustamente sottoposta all’ermeneutica perché possa parlare all’oggi! Eppure qualcuno pretende che ciò che viene fatto per la Parola di Dio (interpretata dall’esegesi e dall’ermeneutica) non si debba e non si possa fare per la tradizione umana. Siamo tornati a quello che Gesù aveva già rimproverato: con le vostre tradizioni umane, voi annullate il comandamento di Dio! E di cose simili ne fate molte (Mc 7, 8).
Questa divinizzazione (idolatrica e blasfema) delle tradizioni corrompe le peculiarità delle diverse declinazioni della fede cristiana e le fa diventare causa di inimicizia, i doni specifici diventano causa di diffidenza, ed i carismi personali danno origine a totalitarismi religiosi.
Ecco ciò che accade quando la tradizione viene equiparata alla Parola di vita eterna!
Ma noi oggi assistiamo a qualcosa di persino più sconvolgente: si parla e si straparla di ecumenismo; qualcuno, anche autorevolmente, invoca anche una sorta di concilio ecumenico di tutte le Chiese su questa tematica. Bella idea! E allora che aspetti a convocarlo? O attendi che sia qualcun altro a farlo? E perché attendi che sia qualcun altro? Gli riconosci un primato? Una supremazia cristiana? E, poi, di per sé, esiste già! Il Consiglio Ecumenico della Chiese esiste per questo, ma tutti sappiamo chi ha deciso di mettersi in gioco in quel Consiglio e chi, invece, ha deciso di rimanersene arroccato nella propria situazione di pregio e privilegio… almeno finché questa situazione privilegiata durerà, giacché gli scricchiolii delle fondamenta cominciano a diventare abbastanza assordanti, sebbene si preferisca far finta di non sentirli.
Quante belle discussioni, quante belle proposte, ma poi, i fatti dove sono? L’ecumenismo per delega è un becero tentativo di finzione. Fingiamo che ci interessi, ma in realtà stiamo bene così come stiamo.
Ed allora, forse, per la serietà del momento e della memoria che stiamo vivendo, è giunto il momento di gettare via la maschera e di dire una buona volta a squarciagola la verità!
La verità è che l’ecumenismo ufficiale è fallito! L’ecumenismo dall’alto, quello portato avanti dalle gerarchie, dalle tavole, dai sinodi, è fallito! Si tratta di strutture che oramai sono troppo condizionate dalla loro storia, dal potere che hanno raggiunto e sono occupate a non perdere fedeli, perché l’emorragia dei fedeli porta emorragie economiche. I lunghi, estenuanti, improduttivi dialoghi teologici con i loro documenti chilometrici, che mai nessun fedele leggerà, sono una bella operazione di maquillage sulla faccia rugosa e avvizzita di strutture troppe avviluppate se stesse per accorgersi della loro inutilità.
La profezia dell’ecumenismo si può realizzare solo attraverso l’accoglimento dell’Evangelo, dando primato esclusivo di questa Parola di vita che dà vita che è vita! Persone e chiese evangelizzate sono in grado di mettersi in discussione, perché si lasciano provocare da questo ragionevole dovere a cui sono chiamati i discepoli di Gesù. Questo tempo richiede che le chiese smettano nella loro pretesa di “evangelizzare” – che a volte si traduce nel fare solo proseliti anzicchè generare alla vita di fede - per lasciarsi piuttosto (ri-)evangelizzare dal solo insegnamento che conta quello di Gesù! È possibile infatti che persone e istituzioni si siano scristianizzate, de-evangelizzate mentre creavano strutture sempre più grandi che accumulavano la polvere di prassi tradizionali divenute importanti (per loro) quanto il Vangelo stesso! Questa idolatria della tradizione umana è la tentazione da cui già era passato Israele e – guarda caso – il Figlio di Dio era disceso proprio a divellere quella tentazione per ridare alla esperienza di fede del Suo popolo la sua originaria bellezza: vivere nella volontà di Dio, che è amore per Lui ed è uguale amore verso il prossimo, sintesi di tutte le dieci parole date a Mosè (cf Is 29).
È giunto il momento - ed è questo, perché è ciò di cui il mondo ha maggiormente bisogno oggi e noi per il mondo siamo mandati e non per noi stessi – che chiunque ritenga di portare il nome cristiano si scrolli di dosso i pesi, che gli sono stati messi dalla propria struttura religiosa e dal proprio sistema “cristiano” – e corra libero, conscio della dignità battesimale (che è sua e non gli deve essere concessa da nessuno perché l’ha ricevuta in dono di grazia dal Padre e dal Figlio e dallo Spirito), per vivere insieme ai fratelli e alle sorelle la liberante esperienza di una fraternità senza etichette, di una unità senza strutture, la meravigliosa esperienza dell’armonia sinfonica delle voci cristiane, il Corpo di Cristo e il suo amore che oggi celebriamo!
Noi, la Christiana Fraternitas, abbiamo dato il “la”, chi vuole canti con noi, nella libertà dei figli di Dio!
dom Tonino +
Qui sotto il video della preghiera. Ci scusiamo ma il video si è interrotto durante l'omelia
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