Lunedì 15 aprile 2019, nella nostra Casa di Preghiera, abbiamo vissuto la Commemorazione Ecumenica della Pasqua del Signore.
La Celebrazione Ecumenica è stata caratterizzata dalla preghiera dei Salmi e dalla proclamazione, in forma dialogata e drammatizzata, del racconto della Passione di Gesù. Questo stile di preghiera-catechesi è ben conosciuto già dal XIII secolo ed aveva la funzione di formare i cristiani ai misteri che celebravano ed in cui credevano. Mentre venivano proclamati i testi sacri o cantati inni, ad essi ispirati, si compivano i gesti narrati. in questo modo il popolo di Dio era formato sia a conoscere il contenuto degli eventi salvifici compiuti da Gesù sia a comprenderne la attualità e permanente presenza nella sua Comunità.
Durante la Celebrazione, al momento della narrazione della lavanda dei piedi, il nostro Abate si è inginocchiato dinanzi ad alcuni fratelli e sorelle, che, per ragioni e storie differenti, hanno vissuto l'amara esperienza della esclusione. Si è così mostrato che il Signore Gesù tutti accoglie, tutti ama e tutti abbraccia... e non a parole!
Un altro momento particolarmente emozionante: la Commemorazione della Cena del Signore. Ovviamente non si è trattato di una Celebrazione Eucaristica sacramentale (che noi, in quanto ecumenici, non facciamo mai!) ma appunto di una sacra drammaturgia, che aveva lo scopo di commemorare e ricordare il dono della vita di Gesù e la comunione tra fratelli, che da quel dono è scaturita.
l'omelia dell'Abate
Cari Fratelli e Sorelle, Care Amiche ed Amici,
viviamo questa Commemorazione della Cena di Gesù anzitutto con sentimenti di gratitudine. Siamo grati a Dio che ci raduna e siamo grati a voi, che avete risposto al suo invito. Io, e con me la piccola Comunità Monastica della Christiana Fraternitas, sono grato per il dono della vostra presenza ed amicizia. Guardo gli amati Fratelli, Pastori/e delle Chiese Cristiane, e gioisco della ricchezza che la loro presenza dà alla mia vita di fede. Senza di loro io e l’Ordine saremmo infinitamente più poveri. Guardo voi, sorelle e fratelli, a cui ho avuto il privilegio di lavare i piedi. Per ragioni diverse, in momenti della vostra vita, avete potuto sperimentare la terribile esperienza di non esservi sentiti amati ed accolti da qualcuno. Questa sera siete qui al centro del cuore di Dio che mai ha smesso di amarvi e di tenervi tra le sue braccia. E se il segno, che ho compiuto, inginocchiandomi davanti a voi, lavandovi i piedi come fece Gesù e baciandoli con amore di fratello, vi ha fatto sentire quanto siete belli – così come siete – davanti agli occhi di Dio e nostri, allora questa sera il mio, il nostro cuore è davvero colmo di vera gioia pasquale. Guardo a voi, Monaci e Monache, ed a tutti i presenti, e sento che il mio cuore si riempie della gioia che solo un vero amore fraterno può dare alla vita di tutti noi.
Questa sera, infatti, noi non ricordiamo o celebriamo una morte, neppure una morte tanto decisiva e importante come quella di Gesù, da cui è nata la nostra salvezza. Noi questa sera celebriamo la vita! Sì, perché è l’amore che dà vita! Lì dove una persona si scopre amata, infinitamente amata, incondizionatamente amata, lì c’è la vera vita, quella che Gesù ha scatenato con la potenza della sua morte e della sua risurrezione.
Perché in fondo questo vuol dire la Pasqua: passare da un mondo, fatto di egoismo che esclude, aliena, schiavizza, ed infine uccide, ad un mondo che ama, che dona, che libera un mondo in cui tutti siamo servi della gioia gli uni degli altri, in cui tutti siamo servi della vita gli uni degli altri. Questo è il “rito perenne” (cf Es 12,14) che siamo chiamati a celebrare.
Abbiamo ascoltato, ed anche rivissuto nei segni, l’ultima cena del Signore Gesù. Abbiamo unito i testi di Marco (14,22-25) e di Giovanni(13-1-15): la cena condivisa con il pane ed il vino e la lavanda dei piedi. Sappiamo bene che tra di noi, cristiani, vi sono diverse interpretazioni. Alcuni guardano alla cosiddetta ultima cena come al momento in cui Gesù ha istituito il Sacerdozio e l’Eucaristia. Altri, invece, ricordano quella cena come il momento in cui ci è stato consegnato il comandamento più grande che è quello dell’amore vicendevole.
