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Celebrazione delle Opere di Dio in San Benedetto da Norcia

"San Benedetto (...) aveva ben compreso il valore assoluto del verbo rimanere, tanto da trasformarlo in uno degli impegni precipui della sua idea di monachesimo: la stabilitas. Rimanere, stare: indicano fedeltà e gratitudine per la grazia della chiamata". Le parole dell'Abate Antonio nel commentare la pericope giovannea della vite e i tralci.


Martedì 21 marzo 2023 alle ore 19:30, presso la Cappella "Santi Benedetto e Scolastica" della Casa Apostolica della Christiana Fraternitas si è svolta la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per la Solennità delle Opere di Dio in san Benedetto da Norcia.

La Celebrazione è iniziata con la processione che ha portato le reliquie del santo al centro del Coro monastico della Casa di Preghiera. Durante la preghiera è stata invocata la benedizione per i dolci tradizionali della circostanza.



Testo integrale dell'omelia del Reverendissimo Abate dom Antonio Perrella
in occasione dell'antica festa di San Benedetto da Norcia 21 marzo 2023


Testo di riferimento Gv 15, 1-8


Cari Fratelli e Sorelle,

la pericope che abbiamo ascoltato, tratta dall’Evangelo di Giovanni, è un discorso chiaro e nitido di come funzionano le cose all’interno dell’esperienza di fede cristiana. In questo discorso di Gesù non ci sono zone d’ombra. Nonostante ciò vale la pena riportare alla mente o, per chi ancora non lo conoscesse, spiegare il significato delle immagini proposte dal Signore.


Innanzitutto Gesù dice di essere la vera vite e lo fa anteponendo una dichiarazione non nuova nel testo biblico: io sono. «Io sono» è l’espressione con cui Dio rivela se stesso a Mosè sul monte Sinai (cf Es 3, 14). Gesù allora dicendo che è la vera vite sta compiendo un atto rivelazione.


Ma perché Gesù parla di sé come della vite? Anche questa allegoria non era nuova nella Scrittura e nello scenario teologico giudaico. La vite era uno dei simboli di tradizione biblica con cui si identificava il popolo di Israele, il popolo eletto.

Si tratta di un’immagine tratta dalla letteratura profetica. Sono diversi i testi in cui Israele è designato come una vigna, come la vigna amata e curata da Dio, ma è in Isaia 5,1-7 che questa immagine viene definitivamente canonizzata, tant’è che Gesù stesso userà la medesima immagine nella parabola dei vignaioli (cf Mt 21,33-43). I primi versetti (vv. 1-2) del canto di Isaia suonano così:

Canterò per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l'aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino.


Ora Gesù raccoglie i dati della tradizione ebraica e li reinterpreta, personalizzandoli: dice che è Lui la vite vera e con ciò indica, come meglio spiegherà, che da questo momento in poi soltanto in Lui l’elezione d’Israele ha un senso e un proseguimento.


Anche l’immagine del Vignaiolo, quindi, va reinterpretata in questo senso cristologico della vigna. Se la vite vera è Gesù – e quanti sono in lui incorporati (i tralci, come dirà dopo) – il Vignaiolo è il Padre. A Lui e Lui soltanto è dato di custodire, coltivare, recidere il marcio e purificare la pianta. Nessuno può prendere il posto di Dio!

Attraverso l’operazione di nuova ermeneutica delle immagini veterotestamentarie, sembra che Gesù voglia rivendicare l’assolutezza del rapporto con Lui. Solo rimanendo in Lui il tralcio continua a vivere e solo a Dio spetta il potere assoluto sulla vigna. Non c’è spazio per relativizzazioni, ambiguità, distinguo di alcuna sorta: il rapporto con il Vignaiolo che passa attraverso la vera Vite è assoluto e totalizzante oppure la vigna muore, secca partendo dai tralci…


Alla luce della assolutezza di questo rapporto si può comprendere ciò che Gesù dice relativamente ai tralci.

Se al Vignaiolo spetta la premura per tutto quello che serve alla sussistenza della vite, se alla vite spetta far passare ai tralci la linfa che le viene dalla cura del Vignaiolo, ai tralci spetta di rimanere.

