"Costituenda est ergo nobis Dominici schola servitii"(RB, Prologo): Signore è dapprima la fonte e poi il destinatario del servizio. Egli è la fonte, perché il monaco serve Dio, facendo la sua volontà, non perseguendo fini ed aspirazioni propri. Egli è il destinatario, perché il monaco a qualunque servizio comunitario venga chiamato [...] deve avere coscienza che sta servendo Dio!". Le parole dell'Abate Antonio nella celebrazione dei primi vespri della Solennità delle Opere di Dio in San Benedetto da Norcia.
Lunedì 10 luglio 2023 alle ore 19:30, presso la Cappella "Santi Benedetto e Scolastica" della Casa Apostolica della Christiana Fraternitas si è svolta la Celebrazione Capitolare Ecumenica dei Primi Vespri Solennità delle Opere di Dio in san Benedetto da Norcia.
La Celebrazione è iniziata con la processione che ha portato le reliquie del santo al centro del Coro monastico della Casa di Preghiera. Al termine della preghiera i monaci hanno offerto ai fedeli il dolce di San Benedetto e il limoncello preparati in Abbazzia.
Testo integrale dell'omelia del Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella
in occasione dei primi vespri della Solennità di San Benedetto da Norcia 10 lugli 2023
Testo di riferimento Lc 10 e RB, Prologo
Carissimi fratelli e sorelle, cari amici ed amiche,
anche quest’anno il Signore ci dona la grazia di celebrare ed ammirare le sue Opere meravigliose, compiute attraverso la vita del suo servo e padre della nostra Regola: Benedetto da Norcia.
1. La via di Dio e di Benedetto nel loro reciproco cercarsi.
Questa annuale ricorrenza ci offre la possibilità di entrare nella via che Dio ha solcato nella vita di Benedetto e di ripercorrerne i passi. Su quella via possiamo vedere Dio che va incontro a Benedetto e Benedetto che va incontro a Dio. Se è vero che, per Benedetto, la vita monastica è quaerere Deum, cercare Dio, è altrettanto vero che è Dio a quaerere Benedictum, a cercare lui e – ne siamo persuasi- anche ciascuno di noi. La nostra vita monastica è la via del reciproco cercarsi di Dio e nostro. Questo è il motivo per cui ogni anno facciamo memoria di Benedetto: immergerci nella sua vita e nella ricchezza della sua esperienza spirituale ci aiuta a trovare la nostra esperienza spirituale.
Sappiamo già che Benedetto non è, come veniva comunemente detto, il fondatore del monachesimo e neppure di quello occidentale, che conosceva già altre esperienze. Se così non fosse non si comprenderebbe il senso del primo Capitolo della Regola, nella quale egli classifica «quattro specie di monaci». Benedetto, per fare una classificazione, è evidente che l’esperienza monastica era già diffusa e strutturata. Egli però canonizza in Occidente la vita cenobitica, iniziata da Atanasio, e la sua posterità la diffonderà in tutta l’Europa. La sua Regola diventerà la base per ogni esperienza cenobitica occidentale fino ai nostri giorni e, anche noi della Christiana Fraternitas ne dovremmo essere una prova.
Sappiamo anche che, nel redigere la Regola, egli si rifà a testi esistenti, fra i quali emerge la cosiddetta Regola del Maestro, scritta nel primo quarto del secolo VI d. C. in ambiente romano, con influssi provenienti dal monachesimo campano.
Come prònao di ingresso alla Regola, leggiamo il Prologo in cui sembrano essere raccolti alcuni consigli circa le attitudini interiori e spirituali con cui il figlio-discepolo deve porsi in ascolto del Maestro per giungere alla perfezione della sua vita. Al termine di questi consigli, l’autore afferma che constituenda est ergo nobis dominici schola servitii- è necessario dunque che noi costituiamo una scuola del servizio del Signore.