Si tratta di questioni e differenze molto antiche. Ma si tratta anche di una unità altrettanto antica: qualsiasi siano le sfumature e le diverse interpretazioni che diamo a quella Cena e alle parole ed ai gesti di Gesù, rimane un fatto innegabile: quella Cena ci insegna ad essere cristiani, a quella cena tutti guardiamo per imparare ad essere più cristiani, perciò più uomini.
Il brano di Giovanni, in cui è narrata la lavanda dei piedi, fa parte del suo patrimonio esclusivo. Non si trova nei sinottici. Questo fatto non ci stupisce per nulla. Abbiamo già altre volte detto e dimostrato che Giovanni ama sottolineare elementi che le altre tradizioni avevano tralasciato o dimenticato.
Questa diversità di racconti e di interpretazioni ci mostra che già nella Chiese primitive esistevano due tendenze: una, quella della cosiddetta “grande Chiesa”, che fissava istituzioni e forme, ed un’altra, a cui appartenevano le comunità giovannee, che prediligevano la libertà dell’amore e del carisma. Istituzione e carisma non sono necessariamente contrapposti, anche se storicamente gli uomini fanno sempre fatica a tenerli assieme. Una cosa però è certa: l’istituzione non può soffocare il carisma, perché lo Spirito di Dio, che è libero ed agisce come vuole (cf Gv 3-8) e con chi vuole, troverà sempre la strada per soffiare potentemente sulla Chiesa e sull’umanità.
I commentatori non mettono mai in dubbio la storicità del fatto della lavanda dei piedi, semplicemente dicono che, mentre i sinottici sono più interessati alla narrazione del pasto con il suo legame alla questione eucaristica, Giovanni è più interessato alla lavanda come atto di amore, che diventa la chiave di lettura di tutta la vita di Gesù e di quanto sta per avvenire con l’offerta della sua vita.
Ciò su cui molto si dibatte, invece, è se il racconto abbia una finalità morale o una finalità sacramentale. Cioè i commentatori, sin dall’antichità cristiana, si dividono su questi due fronti: alcuni dicono che l’atto della lavanda dei piedi è un segno con cui Gesù vuole insegnare qualcosa ai suoi discepoli ed altri invece ritengono che essa sia un segno sacramentale, cioè un’azione che la comunità cristiana deve compiere come strumento di partecipazione alla vita di Gesù, come sarebbe per esempio per il battesimo.
Se ne sono occupati scrittori antichi come Giovanni Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia ed Origene nell’antichità; scrittori medievali come Ugo di San Vittore; e scrittori contemporanei come Bultmann, Jeremias, Lagrange e molti altri.
A me sembra, però, che le due interpretazioni non siano contrastanti ma complementari.
Giovanni ci dice espressamente che la cena avviene poco prima della Pasqua e che Gesù è consapevole che è giunta l’ora di dare la vita. Si tratta delle sue ultime ore terrene con i suoi discepoli. Chiunque sappia che sta per salutare le persone che ama, dice loro ciò che più gli sta a cuore. È ovvio quindi che anche il Signore voglia trasmettere ai suoi discepoli ciò che più ritiene fondamentale per il loro futuro e per il cammino di fede che essi dovranno portare avanti, dopo che lui sarà tornato al Padre.
Inoltre Giovanni ci dice che questo gesto si trova tra due atteggiamenti interiori di Gesù: “avendo amato i suoi che erano nel mondo”(fa riferimento a tutta la sua vita precedente) e “li amò sino alla fine”(fa riferimento all’ultima tappa della sua vita e quindi all’offerta di essa sulla croce). Tra ciò che Gesù ha fatto e ciò che sta per fare si colloca questo gesto-segno.
In esso Gesù sta donando sì un esempio, ma soprattutto ci sta partecipando di un modo d’essere uomo, anzi, il modo di esserlo perfettamente. In questo senso la lavanda dei piedi può anche essere definita come un sacramento, perché ci rende partecipi della vita di Gesù, ce la manifesta e ce la fa manifestare al mondo. Essere partecipi della vita di Gesù vuol dire due cose insieme: lasciarsi amare da lui, fino a consentire al Figlio di Dio di farsi nostro servo, e al tempo stesso amare gli altri, fino a farsi servo degli altri. L’accesso alla vita divina di Gesù vuol dire aprirsi e vivere questi due movimenti d’amore. Tra di essi infatti ogni cristiano vive: tra l’amore che riceve da Gesù e quello che dona agli altri. Questi due movimenti però devono essere uguali, tenuti assieme dalla loro misura: fino a farsi servi, fino alla fine, senza riserve e senza sconti.
