"l’eucaristia, cioè, trova la sua spiegazione ed il suo effetto nella comunione e nel servizio reciproco dei discepoli. È la carità che rende esistenzialmente vera l’eucaristia; è la comunione fraterna che realizza l’eucaristia celebrata e condivisa". Sono alcune parole dell'omelia l'Abate dom Tonino per la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola in Coena Domini.
Anche alla Christiana Fraternitas, presso la Cappella "Santi benedetto e Scolastica" di Abbey House, giovedì 28 marzo 2024 si è dato inizio al triduo pasquale con la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola, la commemorazione della Cena del Signore e la lavanda dei piedi moderata dal nostro Abate dom Antonio Perrella.
Qui sotto il testo integrale dell'omelia del nostro
Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
Testi di riferimento Es 12,1-8.11-14; 1Cor 11,23-26; Gv 13, 1-20
Cari Amici, carissimi Fratelli e Sorelle,
inizia l’ora del Signore, l’ora del suo innalzamento sulla croce che è anche l’ora della sua piena glorificazione. Per lui, che si dona al Padre nel seno della Trinità, e a noi nel seno della storia, abbassamento e innalzamento coincidono. Egli si erge, glorioso, nella spogliazione di se stesso.
Di questo giorno del giovedì santo si ama sottolineare due doni fatti dal Signore alla sua comunità, a quelli che Giovanni chiama i suoi, cioè quelli che lo hanno accolto come luce (Gv 9) e come Pastore (Gv 10). Si tratta dei doni dell’eucaristia e del comandamento dell’amore. Sappiamo che il testo giovanneo, nel racconto dell’ultima cena, non riporta il racconto della istituzione dell’eucaristia invece conservato dai sinottici. Narra però il segno della lavanda dei piedi compiuto da Gesù dopo la cena. L’autore del quarto vangelo non vuole integrare il racconto dei sinottici, ma interpretarlo: l’eucaristia, cioè, trova la sua spiegazione ed il suo effetto nella comunione e nel servizio reciproco dei discepoli. È la carità che rende esistenzialmente vera l’eucaristia; è la comunione fraterna che realizza l’eucaristia celebrata e condivisa.
In questo giovedì santo, senza dimenticare gli elementi fondamentali che ho appena citato, io vorrei che ci inoltrassimo in una ulteriore riflessione.
L’evangelista ci offre una chiave di lettura, attraverso la quale interpretare e comprendere sia il gesto che Gesù compirà in quella cena sia tutti gli eventi che lo seguiranno. Egli afferma, nella solenne apertura del racconto, che tutto sarà frutto dell’amore del Signore verso i suoi sino alla fine o, come sarebbe meglio tradurre, fino all’estremo, fino al perfetto compimento e alla piena misura di questo amore. Quali sono però i segni che manifestano questa pienezza? I segni sono: lo svestirsi, il cingersi, il piegarsi, il toccare i piedi per lavarli.
Ciascuno di questi gesti, che contribuiscono a creare il segno della lavanda dei piedi, rimandano alla dimensione corporea. Sebbene Giovanni non riporti le parole sul corpo donato nell’eucaristia: questo è il mio corpo, utilizza comunque la dimensione corporea come espressione di un dono: il dono dell’amore che si fa servizio, il dono dell’amore che lava ed eleva l’altro e lo fa attraverso la corporeità.
Allora chiediamoci, fratelli e sorelle carissimi, in che modo il corpo entra in questa dinamica della donazione? In che modo il corpo diventa strumento di salvezza e mezzo attraverso il quale veniamo raggiunti dall’amore di Dio fino all’estremo?
