"Stare in Dio vuol dire accogliere l’estasi di Dio che esce da sé per farsi Dono, per dare vita ed esistenza all’altro; significa accogliere la pericoresi della Trinità, ovvero accogliere il fatto che la mia esistenza dipende dalla tua, è connessa alla tua, che la mia e la tua vita in tanto ci sono in quanto si donano reciprocamente". Sono alcune parole tratte dalle tre omelie tenute dall'Abate, dom Antonio Perrella in occasione delle Celebrazioni Capitolari Ecumeniche per la memoria di Benedetto da Norcia. Il precorso tematico ha indagato lo stare in Dio, lo stare nella Chiesa e lo stare nel mondo del Padre fondatore del monachesimo occidentale.
Benedetto da Norcia ha inteso e trasmesso un monachesimo dove il monaco è in continua ricerca e mai nel suo comprendere l'esperienza spirituale può pensarla statica bensì sempre dinamica. Per questo motivo la Comunità della Christiana Fraternitas conserva la tradizione di passare la giornata in sua memoria "fuori porta" e ricordare a se stessa che il cammino monastico o del cristiano è sempre una strada e mai una meta.
La giornata si è svolta in Basilicata presso il Parco del Pollino. La Famiglia Monastica ha vissuto le Celebrazioni delle ore liturgiche e della Parola con la Commemorazione della Cena del Signore ospitata in un Santuario dedicato alla Madre di Gesù.
Qui sotto le omelie integrali del Padre Abate dom Antonio Perrella e un piccolo reportage fotografico.
Vita teocentrica, vita cristiforme, vita pneumatica:
lo stare in Dio di Benedetto da Norcia
I Testo integrale del sermone
del Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
Carissimi fratelli e sorelle, cari Amici ed Amiche!
Mentre celebriamo le opere meravigliose che Dio ha compiuto in Benedetto da Norcia, proprio la Parola di Dio odierna ci viene in aiuto.
Abbiamo ascoltato tre brani della Scrittura che gettano una luce profonda e radiosa sulla figura di Benedetto e sull’importanza del suo insegnamento per la nostra vita di fede e per il nostro cammino di ricerca di Dio. In questi tre brani noi riscopriamo il centro focale di tutta la vita e la grandezza della testimonianza di Benedetto, che è il suo “stare in Dio”. È solo attraverso una piena comprensione dello “stare in Dio” di San Benedetto, che potremo anche ben comprendere il suo “stare nella Chiesa” ed il suo “stare nel mondo”. Ed è proprio questo l’itinerario tematico che faremo in questo giorno di festa e di ritiro.
Nella prima lettura il Deuteronomio ci ha ricordato la necessità di obbedire al comandamento del Signore, dicendoci che il suo comando non è troppo distante: non è nei cieli, né al di là del mare, ma è vicino a noi, è nei nostri cuori e sulle nostre labbra. Questo insegnamento risuona a più riprese nella Regola di Benedetto: in essa molte volte il monaco viene invitato ad obbedire alla voce di Dio ed a farlo volentieri e di buon animo. Nel capitolo V, dedicato all’obbedienza, egli esprime chiaramente che l’obbedienza interiore è quella perfetta. L’obbedienza alla Regola, cioè, non può essere meramente formale, né può limitarsi al minimo necessario. La Regola ci mostra uno stile di vita; e la pratica comunitaria della disciplina monastica fa diventare quello stile il nostro stile di vita. Il monaco non può certo accontentarsi di fare lo stretto necessario per non andare contro la Regola, egli apre il suo cuore allo spirito della Regola e la vive come la innervatura della sua stessa esistenza. Benedetto ci ha dato una Regola, perché attraverso l’esercizio di essa noi passassimo dal minimum legis al maximum charitatis. L’obbedienza alla Regola, poi, è la scuola nella quale impariamo a mettere Dio al centro della nostra vita, impariamo cioè a sottomettere ogni esigenza, ogni impegno, ogni convinzione alla Signorìa assoluta di Dio. Sterile e muta è la vita di un monaco ego-centrato; feconda ed eloquente è solo la vita teocentrica!