In questa viglia della Solennità delle Opere di Dio in Benedetto, vorrei entrare, assieme a voi, proprio nel significato di queste parole: constituenda est ergo nobis dominici schola servitii.
2. Constituenda est…
Dal punto di vista sintattico, ci troviamo dinanzi ad una perifrastica passiva, che nel latino medievale indicava un “dovere”, un’azione necessaria. La schola del servizio del Signore è, quindi, per Benedetto necessaria, diremmo obbligatoria. Non si tratta di un’opportunità, di qualcosa di facoltativo, ma di qualcosa di necessario. Già questo ci fa iniziare a porci delle domande: ma io sento come necessario per la mia vita il rapporto con Dio? Lo sperimento e lo vivo come la relazione fondamentale alla luce della quale prendono vita e significato tutte le altre relazioni? Dinanzi a Marta che si lamentava, perché la sorella Maria si era messa a sedere per ascoltare la parola del Maestro, Gesù è chiaro: «Maria si è scelta l’unica cosa necessaria» (Lc 10,42). Per comprendere questa necessità, occorre che noi torniamo al brano evangelico conosciuto con il nome di “Marta e Maria” (Lc 10,38-42) che abbiamo appena ascoltato. Gesù è nella casa di queste due sorelle: la prima, Marta, è agitata e turbata da molti servizi e preoccupazioni, mentre l’altra, Maria, sta seduta ad ascoltare il Maestro. Marta si lamenta ed interpella Gesù, perché rimproveri Maria. Il Signore – così lo appella Luca, per indicare che ci troviamo dinanzi ad un insegnamento divino – per ben due volte chiama Marta per nome. Si tratta di una vera vocazione! Sì, Gesù sta chiamando quella discepola a diventare davvero discepola. Non era sufficiente andare dietro a Gesù e neppure essere tanto familiari con lui da poterlo ospitare in casa, per definirsi suoi discepoli. Occorreva fare una scelta ben precisa: scegliere Lui come l’unica cosa necessaria, come la parte buona, la parte migliore della vita! In questo brano dell’Evangelo di Luca vengono affiancate (ed anche contrapposte) due figure di discepoli, che di per sé erano già emerse nel capitolo 8 di Luca. Lì Gesù parla di coloro che ascoltano la Parola: vi sono quelli che l’ascoltano ma poi si lasciano prendere da molte preoccupazioni che, come spine, soffocano il germogliare del seme della Parola; e poi vi sono quelli che ascoltano la Parola e producono frutto perché sono come una terra buona capace di accogliere il seme, lasciare che metta radici e germogli. I termini con cui vengono indicate le “preoccupazioni” sono gli stessi sia nella parabola del seminatore (Lc 8) sia nell’episodio di Marta e Maria (Lc10); e l’aggettivo “buono” è lo stesso che ricorre nella parabola del capitolo 8 per indicare la terra fertile e nel capitolo 10 per indicare che Maria si è scelta la parte migliore, la parte buona.
Ciò che lascia abbastanza interdetti è che le preoccupazioni che soffocano Marta vengono indicate da Luca come servizio, come diakonia: lo sresso termine usato nel prologo della Regola: «dominici servitii-servizio del Signore».
Da tutto questo comprendiamo che non è sufficiente essere battezzati per dirsi discepoli e neppure – diciamocelo- essere consacrati. Ci rende discepoli solo l’aver scelto Gesù come la cosa più necessaria della nostra vita e come la parte migliore della nostra esistenza. Ma, perché questo avvenga realmente ed in ogni ambito della nostra esistenza, è necessario (non facoltativo) che costituiamo una scuola del servizio del Signore.