1. Gesù depone la sopravveste, si sveste, potremmo dire, si denuda. È evidente che questo gesto è polisemico: richiama il suo annientamento, cominciato dalla Incarnazione, quella che chiamiamo kenosi del Figlio di Dio. Rimanda anche al suo prossimo essere denudato dai vestiti per venire appeso ad una croce. Richiama, cioè, un atto che sta all’inizio e alla fine di tutta la sua parabola storica in mezzo a noi e, quindi, serve come una inclusione che sia capace di racchiudere tutto il senso della missione di Cristo. Il Figlio di Dio è colui che si denuda e si lascia denudare senza la vergogna di Adamo. In questo gesto, Gesù redime la nudità umana; l’uomo e la donna non dovranno più guardare alla loro fisicità con imbarazzo, come se fosse qualcosa di cui vergognarsi. Non è scandalosa la nudità fisica e non è imbarazzante neppure la nudità morale: scoprirsi davanti agli altri, rivelarsi per quello che si è non deve più fare arrossire. In questo mondo in cui conosciamo una nudità volgare e conosciamo pure la incapacità di denudarsi nel cuore, cioè innalziamo invalicabili barriere difensive attorno al nostro cuore ed ai suoi sentimenti, la bella nudità di Cristo redime la vera ed esemplare nudità umana. La nudità fisica non è fatta per diventare oggetto di passioni perverse e disumane, ma per proclamare la bellezza dell’amore, la comunicazione dei cuori e dei sensi, che sono una eco della donazione di Dio stesso all’umanità. E la nudità interiore non rende vulnerabili; scoprire dinanzi agli altri le proprie fragilità, le proprie insicurezze, i propri sentimenti significa manifestare la splendente bellezza interiore che ognuno di noi si porta dentro.
In questo mondo contraddittorio si è fin troppo abituati a spogliare il proprio corpo, mercificandolo, quanto poco si è capaci di denudare il proprio animo. Queste cose sono intrinsecamente collegate: quanto meno si riconosce la dignità del corpo umano, tanto più lo si cosifica e mercifica; quanto meno si riconosce la nobiltà dei sentimenti, tanto meno ci si sente liberi di manifestarli. Così abbiamo imbestialito la fisicità e schiacciato i sentimenti, in una parola abbiamo perso l’occasione di viverci la grazia dell’umanità redenta. Quanto meno si amano le persone, tanto più si abusa dei loro corpi. E questo avviene nella pornografia, nella promiscuità sessuale, ma anche nella sanità che non rispetta i pazienti, nel mercimonio dei bambini, nel traffico di organi umani, nelle condizioni di schiavitù, nella violenza domestica, nella perdita dell’etica della vita e della persona.
2. Gesù, poi, prende un telo di lino. Servirà – certo – ad asciugare i piedi dei discepoli, ma anch’esso ha una valenza simbolica: richiama i teli della sua fasciatura da bambino ed il telo da cui sarà presto avvolto per la sepoltura. Così come richiama la veste sfolgorante della trasfigurazione. Sembra quasi che Giovanni si diverta a richiamare segni che stanno ai primordi della vita di Gesù, che ritornano alla fine della sua vita terrena e che qui, nel mezzo del racconto, si stagliano come richiami evocativi per indirizzare la nostra comprensione. Il telo copre. Miei cari, esistono nudità che vanno coperte con misericordia e delicatezza e ferite che vanno ripulite.
La miseria della condizione culturale in cui vivono moltissime persone nel mondo richiede che non tutto debba essere spiattellato ai quattro venti. La storia personale, le cadute, le violenze subite, le ferite radicate nel cuore producono povertà umana nelle persone. Generano timori, diffidenze, asprezze. Quante volte si giudica il comportamento delle persone, senza domandarsi quale sia la storia che esse portano sulle loro spalle.
Quante volte si genera una sorta di patologico voyeurismo sulla vita altrui, senza porsi domande sulle cause, che stanno all’origine delle scelte di vita, e senza porsi il minimo problema circa gli effetti devastanti che certe insane curiosità producono nella vita delle persone. Tutti affacciati alla finestra, per spiare la vita altrui, forse perché annoiati della propria o perché, se guardassero la propria vita, ne rimarrebbero terrificati!
