"È il silenzio del Cristo morto per la nostra redenzione che dice e rivela tutto del mistero del Padre ed effonde lo Spirito che rinnova l’umanità". Alcune parole dell'Abate dom Antonio per l'omelia della Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per il venerdì santo.
Anche alla Christiana Fraternitas, presso la Cappella "Santi Benedetto e Scolastica" in Lido Azzurro, Taranto, alle ore 14.30 di venerdì 29 marzo 2024, si è tenuta la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola in Passione Domini.
Qui sotto il testo integrale dell'omelia del nostro
Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
Testi di riferimento: Is 52,13- 53,12; Eb 4,14-16; 5,7-9; Gv 18,1- 19,42
Carissimi fratelli e sorelle, cari amici,
l’austera liturgia del venerdì santo concentra la nostra attenzione su tre elementi: il silenzio, l’ascolto della Parola e la croce del Signore.
Esiste un intimo legame tra questi elementi rituali, che sono però dimensioni della vita spirituale, in genere, e di quella monastica, in particolare. È solo nel silenzio interiore che possiamo vivere un ascolto ed un’accoglienza fecondi della Parola di Dio. Ma le parole che Dio ci ha detto e continua a rivolgerci si condensano nel vero e unico Verbum abbreviatum (cf Bernardo di Chiaravalle, Henri de Lubac), Parola condensata, unica e perfetta che è la croce del Signore Gesù. È il silenzio del Cristo morto per la nostra redenzione che dice e rivela tutto del mistero del Padre ed effonde lo Spirito che rinnova l’umanità.
L’evangelista Giovanni, di cui abbiamo ascoltato il racconto della passione, è l’unico tra gli evangelisti a registrare il fatto che dal costato trafitto di Cristo sgorghino acqua e sangue. Un segno molto caro alla nostra Comunità che ha voluto ricordarlo nella scrittura dell’icona del Crocifisso del trittico del nostro coro monastico. Con il segno dell’acqua e del sangue che sgorgano dal costato di Cristo, Giovanni, sembra quasi che voglia farci concentrare sul mistero di quella fenditura. Dal quel fianco squarciato, da quella apertura nel velo del tempio del corpo di Gesù evidentemente possiamo accedere al mistero della sua persona, alla intimità del suo cuore, nel quale è nascosta e, al tempo stesso si rivela, la verità più intima della sua persona.
Se rileggiamo la dinamica della passione di Cristo, così come ci viene raccontata dagli evangelisti, ci accorgiamo che essa non è affatto il concatenarsi di molteplici sfortunati eventi. La passione non incombe sulla storia personale di Gesù come una inaspettata conclusione, come una disgrazia che sopraggiunge alla sua vita. Essa, invece -si respira nell’aria- viene preparata passo dopo passo. I vangeli ci lasciano molteplici passaggi che ci mostrano chiaramente la consapevolezza di Gesù in questo senso. A Cesarea di Filippo viene collocato il primo annuncio della passione sia da Marco (8,31-33) sia da Matteo (16,21-23). Anche Luca (9,21-22) riporta lo stesso episodio, sebbene con alcune differenze. Ugualmente tutti e tre i sinottici conoscono un secondo annuncio della passione in Galilea (Mc 9,30-32; Mt 17,22-23; Lc 9,43-45) ed un terzo, sulla strada verso Gerusalemme (Mc 10,32-34; Mt 20,17-19; Lc 18,31-34).
Nei racconti della passione, poi, vediamo come Gesù sia pienamente padrone di ciò che deve avvenire: invia i discepoli, con indicazioni precise, a prendergli la cavalcatura per il suo ingresso in Gerusalemme e poi di nuovo dettaglia come individuare il luogo per preparare la cena pasquale. Mentre prega nell’orto degli ulivi, ad un punto preciso afferma che sta per giungere colui che lo tradisce. Quando giungono i soldati, nel vangelo di Giovanni, egli sembra frapporsi tra loro ed i discepoli. «Sono io» risponderà a quelli che gli dicono di essere alla ricerca di Gesù il Nazareno. Sappiamo che quella frase, nel linguaggio del quarto vangelo, è un’affermazione della divinità di Gesù. Egli ripete le stesse parole di Jahvè a Mosè: «dirai loro: Io sono mi ha mandato» (Es 3, 14). Oltre questo significato teologico, però, ve n’è un altro narrativo e psicologico. Gesù dice sono io, perché sa ciò che lo attende e lo accetta, lo sceglie.
La frase più eloquente, probabilmente, si trova nel vangelo di Luca. In apertura della cosiddetta ultima cena, egli afferma: Ho ardentemente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi (Lc 22, 15).
Questa affermazione ci sconvolge e ci pone una domanda: se Gesù sa e conosce bene ciò che lo attende, come può dire di aver ardentemente desiderato quella Pasqua?
Il mistero di quella fenditura del costato squarciato si sta aprendo dinanzi ai nostri occhi. Gesù desidera ciò che ha scelto, desidera ciò che vuole. In lui desiderio e volontà coincidono, sentimenti e volontà stanno insieme.