3. Schola
Giungiamo così al termine schola. Anche in questo caso non dobbiamo interpretare il testo con la nostra mentalità contemporanea, ma con quella dell’autore della Regola. Dobbiamo, pertanto, domandarci: cosa significava la parola schola al tempo di Benedetto? Il termine latino schola deriva da quello greco scholé, che significa “tempo libero” ma anche “dedizione a”. Il verbo scholàzein indica lo stare in ozio: non si tratta di non far nulla; l’ozio era un aspetto formativo ed importante della vita. Esisteva l’ozio letterario, l’ozio artistico, l’ozio musicale. Si trattava, cioè, di azioni che non erano dominate dalla preoccupazione di lavorare e ricavarne profitto, di guadagnare ma di azioni che riguardavano la formazione complessiva della persona. Scholàzein significava anche “dedicare del tempo a”. Quando Benedetto usa questo termine schola quindi ha bene in mente un tempo ed un luogo in cui ci si libera degli affanni della vita per dedicarsi interamente al servizio del Signore. Schola, inoltre, iniziava anche ad identificare un luogo o un gruppo di persone che insieme si dedicavano a qualcosa.
Schola, quindi, per Benedetto è il luogo (monastero), in cui un gruppo di persone (comunità monastica) dedicano se stessi, il proprio tempo, le proprie energie al servizio di Dio, inteso come l’occupazione principale, fondamentale della propria vita: una occupazione che non produce cose da fare, né dà origine a guadagni, ma che dà senso alla vita ed è il senso della vita!
Anche qui possiamo e dobbiamo porci delle domande: se il termine schola porta con sé il significato del dedicare tempo, allora quali sono le cose, le attività per cui io più facilmente e più piacevolmente so trovare il tempo? Perché, alla fine, saranno quelle cose a cui dedico del tempo ad esprimere il senso della mia vita! Se dedico la maggior parte del mio tempo al lavoro, inteso come fonte di guadagno, alla fine sono i soldi ad essere il senso della mia vita. Se io dedico la maggior parte del tempo ad alcune relazioni umane, magari a discapito delle altre, alla fine sono quelle relazioni ad essere il senso della mia vita. Se mi trovo dinanzi ad una concomitanza tra un impegno monastico e un’altra attività e scelgo l’altra attività, allora è quella ad essere il senso della mia vita, a dispetto delle mie parole e persino dei miei voti davanti al Signore e al suo popolo!
Infine, nella cultura romana dell’epoca di Benedetto, il termine latino schola veniva usato in tre ambiti di relazione e di dedizione radicale. La schola era il luogo in cui si apprendeva la conoscenza, ma anche il luogo in cui si prestava servizio ad un padrone ed, infine, il luogo in cui si militava sotto un sovrano. Usando quel termine, nella sua epoca, Benedetto sta dicendo ai monaci che essi devono dedicarsi a Gesù, come Maestro della vera conoscenza, come Signore di tutta la vita e come Re per il quale bisogna affrontare il combattimento della conversione dei costumi.
La scuola del servizio del Signore, indica la totalità e la radicalità del rapporto con Gesù e della dedizione a Lui. Egli non può essere uno degli impegni della vita, uno dei sensi dell’esistenza, uno degli affetti tra i tanti… Benedetto, con la sua vita e la sua Regola ci testimonia che o Dio è il centro della nostra vita o semplicemente la nostra vita non ha un centro!
Infine, non posso tacere il fatto che il termine schola indicava un luogo ed un gruppo di persone. Questo cammino, nel quale si fa di Gesù il centro dell’esistenza e la cosa necessaria e la parte buona della vita, è sempre una comunità. Autodidatti e solitari della fede si illudono semplicemente di seguire Gesù. Ma su questo punto e sulla necessità della comunità per un vero discepolato di Gesù, abbiamo parlato così tante volte che non è necessario tornarci ulteriormente.
4 …nobis…
Questa parola, che fa parte della frase oggetto della nostra riflessione: constituenda est ergo nobis dominici schola servitii, non viene quasi mai tradotta. Si tratta del dativo di agente che, nel costrutto della perifrastica, funge da soggetto dell’azione: è dunque necessario che noi costituiamo una scuola del servizio del Signore. Io preferisco tradurla, perché – anche se può apparire pleonastica – essa, invece, ci offre una importante sottolineatura circa il soggetto ed il contesto della scuola del servizio del Signore.