Forse si, le persone sbagliano, ma la domanda è chi o cosa li ha condotti a sbagliare? Certe nudità è meglio coprirle con teli di delicatezza umana e con i teli della tenerezza è necessario curare quelle ferite, perché ognuno ha sempre diritto alla sua dignità.
3. Ancora: Gesù si china per lavare i piedi. Ancora una volta, abbiamo il richiamo alla kenosi iniziale, allorquando il Verbo increato discese nella condizione umana; ma si legge anche il riferimento al suo abbassamento finale, quando si dovrà distendere sul patibolo per essere poi innalzato sulla croce.
Il corpo si protende, va verso le altre persone. Il corpo però può protendersi per due ragioni: per darsi e per abbracciare, ma anche per prendere e per ferire. Il modo con cui protendiamo i nostri corpi rivela le nostre le nostre intenzioni ed i nostri cuori. Quali sono le intenzioni con cui ci protendiamo? Cosa esprime il nostro proiettarci verso gli altri? I nostri avvicinamenti parlano di interessi personali o di dono? Le nostre prossimità rivelano desiderio di donazione o di appropriazione indebita? Il corpo, che si protende per donarsi, sa attendere che l’altro si avvicini; il corpo, che si protende per accaparrare e ferire, non attende, ma pre-tende e violenta.
Lo vediamo nella violenza verbale e fisica, nelle guerre di aggressione dei territori, nel fanatismo terrorista, nella logica della borsa e della finanza, nelle leggi spregiudicate del mercato senza regole, nell’abuso nei confronti della natura: corpi famelici, che si protendono – possessivi, aggressivi e violenti – per prendere, per rapinare, per possedere. Gesù, invece, ci rieduca al pro-tendere senza pre-tendere.
4. Solo alla fine Gesù lava i piedi. Come non pensare all’acqua, con la quale il suo corpo venne delicatamente e amorevolmente lavato dopo la nascita; all’acqua del giordano nella quale si immerse per essere battezzato all’inizio del suo ministero pubblico; ed infine all’acqua che – salvifica e sovrabbondante d’amore – sgorgherà dal suo fianco squarciato. L’acqua purifica e rinfresca, ma è capace anche di soffocare e far annegare. Come un corpo, che è capace di purificare e dissetare, ma anche di opprimere e sopprimere.
È salvifico un corpo che si avvicina – benevolo – a chi da corpi malevoli è stato ferito; un corpo che abbraccia chi non conosce sfioramenti delicati e innamorati, ma solo afferramenti devstanti.
5. Il corpo di Gesù parla, come parla il nostro corpo. Esso dice ciò che ci portiamo dentro.
Ci sono corpi espressivi: dalla tua faccia si capisce subito quello che pensi, ci sentiamo dire talvolta. Ma esiste anche qualcuno a cui viene detto: è come una sfinge. Impossibile decifrarlo. Ha un corpo inespressivo. Il corpo espressivo è tipico di chi si dona, di chi si compromette, di chi forse non splende per diplomazia ma rifulge di schiettezza. I corpi inespressivi sono quelli di chi ha così svuotato la propria umanità, riempiendola di interesse, di tornaconto, di falsità, che oramai non esprime più nulla perché si porta dentro solo una voragine scavata da egoismo e indifferenza, il baratro di una umanità avvizzita e rattrappita.
Oggi, in questo giovedì santo, sta dinanzi a noi un corpo donato: il corpo dell’eucaristia, il corpo del Maestro che si fa servo, il corpo della comunità che prolunga ed estende quello del Maestro.
Sta a noi scegliere se accogliere il suo esempio e fare del nostro un corpo che si pro-tende o uno che pre-tende; che dà vita o la toglie; che disseta o annega; che copre con delicatezza o schiaccia miseramente; che dona o rapina.
Perché lì, in quel linguaggio del nostro corpo, si manifesterà la nostra anima…
dom Tonino +
Dopo la Celebrazione si è tenuta una veglia di preghiera con Gesù nel Getsemani.
Qui sotto il video della preghiera.
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