In questo egli è profondamente differente dagli uomini, segnati dal peccato, perché la ferita di Adamo ha creato una frattura tra desiderio e volontà. Lo stesso Paolo confesserà di vivere questa lacerante frattura interiore e dirà: Vedo quali sono le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori. Il dramma dell’umanità, ferita dalla colpa antica, sta nel fatto che il diavolo – il divisore – con il peccato ha separato la volontà ed il desiderio.
Nel linguaggio biblico – e più in generale – in quello semitico il cuore non è la sede dei sentimenti, anzitutto, ma della volontà. È con il cuore che si desidera e si decide. Noi occidentali abbiamo separato queste due funzioni umane – desiderio e volontà – come se risiedessero metaforicamente in due differenti zone degli uomini: la volontà nella mente ed il desiderio nel cuore. In realtà, sia l’antropologia biblica sia la persona di Gesù ci dicono che desideri ( e affetti) e volontà hanno una stessa sede, una medesima scaturigine: il cuore dell’uomo.
È necessario, però, che noi – redenti dalla morte di Cristo – sappiamo trovare il punto di congiuntura, anzi di ricucitura della volontà e del desiderio. Le conseguenze drammatiche della frattura di desiderio e volontà sono state sommamente cantate, in forma poetica, da Dante Alighieri. Cos’è la Divina Commedia se non il drammatico racconto dell’itinerario spirituale ed interiore del poeta in prima persona e dell’umanità in generale che scendono nei luoghi più bui e tenebrosi della loro esistenza proprio a causa di questa separazione tra il vedere e desiderare il bene, da un lato, e seguire invece il male? Tra vedere e desiderare la grazia, ma scegliere il peccato?
Quello che difficilmente l’uomo contemporaneo comprende è che essere discepoli di Gesù significa proprio ritrovare la forza della unità personale, la sicurezza che nasce dal ricomporre i frammenti della propria esistenza e della propria vita. Siamo schegge impazzite: ci lasciamo prendere da grandi ideali, ma ne realizziamo così pochi; vediamo con chiarezza quale sia la via del bene, ma così pochi passi muoviamo su di essa; ci stanno davanti con chiarezza intellettuale quali siano le cose vere, per cui valga la pane vivere, ma con difficoltà ci spingiamo verso di esse. Tanto parliamo di verità, di giustizia, di bene, di equità, tanto poco condizioniamo ad essi i nostri stili di vita concreta. I nostri cuori sono frammentati, perché da un lato abbiamo riposto il bene conosciuto e voluto e dall’altro lato, ben distanti, stanno i nostri desideri, anzi, le nostre voglie che la fanno da padrone nella nostra vita.
Oggi la fenditura nel fianco squarciato di Cristo ci mostra la via per ritrovare la strada della nostra vera umanità, del senso unico ed unitario della nostra esistenza: solo quando desiderio e volontà torneranno ad essere uniti, solo allora saremo di nuovo signori della nostra vita, padroni della nostra esistenza, costruttori della nostra reale e concreta felicità.
Da quel fianco squarciato fluiscono acqua e sangue, nei quali i Padri della Chiesa hanno sempre letto i simboli del battesimo e dell’eucaristia. Il lavacro battesimale ci ha incorporati a Cristo e ci ha resi, quindi, capaci di invertire la rotta della nostra vita, perché abbiamo in noi la stessa forza di Gesù che volle e desiderò la stessa cosa. L’eucaristia è il pane che ci dà questa forza. Ma, se viviamo come se Gesù non ci fosse concretamente nella nostra vita, se viviamo dando Gesù per scontato, come pretendiamo di ritrovare noi stessi e la nostra interiore unità?
Il cuore di Gesù ha vissuto una indicibile passione. Come abbiamo detto nella domenica delle Palme, non si è risparmiato il sacrificio degli affetti: tradito e rinnegato, abbandonato da tutti, ha vissuto persino l’allontanamento dal Padre. Lui, il Figlio eterno del Padre, arriva a sperimentare il rigetto da parte del Padre: Dio mio, perché mi hai abbandonato. Ha scelto questo annientamento del suo cuore e l’ha voluto, perché sapeva che solo scendendo nelle profondità della miseria umana, solo scendendo nell’inferno della separazione dell’uomo e sperimentandola in prima persona, avrebbe potuto riscattare la ferita antica, la colpa di Adamo e avrebbe potuto donare all’umanità la strada da percorrere per ricostruire se stessa.
In questo venerdì santo, dalla fenditura del costato di Cristo, questa strada ci è messa dinanzi: vogliamo continuare a vivere come persone scisse e frammentate o, insieme a Cristo, per mezzo di Cristo, entrando nel mistero di quel fianco squarciato, vogliamo tornare a ricostruire la nostra unità interiore? Vogliamo ancora accontentarci della finzione di una vita o vogliamo finalmente decidere di vivere veramente? Desiderare Cristo e volere Cristo, desiderare il bene e volere il bene, comprendere e decidere, vedere ed agire… Solo quando saranno finalmente riunificati usciremo dall’inferno di esistenze insensate e splenderemo della gloria della vita redenta e risorta donataci dal Figlio eterno del Padre. Amen
dom Tonino +
Qui sotto il video della preghiera.
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