Se rileggiamo il Prologo ci accorgiamo che esso è da principio rivolto alla seconda persona singolare (tu): tu, figlio, ascolta; tu apri l’orecchio; a te si rivolgono le mie parole. Eppure, dopo questo inizio, passa subito alla prima plurale (noi): noi leviamoci, noi interroghiamo il Signore; il Signore si attende che noi ogni giorno corrispondiamo.
Il soggetto siamo noi: ancora una volta solo insieme possiamo realizzare ciò che ci è richiesto. Noi siamo il soggetto e la comunità è il contesto in cui possa realizzarsi la scuola che ci viene indicata e richiesta dal nostro fondatore Benedetto. Se questo “noi” diventa la forma del nostro pensare e del nostro agire, allora ci riusciremo. Se, invece, nel nostro stile di vita continua a dominare l’io, allora non può crearsi alcuna schola, perché non esiste un luogo comune, al di là delle strutture. Avremmo i luoghi della comunità, ma ci mancherebbe la comunità…
4. Dominici servitii
Giungiamo così alle ultime due parole dell’invito benedettino. Il servizio del Signore.
Sappiamo bene che nella Regola il servizio di Dio coincide con tre elementi decisivi della vita monastica: ora, lege et labora. Se è vero che queste tre azioni vanno insieme, è però altrettanto vero che esse stanno insieme solo se seguono quest’ordine. Al centro della vita del monaco e dell’abbazia c’è l’opus Dei, la opera di Dio per eccellenza che è la preghiera, anzitutto quella liturgica e corale e, poi, quella personale. Solo se e quando il Signore diviene il centro della vita nella relazione orante con Lui, allora anche lo studio ed il lavoro sono opere di glorificazione di Dio. Nulla può prendere il posto di questo servizio della lode che rimane il fine fondamentale della vita monastica.
Su questi aspetti torneremo con più profondità domani. Oggi vorrei rimarcare che il servizio è del Signore e questo vuol dire due cose: ovvero che il Signore è dapprima la fonte e poi il destinatario del servizio. Egli è la fonte, perché il monaco serve Dio, facendo la sua volontà, non perseguendo fini ed aspirazioni propri. Egli è il destinatario, perché il monaco – a qualunque servizio comunitario venga chiamato dalla comunità, attraverso il discernimento dell’abate – deve avere coscienza che sta servendo Dio! Il semplice tenere in ordine la casa monastica o la casa di preghiera è servire il Signore; curare la pulizia degli ambienti e l’accoglienza degli ospiti è servire il Signore; organizzare le celebrazioni e coinvolgere i fedeli, che ci seguono, è servire il Signore.
È solo questo atteggiamento interiore, questo stare in permanente servizio di Dio che ci rende monaci nella vita e non nelle parole.
5. Conclusione
Cari fratelli e sorelle, cari amici ed amiche,
l’annuale festa di san Benedetto ci porta a guardarci dentro in umiltà e verità, a ritrovare le ragioni profonde e le dimensioni del nostro discepolato.
In modo particolare, a voi, miei amati fratelli e sorelle monaci e monache, questa festa giunge come un dono di grazia e di preparazione al prossimo gennaio, quando sarete chiamati a rinnovare, nelle mie mani, quelle di Gesù Cristo (cf RB,II), i vostri voti monastici. Vi consegnerò il testo di questa mia omelia, perché sia viatico che vi accompagni fino al prossimo gennaio, così che la vostra decisione esteriore, pubblica di rinnovare i voti corrisponda alla vostra decisione interiore, intima e all’orientamento di tutta la vostra vita, come una via nella quale incontrarvi con Dio e la schola nella quale ogni giorno imparare a servirlo. Amen.
dom Tonino
Qui sotto un piccolo reportage fotografico.