Se il Deuteronomio ci ha mostrato il “cosa” dello “stare in Dio” di Benedetto, la lettera ai Colossesi, ascoltata come seconda lettura, ci mostra il “perché” di questo “stare in Dio”. L’apostolo dice che tutto è stato per mezzo di Cristo e in vista di lui. Non solo nel creato, ma anche nella forma della vita ecclesiale e nella forma specifica della vita monastica, tutto parte da Cristo ed è compiuto in vista di Cristo; tutto è cristi-forme. Una vita teocentrica, alla scuola della Regola, è una vita che ci cristifica, perché Gesù è l’Amen del Padre, è l’Amen al Padre. In lui abita corporalmente la pienezza della divinità, perché egli ha imparato l’obbedienza, ha colmato la separazione che il “no” di Adamo aveva posto tra il Padre e l’uomo con il suo “sì” fino alla fine, fino alle estreme conseguenze. Solo il nostro sì fino alla fine ci rende cristiformi, solo la nostra totale e gioiosa appartenenza a Cristo ci rendono immagine di Lui nel mondo. Questo è il senso del non anteporre nulla all’amore di Cristo che ci viene nuovamente consegnato dalla Regola. Ci è toccata in sorte, anzi in grazia, l’altissima vocazione di essere tutti e solamente suoi; non possiamo perdere questa grazia facendoci dominare da altri padroni. La scuola del servizio divino, qual è la vita monastica, è il cammino serio, disciplinato, che ci permette di rendere visibile in noi l’opera meravigliosa del Padre: siamo stati fatti per lui ed in vista di lui; la nostra vita monastica – nella preghiera, nello studio della Parola e nel lavoro quotidiano – è la dossologia che eleviamo al Padre per Cristo, con Cristo ed in Cristo. Noi siamo chiamati ad essere il roveto ardente, che il Padre stesso ha acceso nel mondo, perché coloro che vogliono accostarsi a Dio come Mosè, abbiano una luce ed una voce che li guidi a Lui. La vita monastica, teocentrica e cristiforme, è l’eco della sete che gli uomini hanno di Dio, essa accende in essi il desiderio e la nostalgia di Dio, perché Dio, per primo, ha nostalgia e desiderio degli uomini!
La vita teocentrica del monaco è finalizzata alla sua cristificazione. Poniamo Dio al centro e sopra tutto, perché siamo e dobbiamo sempre più diventare immagine e forma di Cristo nel mondo, così che gli uomini vedano e siano attratti dalla pienezza radiosa e splendente di questa vita cristiforme.
La terza pagina della Scrittura, che abbiamo ascoltato, è la nota parabola del buon samaritano, secondo l’Evangelo di Luca. In essa ci viene mostrata la forza dirompente della vita secondo lo Spirito o della vita pneumatica. Attenzione, non di una vita “spirituale”, perché questo aggettivo ha purtroppo perduto il suo significato originario ed oggi veicola l’idea di una vita vagamente spirituale, perché magari intrisa di una qualche devozione… Vita spirituale vuol dire vita secondo lo Spirito di Cristo, per questo, secondo il vocabolario paolino, uso vita pneumatica.
Nella pagina dell’Evangelo sono messe a paragone due impostazioni di vita: quella religiosa del sacerdote e del levita, che si illudono di vivere secondo Dio ma in realtà vivono secondo la carne, e fanno prevalere l’adempimento esteriore della Legge sulle necessità del fratello incappato nei briganti; poi quella del samaritano, ritenuto non sufficientemente spirituale, che invece si accosta e si piega sul fratello ferito e se ne prende cura nel medio e nel lungo termine. Egli, additato come eretico, vive invece secondo lo Spirito, perché travolge il formalismo della legge con il fuoco spirituale dell’amore.
La vita teocentrica e cristiforme del monaco è una vita pneumatica: perché è una vita nella quale il calcolo dell’opportuno ed inopportuno non ha spazio; la misura del lecito e dell’illecito non ha diritto di cittadinanza; il decimetro del “è compito mio” o “non è compito mio” è definitamente bandito. La vita pneumatica del monaco è incendiata dall’amore traboccante di Dio e si riversa dolce ed impetuosa nell’amore verso il fratello. Solo una vita pneumatica è capace di accogliere l’ospite come Cristo stesso; solo una vita pneumatica permette di condizionare il proprio profitto all’opera di Dio; solo una vita pneumatica è tanto libera da riconoscere nell’amore di Dio la gioia più grande e definitiva dell’esistenza umana. Ma una vita che non sia pneumatica è, alla fine, una vita rattrappita, è una vita stentata. La vita pneumatica ti fa sentire il brivido, talvolta spaventoso, della libertà; ti riempie la mente ed il cuore dell’empito del dono di te stesso in modo completo; ti spinge a superare barriere e steccati, prudenze e timori, per librarti in quella che Ambrogio chiamava la sobria ebbrezza dello Spirito.