Lasciarsi amare ed amare: due movimenti meravigliosi, che costituiscono l’essenza della nostra vita, eppure ci appaiono sempre così difficili.
Lasciarsi amare da Dio non è semplice, perché ci portiamo sempre addosso molti condizionamenti. Talvolta ci domandiamo: “Ma io merito il suo amore? Sono degno del suo amore?” Oppure qualche volta ci è stato detto: “se fai questa cosa, se vivi in questo modo, offendi Dio”. L’amore di Dio, che Gesù ci mostra, è un amore controverso perché Dio si fa servo dell’uomo. Ma spesso siamo preda di una vera tentazione che ci impone l’idea del Dio glorioso, onnipotente, infinitamente distante da noi. Giovanni invece ci dice una cosa diversa. Gesù si toglie le vesti. Quali? Certamente se n’è tolta una sola, la sopravveste, altrimenti sarebbe rimasto nudo. Eppure l’evangelista volontariamente usa il plurale, per lasciarci intravvedere il momento in cui a Gesù saranno realmente tolte le vesti e rimarrà nudo, sulla croce. Un Dio che si denuda e si mette il grembiule, un Dio che si inginocchia davanti all’uomo per lavargli i piedi come uno schiavo, un po’ ci fa paura, ci destabilizza… È così lontano dall’immagine di Dio che ci è stata trasmessa e soprattutto: se Lui fa così, cosa dovremmo fare noi per essere come Lui? È un modo di amare che non è senza conseguenze, perché in qualche modo ci inchioda ad una verità scomoda: Dio ama e per questo amore si spoglia di tutta la sua gloria. Dobbiamo ancora permettere a Dio di amarci a modo suo, senza imporgli di amarci come vorremmo noi o come vorrebbero i nostri schemi culturali e religiosi. Quando Gesù si spoglia della sua gloria e si cinge il grembiule, lava i piedi a tutti: a chi lo ha seguito ma non lo ha compreso, a chi lo avrebbe voluto differente da com’era, a chi lo stava tradendo e a chi lo avrebbe rinnegato. Lasciamoci amare da Gesù, tutti, così come siamo, né come vorremmo essere né come altri vorrebbero che noi fossimo. Lasciamoci raggiungere, riempire, accarezzare da questo amore di Gesù che ci tocca nella nostra situazione di vita, qui, oggi, adesso!
Nella locandina di invito, abbiamo scelto una raffigurazione dell’ultima cena molto moderna. Si tratta di un’opera pittorica dell’artista Tommaso Pensa. In essa i commensali sono uomini e donne “scomodi”: c’è chi prega e chi indica, chi conta soldi o forse peccati altrui, chi chiede il futuro e chi lo legge sulla mano, chi impugna un coltello, chi spezza e condivide il pane, chi domanda all’altro che cosa vada cercando. Una umanità variegata e non certo identificata come umanità religiosa, eppure lì seduta attorno alla stessa mensa. Lasciamoci amare da Dio per quello che siamo! Così come siamo!
Il secondo movimento d’amore è quello che parte da noi, raggiunti dall’amore di Gesù. Un amore, tuttavia, che non è pietà, non è commiserazione. Un amore che si fa dono di vita, concreto! Siamo veramente discepoli di Gesù se facciamo ciò che lui fa, ovvero se anche noi ci spogliamo delle nostre miserie glorie e presunzioni e ci facciamo servi degli altri. Io appartengo a Gesù se aiuto concretamente l’altro a sentirsi amato, se lo aiuto a costruire la sua vita, la sua gioia, qualunque essa sia, sia che io la condivida sia che non la condivida. Non dev’essere la mia gioia proiettata sull’altro, dev’essere la sua gioia, unica e irripetibile, come unico e irripetibile è il progetto che Dio ha su di lui, su di lui solo. Amiamo il prossimo come Dio ama ciascuno di noi! Così come il prossimo è!
Camminare nel movimento di Gesù, come ama dire il Vescovo presidente, Michael Curry, vuol dire sentirci pellegrini in cammino, facendolo però sempre insieme agli altri. La gioia del mio cammino non starà tanto nei traguardi che raggiungo, ma proprio nel camminare con gli altri.