Martedì 11 luglio 2023 alle ore 19:30, presso la Cappella "Santi Benedetto e Scolastica" della Casa Apostolica della Christiana Fraternitas si è svolta la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola nella Solennità delle Opere di Dio in san Benedetto da Norcia.
Al termine della preghiera i monaci hanno offerto un' agape ai fedeli presenti.
Testo integrale dell'omelia del Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella
in occasione della Solennità di San Benedetto da Norcia 10 lugli 2023
Testo di riferimento Regola di San Benedetto
Cari amici ed amiche, cari fratelli e sorelle,
questo è il primo anno che celebriamo la Solennità di san Benedetto in casa nostra. Negli anni scorsi abbiamo vissuto una giornata di fraternità monastica “fuori porta”, ospiti di comunità con cui collaboriamo e lavoriamo per l’avvento del Regno.
Quest’anno abbiamo pensato di vivere in casa la circostanza, perché è il primo anno che – grazie alla Provvidenza e ad un caro benefattore – abbiamo la nostra piccola ma bella chiesa, la nostra Casa di Preghiera. Siamo anche riusciti a realizzare ed esporre le icone di Benedetto e Scolastica che insieme al nostro crocifisso formano il trittico che domina il coro monastico. Ed è proprio dalla nostra icona di san Benedetto da Norcia che vorrei partire per la riflessione di questa giornata di festa.
1. Le maggiori notizie su Benedetto ci provengono dal Libro II dei Dialoghi di Gregorio Magno, scritti intorno al 593, quasi cinquant’anni dopo la morte dell’Abate fondatore. Le sue raffigurazioni, tuttavia, iniziano in epoca decisamente più tardiva. La prima raffigurazione di Benedetto, attualmente riconosciuta tale, risale al primo ventennio del secolo X ed è una miniatura del frontespizio della Regola, redatta a Capua su commissione dell’Abate Giovanni I di Montecassino e custodita nella Biblioteca di quell’abbazia (Montecassino, Bibl. 175).
Benedetto è stato rappresentato per oltre mille anni, da quella prima miniatura ad oggi, con stilemi artistici sempre identici: uomo canuto, vestito con l’abito monastico il cui colore cambia a seconda della Congregazione che commissiona l’opera (cassinense, cluniacense, vallombrosana, camaldolese, olivetana, silvestrina). Le raffigurazioni sono spesso accompagnate dalle parole “ora et labora” o “ausculta, filii”, cioè dalla forma sintetica del motto o dalle prime parole del Prologo della Regola. Numerose sono, poi, le raffigurazione di miracoli e di episodi della vita del santo. Qui, però, vorrei soffermarmi alle raffigurazioni di Benedetto da solo.
Anche noi abbiamo voluto commissionare un’opera che raffigurasse il padre fondatore. Ma lo abbiamo fatto secondo il nostro stile e la nostra comprensione del monachesimo, secondo lo specifico carisma che lo Spirito di Dio ci ha ispirato.
Il nostro Benedetto è un uomo maturo ma non un vecchio. Il monachesimo – come noi lo intendiamo – non è una forma di vita cristiana e di ricerca spirituale vecchia, obsoleta e lontana nel tempo. Esso è una vocazione che sa adattarsi ai tempi moderni, alle istanze dell’uomo moderno senza per questo assecondarlo in tutto, sia chiaro. Il nostro san Benedetto “di un po’ meno che la mezza età” ci parla di una realtà vivente, che sa trasformarsi ed adeguarsi pur restando fedele all’essenziale del carisma suscitatogli dallo Spirito Santo.
L’abito è verde, secondo lo specifico significato che noi abbiamo dato ai nostri colori e che abbiamo già abbondantemente spiegato in altra sede.