In appena quattro versetti -abbiamo ascoltato- il verbo rimanere, con riferimento ai tralci, ricorre ben sette volte. Il numero non può essere casuale; sappiamo che il numero sette nella tradizione biblica indica totalità. Così l’evangelista scrivente non avrà certamente messo a caso questa ricorrenza.


Dobbiamo allora provare a chiederci se questo numero di ricorrenze voglia richiamare soltanto la totalità e la assolutezza del giusto rapporto con Dio, oppure se l’evangelista abbia disposto queste sette ricorrenze in un qualche ordine. A me sembra – senza voler troppo forzare il testo – che egli ci dia una sorta di progressione nell’utilizzo ripetuto del verbo, come se volesse mostrarci un itinerario del rimanere. Il verbo in sé indica un cammino spirituale e le sue sette ricorrenze indicano le tappe di questo cammino.

Proviamo insieme ad esaminarle brevemente.

La prima ricorrenza è un invito: rimanete in me, come io rimango in voi. Il rimanere in Gesù nasce da una chiamata, da una vocazione. Rimanere in Gesù significa rispondere ad una chiamata. E questo vuol dire due cose importanti: la prima è che l’iniziativa la prende Dio. È Lui che si piega e guarda con sguardo di predilezione chi è chiamato a rimanere in Gesù. Non è il frutto di una scelta religiosa o morale bensì il riconoscimento di un dono gratuito della benevolenza di Dio. La seconda è che rimane in Gesù, rimane in questa vocazione, solo chi custodisce la memoria grata di essere stato guardato da Dio. La vocazione non si perde, non si smarrisce, perché la chiamata di Dio è irrevocabile (cf Rm 11, 29). Il rischio concreto invece è quello di smettere – per il peccato o la distrazione - di stupirsi dello sguardo benevolo di predilezione di Dio.


La seconda e la terza ricorrenza, poi, ci indicano una ragione, un motivo esistenziale: senza la vite, Gesù, il tralcio non ha sussistenza, non può fare nulla. È la vitale ed esistenziale relazione con Gesù che ci tiene in vita; senza questa relazione, pur esistendo, non siamo vivi, ma siamo umanamente morti; senza questa relazione vitale con Gesù, ci illudiamo di vivere, ma abbiamo perso la ragione, il motivo, il senso dell’esistenza. Gesù, Figlio di Dio, fatto Uomo vero, ci mostra il vero senso della vita e dilata la vita, vitalizza la vita, esalta la vita.

La quarta volta in cui ricorre il verbo rimanere ci indica il fine comune della vite e del tralcio e cioè fruttificare. Questa ricorrenza mi sembra particolarmente importante. Gesù infatti dice che compito non solo del tralcio, ma anche della Vite è trasmettere la linfa perché spunti il grappolo e maturi. In questo Gesù sta come “relativizzando” non solo noi, ma anche se stesso. Del resto, lo aveva sempre fatto: non sono venuto a compiere la mia volontà, ma quella del Padre che mi ha mandato; sono venuto perché il mondo abbia la vita (cf Gv 6,38). Gesù non ha mai pensato a se stesso in termini assoluti, ma sempre in termini “relativi”: relativi al Padre, dal quale si riconosce inviato, e relativi agli uomini, per i quali è stato mandato. Questa quarta ricorrenza ci dice molto del modo con cui noi concepiamo la nostra esistenza: per chi siamo? Per chi viviamo? Per chi esistiamo? Per noi stessi? Ci stiamo assolutizzando, allora! Se lo facciamo, siamo tralci che si sono staccati dalla vite e non porteranno mai frutto. Se, invece, riconosciamo e viviamo per colui che ci ha scelti e per coloro in favore dei quali siamo stati scelti, allora rimaniamo nella relazione con la Vite e portiamo frutto. Il verbo rimanere, quindi, ci mostra la pedagogia di Gesù: come lui non ha ritenuto un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma si è spogliato ed ha assunto la condizione di servo (cf Fil 2, 6-7), cioè come lui ha accettato di essere “relativo” agli altri e, per questo, è stato esaltato, risuscitato nella vera vita, così noi non possiamo certo pretendere di trovare la vita in altro modo... Un interessante teologo tedesco, Heinz Schürmann, negli anni 70, ha coniato un termine nel quale ha individuato una categoria cristologica generale, cioè un termine nel quale poter racchiudere tutto il senso della vita, della missione, della persona di Gesù. Si tratta del termine pro-esistenza. Gesù, nella sua vita e nella sua missione, ha realizzato una pro-esistenza, cioè una-vita-per. Per questo Egli è la rivelazione definitiva del Dio-con-noi, anzi del Dio-per-noi.