Recentemente il Vescovo Mark Edington ha condiviso un pensiero del grande teologo Bonhoeffer relativo al rapporto di coppia: “Non insistete sui vostri diritti, non incolpatevi gli uni gli altri, non giudicatevi o condannatevi reciprocamente, ma accettatevi gli uni gli altri come siete”. Il Vescovo Mark ci ricorda che nessuna alleanza tra persone, compagnia umana, e tanto meno una compagnia di una comunità che voglia dirsi cristiana, può sopravvivere senza questa capacità di accoglierci, di amarci e di servirci reciprocamente.
Chiediamo a Dio, spoglio di ogni cosa per amore nostro, che anche noi abbiamo il coraggio di cingere il grembiule ai fianchi della nostra vita, cioè di indossarlo come l’abito vero che contraddistingue ciò che siamo e come viviamo: tu -caro fratello e sorella- e la tua gioia, la pienezza e realizzazione della tua vita, siete la ragione della mia! Amen!
La Preghiera comune
Abate: Sorelle e Fratelli carissimi, portiamo al cuore di Dio tutte le nostre preghiere e ad ogni invocazione rispondiamo:
Tutti: Resta con noi Signore!
§ Resta con noi Signore, perché nella vita dell’umanità si fa sera: si fa sera quando il senso dell’abbandono, dell’insufficienza, della disperazione, lascia un vuoto che viene colmato da forme di dipendenza lacerando il tessuto dell’integrità della persona che hai tanto amato e redento.
§ Resta con noi Signore, perché nella vita dell’umanità si fa sera: si fa sera quando prevale la “legge del più forte” e quando questa diventa un sistema nascono forme di violenza che colpisce persone di tutte le età: bambini, adolescenti, giovani e adulti.
§ Resta con noi Signore, perché nella vita dell’umanità si fa sera: si fa sera quando il terrore e l’oppressione entrano nelle relazioni, nelle famiglie strappando la dignità di chi ne subisce le conseguenze.
§ Resta con noi Signore, perché nella vita dell’umanità si fa sera: si fa sera quando le persone vengono pesate sulla bilancia della convenzione sociale spesso conseguenza di posizioni retrograde e precluse alle novità della vita, tua creazione, aprendo cosi varchi alla discriminazione.
§ Resta con noi Signore, perché nella vita dell’umanità si fa sera: si fa sera quando gli occhi sono accecati dalla paura e precludono il cuore all’accoglienza di un fratello o una sorella che migra da un paese all’altro.
§ Resta con noi Signore, perché nella vita dell’umanità si fa sera: si fa sera ogni volta che in qualsiasi modo o forma, mortifichiamo noi stessi e il fratello.
l'Abate: Resta con noi, Signore, perché senza di te la notte avanza e le tenebre ricoprono ogni cosa. Resta con noi, con la luce che irradia dal tuo amore e ci mostra la bellezza di tutto ciò che ci circonda. Resta con noi, Signore, perché solo con i tuoi occhi possiamo vedere la luce sfolgorante che risplende nel cuore e sul volto di ogni uomo e donna. Fa’, o Signore, che non cediamo più alla notte della violenza e dell’ingiustizia, alle tenebre dell’esclusione e della discrimazione, al buio dell’odio e dell’emarginazione. Donaci occhi semplici che sappiano stupirsi dinanzi ai volti e dinanzi ad altri occhi, senza farsi troppe domande. Senza chiedersi: chi è, a che razza appartiene, cosa ha fatto nella vita, qual è la sua religione, quale il suo orientamento sessuale. Donaci, di nuovo, la capacità di stupirci e di lasciarci illuminare dalla bellezza sfolgorante di un volto, semplicemente perché è il volto di una persona e, in fin dei conti, il tuo stesso volto. Resta con noi, Signore, e fa’ che questa notte d’umanità passi e l’alba nuova, gioiosa e sfolgorante, sorga finalmente all’orizzonte.
Tutti: Amen.
Qui sotto i link del giornale La Repubblica e del sito Costruiamo Insieme Cooperativa sociale che riportano la notizia della Celebrazione.
https://bari.repubblica.it/cronaca/2019/04/18/news/lavanda_piedi_taranto-224349541/?fbclid=IwAR1f7BgawEyCrnQb2mYJtYlmLkj8AECYw4St_sWLp40GfQTZtxojEn0I35g
http://www.costruiamoinsieme.eu/le-mie-passioni/?fbclid=IwAR2PJ6mQGjzNehQSC4O-zEeTIznBIBbVuobVDqFhq6lWnWIzz5WgwhuyuRA
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