Il corvo che si appoggia al libro della Regola e mette nella bocca di San Benedetto un pezzo di pane richiama l’episodio dell’intervento della Provvidenza che sfama Benedetto, affamato dalla cattiveria e dall’invidia di un uomo di Chiesa. Anche noi ci siamo sempre fidati ed affidati alla Provvidenza, anche quando non eravamo compresi ed osteggiati. E la Provvidenza ha risposto alla nostra fiducia, cambiando il corso della storia.
Quando, però, si è trattato di scegliere una frase da scrivere sulla Regola, posta fra le sue mani, ne abbiamo scelta un’altra che ci sembra essere sintesi mirabile della Regola stessa: Nihil amori Christi praeponere. È patrimonio comune di tutti gli studiosi della Regola che questa espressione sia la chiave di volta ed il principio fondamentale di comprensione della Regola stessa. Questo concetto infatti ritorna ben tre volte nel suo corpo, sebbene con espressioni leggermente diverse (cf RB, 4,21: Nihil amori Christi praeponere; RB, 72,11: Christo omnino nihil preponente; RB, 5,2: Haec convenit his qui nihil sibi a Christo carius aliquid existimant (Questa [obbedienza] è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo).
È, allora, alla luce di questa frase che va compresa la vita monastica scandita dalle sue tre attività principali: ora, lege et labora.
2. Cosa vuol dire nihil amori Christi praeponere nell’ora benedettino?
La preghiera è l’attività per eccellenza del monaco. Nel lessico della Regola stessa vi è una certa consonanza, un legame stesso tra l’amor Christi e l’opus Dei, appunto la preghiera.
Infatti, nella Regola leggiamo al cap. 4,21: nihil amori Christi praeponere ed al cap. 43,3: Nihil operi Dei praeponantur. Quindi, per Benedetto il monaco non deve anteporre nulla all’amore di Cristo e all’opera di Dio, cioè all’Ufficio divino. Sembra che il santo di Norcia metta in stretto contatto la preghiera corale e l’amore di Cristo. Chiediamoci allora perché? La preghiera corale, l’officiatura divina scandisce la giornata monastica. È come il ritmo pulsante del cuore della vita del monaco. Essa è fatta dalla sistole della preghiera e dalla diastole del servizio. Se il cuore non alternasse, nel suo funzionamento, il movimento di contrazione (sistole) a quella della dilatazione (diastole) ci troveremmo dinanzi ad un arresto cardiaco. La vita monastica è esattamente così: se fosse solo preghiera o solo attività non sarebbe efficace, non sarebbe utile. Se la preghiera corale è il momento sistolico, allora, è anche il momento in cui la vita monastica compie il suo massimo servizio al corpo ecclesiale. Nella diastole il cuore raccoglie il sangue, ma è nella sistole che spinge il sangue nell’apparato circolatorio. Così è per noi: è nel momento in cui ci raccogliamo per cantare le lodi di Dio che irroriamo della linfa vitale della grazia tutta la Chiesa di Gesù. Noi non possiamo e non dobbiamo cedere alla tentazione dell’attivismo. L’attività forse ci offre una gratificazione immediata, perché ci fa vedere immediatamente i frutti, gli esiti della nostra attività. La preghiera invece ha effetti nascosti, misteriosi, ma sono assolutamente essenziali e vitali per noi e per la compagine ecclesiale.
Cosa è però questa opus Dei? Gesù dice che l’opera di Dio (non le opere di Dio) è anzitutto credere in Dio Padre ed in colui che egli ha mandato. L’opus Dei, quindi, non è anzitutto un fare qualcosa, ma accogliere ciò che Dio opera in noi. La vita monastica è contemplativa nel senso che è una vita che educa alla passività teologica dinanzi a Dio. Non si tratta di una santità da costruire, da guadagnare, da meritare; ma di un atteggiamento umile davanti al Signore che ci plasma, ci trasforma, ci invade del suo amore e ci rende sua immagine. La preghiera corale, l’officiatura divina è il tempo santo e benedetto in cui cediamo la titolarità del fare, rinunciamo all’agitazione degli impegni e ci consegniamo nelle mani di Dio, perché operi in noi con la dolce forma del suo amore trasformante. Mentre eleviamo i canti del Signore, è Lui stesso che penetra nei nostri cuori e li invade e ci pervade con la forma plasmatrice del suo Santo Spirito. È quello il tempo in cui diventiamo il roveto ardente (cf Es 3)attraverso cui il Signore si manifesta e parla ai Mosè del nostro tempo, cioè a coloro che attendono che Dio riveli loro la loro vocazione ed il senso della loro vita.