Quanto ha da dire la dimensione pro-esistenziale della vita di Gesù a noi che pensiamo di trovare la nostra gioia nella realizzazione di noi stessi indipendentemente da Dio e dai fratelli, anzi talvolta contro Dio e contro gli altri.


La quinta ricorrenza ci mostra la premura di Colui che ci ha fatto per la vita e che vuole che nella vita restiamo per sempre. Dio non si stanca. Non si stanca di invitare, di persuadère, di esortare, di amare, di dare nuove possibilità. Anche quando ci avverte che, staccati dalla Vite, secchiamo e veniamo gettati via, non sta facendo altro che ricordarci la serietà della sua proposta, la responsabilità della nostra libertà, il cui uso non è mai senza conseguenze! Age quod agis, dicevano i padri. Fai bene ciò che devi fare, vivi in pienezza, senza infingimenti; non strappare la vita, vivila; non stiracchiare la tua vocazione, esàltala perché la chiamata che ti è stata donata è esaltante, vibrante, scoppiettante di vita vera!

La sesta e settima ricorrenza ci mostrano la promessa di un vantaggio, una vita nella volontà del Padre il quale non fa mancare nulla ai suoi figli. Dio dona e poi comanda; se ci chiede di vivere una chiamata, ci dà la grazia di vivere secondo quella chiamata. Una promessa è un orizzonte di fiducia e di speranza: di fiducia perché della promessa bisogna fidarsi, anche quando non si vedono benefici immediati; di speranza perché le parole di Dio non tradiscono e non deludono. Non c’è alcuno che abbia lasciato qualcosa per me – dice Gesù – che non riceva cento volte tanto (cf Mt 19, 29).



Cari Amici e Amiche, san Benedetto – di cui oggi celebriamo l’antica memoria, pur senza interrompere l’essenzialità del tempo quaresimale – aveva ben compreso il valore assoluto del verbo rimanere, tanto da trasformarlo in uno degli impegni precipui della sua idea di monachesimo: la stabilitas. Rimanere, stare: indicano fedeltà e gratitudine per la grazia della chiamata.

Per rimanere saldo ad una vita evangelica, il giovane laziale Benedetto abbandona gli studi romani, si ritira a vita eremitica, esperisce che la ricerca di Dio, ovvero il sentirsi parte di quella Vite, non poteva realizzarsi in una vita di solitudine come sino ad allora il monachesimo era vissuto, mette assieme fratelli e sorelle, con l’aiuto di Scolastica sua sorella.

Quel tralcio benedetto di cui oggi celebriamo la memoria, è diventato come tanti innesti che qua e là si piantano nella Vite, che è la volontà del Signore, e portano un frutto tanto abbondante che noi oggi ancora diciamo, sempre con Isaia (27,2-3.4b.6):

In quel giorno la vigna sarà deliziosa: cantàtela! Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che la si danneggi, ne ho cura notte e giorno.

Vi fossero rovi e pruni, muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme. Nei giorni che verranno Giacobbe metterà radici, Israele fiorirà e germoglierà, riempirà il mondo di frutti. Così Sia!

dom Tonino


Qui sotto il video integrale della Celebrazione.




La giornata di festa non è rimasta priva di momenti fraterni di gioia, allietati dalla presenza degli ospiti e dalle "dolcezze terrene" preparate dai monaci. Tra queste, il dolice di san Benedetto "Beneditticoso" tradizionalmente preparato nella nostra abbazia in questo giorno.




Pax

Ut unum sint!


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