Vita teocentrica, vita cristiforme e vita pneumatica: questo è lo “stare in Dio” di Benedetto e questo deve essere il nostro “stare in Dio”. “Stare in Dio” non vuol dire pietismo o quietismo, anzi! Significa, invece, accogliere gioiosamente la rivoluzione dello Spirito, lasciarsi travolgere e sconvolgere dall’incontro vivo con il Signore Gesù, mettersi in movimento risoluto e spedito verso il Padre. Stare in Dio vuol dire accogliere l’estasi di Dio che esce da sé per farsi Dono, per dare vita ed esistenza all’altro; significa accogliere la pericoresi della Trinità, ovvero accogliere il fatto che la mia esistenza dipende dalla tua, è connessa alla tua, che la mia e la tua vita in tanto ci sono in quanto si donano reciprocamente.
Solo così l’amore verso l’altro – che è parte essenziale della Regola – è vero e spirituale. Il buon samaritano si prende cura, si compromette, si lega alla vita del pover’uomo, incappato nei briganti, perché la sua vita è una vita trinitaria, cioè è una vita in cui la relazione è relazione d’amore e di dono.
Nella Regola, Benedetto da Norcia ci ricorda che i monaci devono habitare fratres in unum. Letteralmente significa: i fratelli devono abitare in uno. Il che potrebbe voler dire, al livello più basso del suo significato, abitare nello stesso luogo; ad un livello più alto, però, significa che i fratelli devono abitare in un unico e stesso Dio e per questo possono abitare uno nell’altro. È la vita in Dio, la vita trinitaria, che ci permette di tenere assieme l’assoluto amore per Cristo e l’assoluto amore per il fratello e la sorella, senza fratture e senza contrapposizioni.
Carissimi fratelli e sorelle, cari amici, la vita umana di Benedetto, vissuta nella luce della sua fede in Gesù, ci parla in modo attualissimo. Noi, che abbiamo accolto la via dell’Abate Benedetto e ci siamo impegnati a raccogliere la sua eredità, scopriamo davvero come la nostra storia ricalca quella del nostro Padre Fondatore, anzitutto nel suo ideale altissimo di unione con Dio, di presenza intelligente nella Chiesa di Cristo e di presenza attiva nel mondo contemporaneo e nelle sue dinamiche storico-culturali.
In questa Solennità accogliamo in modo nuovo e gioioso l’eredità benedettina per essere germe di una “novità” nella storia, nella Chiesa e nel mondo. Imploriamo il dono della sapiente audacia, dell’intelligente libertà, della profetica caparbietà per vivere la grazia del carisma ed essere così lievito e fermento di una nuova ecclesialità e di una nuova umanità.
Dom Tonino +
Qui sotto il video dell'omelia
Discernimento, responsabilità e libertà:
lo stare nella Chiesa di Benedetto da Norcia.
II Testo integrale del sermone
del Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
Se nella Regola di Benedetto possiamo comprendere esaustivamente qual era il rapporto tra il monaco e Dio e la sua comunità, più difficilmente possiamo comprendere il rapporto che il monaco e la comunità avevano con la Chiesa. Essa sembra assente nella Regola. Si scorgono due soli riferimenti: uno al cap. 13, v. 10 che riguarda l’uso del cantico nella Chiesa romana ed un altro nel capitolo finale, il 73, al v. 4 in cui è usata l’espressione «padri della Chiesa» per fare riferimento ai monaci fino al IV secolo.
Nulla si dice della gerarchia ecclesiastica. Anzi, quando si fa riferimento ai “sacerdoti”, di essi si dice chiaramente che, entrando in monastero, non possono vantare alcun tintolo di preferenza o vantaggio in ragione del ministero sacerdotale. Ugualmente si afferma per i chierici in generale (cap. 60 e 62).
Come mai tanta ritrosia? Perché manca a Benedetto un riferimento esplicito alla struttura ecclesiastica o, comunque, alla più ampia comunità ecclesiale? Talvolta, un’assenza parla con la stessa efficacia di una presenza.