Benedetto dice chiaramente che alla preghiera corale nulla deve essere anteposto e che non ci si assenta da essa né si arriva in ritardo, perché quella è la prova certa che il monaco ha compreso che è Dio il centro della sua vita. Se ho la forza e la gioia di interrompere gli affanni della vita e del servizio, per recarmi alla preghiera, allora lì c’è il segno che realmente ho compreso che solo Dio basta, che Dio è la sola cosa necessaria, che ho fatto di Dio il senso della mia esistenza.
3. Cosa significa nihil amori Christi praeponere nel lege benedettino?
“L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio” (RB 48,1). La lettura, per Benedetto, è la lettura della Parola di Dio ed è precisamente lectio divina. Cioè è la lettura che permette di interiorizzare il testo biblico. San Girolamo, il grande traduttore della Bibbia, colui che nell’epoca in cui si passava dall’uso del greco al latino si sobbarcò la fatica di rendere fruibile a tutti il testo della Sacra Scrittura, diceva: l’ignoranza della Scrittura è ignoranza di Cristo.
Leggere la Parola, ruminare il testo della Scrittura ci permette di innervare tutta la nostra esistenza della Parola stessa, ci permette di divenire il quinto Vangelo, quello scritto nella nostra carne. Nel Vangelo di domenica scorsa (secondo il rito romano), abbiamo ascoltato Gesù che diceva: “imparate da me che sono mite ed umile di cuore” (Mt 11,28). Nella cultura ebraica il cuore era la sede della volontà. Per Gesù definirsi umile di cuore significava dire “umile nella volontà” perché suo cibo era fare la volontà del Padre (Gv 2, 34). Il monaco diventa umile ed obbediente – esistono due capitoli della Regola per ciascuna di queste due virtù – solo quando la prolungata ed assidua lectio della Parola lo rende immagine vivente di Cristo.
Noi al verbo “lege-leggi/studia”, nella nostra attuazione inculturata della Regola, abbiamo però voluto dare anche il significato di studiare e conoscere la cultura dell’uomo contemporaneo. Dobbiamo conoscere l’uomo di oggi, le sue istanze, i suoi bisogni, il suo pensiero per riuscire a parlare di Cristo all’uomo di oggi con le sue parole. Parola di Dio e cultura contemporanea sono i campi della nostra ricerca, del nostro studio, perché ci sentiamo chiamati a far sì che essi possano dialogare e, in ultima istanza, possano far dialogare Dio e l’uomo d’oggi. Lo studio è quindi una forma di missione che corrisponde ad una vocazione. Non possiamo, certo, cadere nel fraintendimento (un po’ arrogante) in cui cadono oggi tante persone che ritengono di essere cristianamente formate solo perché hanno seguito un qualche corso di catechismo basilare.
Non anteporre nulla all’amore di Cristo nel lege benedettino vuol dire che il monaco mai si stanca di approfondire la sua conoscenza di Gesù, perché lo ama e lo ha scoperto come il tesoro e la perla preziosa della sua vita (cf Mt 16, 44-46). In ogni rapporto di amore esiste una circolarità tra amore e conoscenza: ti amo perché ti conosco, più ti conosco e più ti amo, più ti amo e più sento il bisogno di conoscerti ancora e meglio. Quando cessa il bisogno di conoscere, allora è cessato l’amore. Ma la conoscenza di Cristo porta sempre con sé l’amore di Cristo, perché conoscere Gesù vuol dire essere inondati dall’amore di Dio che ci salva, ci redime, ci riempie della sua gioia! La conoscenza di Gesù non è mai meramente intellettuale, perché attraverso la Scrittura noi siamo messi in contatto con una Persona vivente il cui cuore pulsa di amore sovrabbondante per noi!