In parte dipende dalla comprensione stessa del monachesimo in quel contesto storico e per come si è sempre manifestato sin dall’antichità, ed in parte probabilmente da alcune esperienze che egli aveva vissuto.
Il monachesimo in sé, in qualunque forma ed in qualunque regione del mondo nasca, sorge sempre come un’esperienza carismatica, ovvero come il soffio dello Spirito che rivitalizza la Chiesa, perché centri se stessa in Gesù e nella sola potenza della sua Grazia. Le norme o regole di vita monastica sono sempre snelle e semplici ed hanno unicamente lo scopo di aiutare i monaci a tenere fisso lo sguardo in Gesù, senza disperdersi in altre occupazioni o distrazioni.
Essendo un’esperienza carismatica, esso mal sopporta l’eccesiva istituzionalizzazione e le forme gerarchiche schiaccianti, preferendo ovviamente l’uguaglianza tra i fratelli. Per comprendere l’esperienza carismatica, poi, è necessario anche liberarsi della separazione, spesso fatta, dei battezzati tra chierici e laici. Il monaco non è necessariamente presbitero, ma non è neppure un laico. Infatti, la Regola prevede che l’Abate benedica, che sia o meno insignito del ministero sacerdotale, benedice in forza del suo ufficio pastorale. Questa norma fa comprendere che nella logica monastica il carisma viene direttamente da Dio e non dall’istituzione ecclesiale-ecclesiastica. Un nuovo monastero, infatti, sorge per decisione della comunità madre che vuole gemmarsi in una comunità sorella e, in qualche modo, figlia. Il carisma si estende e si diffonde liberamente. La libertà carismatica ovviamente cozza con le briglie istituzionali. Benedetto da Norcia, nella sua Regola, si occupa, quindi, di custodire il carisma, la vocazione ed il cammino di perfezione cristiana che liberamente lo Spirito ha suscitato nei monaci ed essi liberamente hanno accolto come proprio ideale di vita.
Nella Regola e nella Vita di Benedetto, scritta da Gregorio Magno, abbiamo tre indizi interessanti, che ci permettono di arricchire questo quadro. Il primo capitolo della Regola elenca le diverse specie di monaci, che esistevano all’epoca dell’Abate Fondatore. La sua posizione verso alcuni di essi, che evidentemente erano legittimati ad esistere ed agire nella Chiesa, è fortemente critica. Da Gregorio sappiamo che un gruppo di questi monaci aveva chiesto a Benedetto, ancora anacoreta, di diventare il proprio superiore. Dopo molte insistenze egli acconsentì. Si accorse però che quei monaci volevano vivere senza una regola e ben diversamente dal suo ideale. Il contrasto fu così forte che quei monaci giunsero al punto di tentare di avvelenarlo. Scampato miracolosamente, San Benedetto lascerà quel monastero e comprenderà il danno che i “sarabaiti” – così li chiamerà nella Regola – producono a se stessi e agli altri, sebbene siano legittimati ad esistere ed operare dalla istituzione ecclesiastica.
Dalla Vita, scritta da Gregorio, apprendiamo anche dell’opera distruttiva di un prete, invidioso dell’efficacia del carisma di Benedetto. Dapprima vuole colpire l’Abate tentando di avvelenarlo. Fallito il tentativo, passa alla calunnia e alla delazione. Non riuscendo neppure in questo modo, cerca di tentare i suoi monaci, mandando nel monastero alcune ragazze nude e danzanti che facessero vacillare i discepoli di Benedetto.
La profezia e la libertà di Benedetto sono così tanto scomode per l’istituzione ecclesiastica che questa non lesina di ricorrere ai mezzi più abbietti per colpire la vita di quell’uomo di Dio…
Nella Chiesa, quindi, Benedetto si colloca come un profeta, cioè come un uomo scelto direttamente da Dio, che rimane libero dai gravami gerarchici ed istituzionali e che pertanto è ritenuto scomodo e da eliminare.
Come ogni profeta, tuttavia, Benedetto non vacilla e non demorde e presenta il suo stile di vita monastica come una scuola di servizio divino (Prologo), ovvero come una forma di vita cristiana assoluta per i monaci, ma anche paradigmatica per ogni battezzato. Ogni discepolo di Gesù, guardando al monaco come al prototipo del discepolo, impara a fare di Gesù Cristo il centro della sua vita. Facendo di Cristo il centro della sua vita sa anche essere voce critica laddove è necessario, laddove lo Spirito vuol far sorgere questa voce: voce contraddetta, voce perseguitata, ma sempre voce dello Spirito!