3. Ed, infine, cosa vuol dire nihil amori Christi praeponere nel labora benedettino?
Nella tradizione monastica, da sempre, esistono due tipi di lavoro: il lavoro che produce il sostentamento dell’abbazia (campi, allevamenti, lavorazione delle materie, copiatura dei libri…) e quello che serve direttamente all’abbazia (pulizia, riordino, sistemazione…). Mai il lavoro è fine a se stesso o è fonte di arricchimento personale, ma è sempre una forma di servizio alla comunità.
Anche in questo, nel carisma e nella forma specifica di vita monastica, che il Signore ci ha ispirato, noi abbiamo reinterpretato il labora benedettino, perché i nostri monaci che appartengono alla Comunità dei discepoli lavorano anche per il sostentamento personale e delle loro famiglie. Ho detto “anche”! Perché, in forza della consacrazione monastica nella Christiana Fraternitas, la cura del monastero e la cura della famiglia non sono mai in concorrenza, ma sono due finalità perseguite assieme.
Non anteporre nulla all’amore di Cristo nel lavoro, per noi, significa che anche nell’attività professionale e nel servizio alla Comunità tutto noi facciamo per amore di Cristo. Attraverso il nostro lavoro professionale noi contribuiamo alla costruzione di un mondo più giusto, equo e solidale; attraverso il nostro impegno a servizio della comunità e dei suoi luoghi noi contribuiamo a tenere la casa accogliente, per quanti bussano alla nostra porta ed hanno diritto di essere accolti come Cristo stesso (cf RB, 53).
Non anteporre nulla all’amore di Cristo nel nostro lavoro, però, significa anche subordinare il lavoro alla preghiera ed agli impegni della vita monastica. Se, viveversa, subordino l’ufficio divino e la preghiera comunitaria alle altre attività, allora vuol dire che sto anteponendo altro a Cristo e che quindi quelle attività sono fatte per il mio personale vantaggio e non per Dio.
La consacrazione monastica non cambia le cose che facciamo, ma trasfigura il perché le facciamo e trasforma il come le facciamo. Il perché è Gesù, il come è farle in modo che esse parlino di Gesù. Dobbiamo onestamente allora domandare: il modo con cui svolgo il mio lavoro ed il mio servizio alla comunità parla di Gesù, trasmette Gesù? Un lavoro affannato, un servizio svogliato dimostrano che ancora Gesù non è l’assoluto della mia vita.
Cari Fratelli e Sorella, fa bene al nostro cuore ridirci la natura della nostra vocazione monastica: il monaco e la monaca sono uomini e donne, raggiunti da Dio e pertanto in permanente ricerca di Lui; sono uomini e donne che hanno trovato in Gesù l’Amore più grande della vita ed è attraverso questo Amore che si accostano ad ogni cosa ed ogni persona; sono uomini e donne che pregano, studiamo e lavorano perché nel mondo, caotico e disorientato, essi sono le sentinelle dell’assoluto di Dio, sono i profeti che ricordano a tutti che chi ha trovato Cristo ha trovato il bene più grande della vita!
Cari fratelli e sorelle, cari amici ed amiche, ecco chi siamo, ecco chi dobbiamo essere, ecco chi dobbiamo ogni giorno sforzarci di diventare in modo nuovo alla luce della testimonianza di Benedetto da Norcia. Solo così la nostra umanità consacrata farà nascere nelle persone la nostalgia di Dio e la nostalgia della vera umanità. Amen.
dom Tonino
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