La Chiesa che possiamo scorgere dalla vita di Benedetto da Norcia, quindi, è una Chiesa cristocentrica, in cui tutti sono fratelli e con-discepoli, nella quale eventuali ministeri servono nella misura in cui restano servizi e non titoli di privilegio; una Chiesa nella quale la tradizione è importante nella misura in cui avvicina al Figlio di Dio, Gesù Cristo, e alla sua voce e non diviene una trappola; una Chiesa nella quale la libertà dello Spirito non è soffocata dalla zavorra della istituzione.
Questo è il volto libero e veramente fedele di Benedetto da Norcia nella Chiesa. Il rapporto, che Benedetto ha con la Chiesa del suo tempo, può essere iscritto in una frase di Paolo ai Galati: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1).
Il Signore ci renda capaci di esercitare con discernimento e responsabilità la libertà di essere nella Chiesa così come Egli ci vuole: la libertà di essere Chiesa! Amen.
dom Tonino+
Qui sotto il video dell'omelia
Il cuore in Dio e le mani occupate nel lavoro quotidiano:
lo stare nel mondo di Benedetto da Norcia
III Testo integrale del sermone
del Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella
Quale fu l’epoca nella quale visse ed operò Benedetto da Norcia? Quale la situazione politica, sociale, culturale e religiosa, in cui si inserì il suo programma di vita? Come Benedetto si pose dinanzi al mondo nel quale viveva? Lo subì o cercò di interpretarlo e trasformarlo?
Rispondere a queste domande non è un esercizio di ricerca storica, ma vuole essere il tentativo di cogliere l’essenza del suo carisma per farlo rivivere nel mondo di oggi, per attualizzare quel carisma, la cui preziosità rimane immutata ed immortale. Un carisma è un dono di Dio alla Chiesa e al mondo, in un preciso momento della loro storia. Come tale, mutato il contesto o finito il bisogno, quel carisma può anche cessare, perché Dio ne farà sorgere di nuovi e più attuali ed utili. Tuttavia, vi sono carismi che nella comunità cristiana sono permanenti, perché permanente è la realtà a cui quei carismi rispondono. Occorre solo avere l’intelligenza profetica di cogliere l’essenza del carisma, per reinterpretarlo alla luce delle mutate condizioni.
Benedetto visse a cavallo tra la fine del V secolo e la prima metà del VI. L’Italia e l’Europa tutta erano state pervase e, per certi versi, sconquassate da un’ondata migratoria senza precedenti: sono quelle che nei libri di storia venivano chiamate “invasioni barbariche”.
Per rispondere a quel fenomeno e per contrastare le pressioni centrifughe dei popoli sottomessi, l’Impero Romano, tra il II e III secolo, aveva dato vita ad una nuova forma di governo: la diarchia prima e la tetrarchia dopo. La massima autorità imperiale era condivisa da quattro generali. Ci si trovava dinanzi ad un fatto nuovo ed inedito. L’unità dell’Impero era messa in pericolo, tutto sembrava frantumarsi e frammentarsi, persino l’autorità dell’imperatore – a cui si tributavano onori divini – era stata suddivisa. Si avvertiva, quindi, l’esigenza di ritrovare le certezze che derivavano dalla unità dell’Impero e del suo potere. Solo dopo Costantino ed il suo editto di Milano, l’Italia, il bacino mediterraneo e parte dell’Europa del Nord tornarono ad una qual certa unità nel governo (l’Impero), nella lingua (il latino) e nella religione (il cristianesimo). È proprio con Costantino che si torna all’Imperatore unico ed egli viene salutato come il Restauratore della Repubblica. È in questo intento unificatore che l’Imperatore cerca di consolidare l’unità ritrovata anche attraverso la religione cristiana e la sua stessa conversione. Tuttavia, si trattava di unità fragile, perché non riusciva a creare integrazione e convivenza tra le differenze culturali dei popoli interessati. Era una unità tramite l’assoggettare, non tramite l’integrare…
Infatti, questa unità venne messa di nuovo ed abbastanza velocemente in discussione con una nuova ondata migratoria, questa volta più efficace e massiccia. Quell’unità politica e religiosa fu definitivamente spazzata via: l’Italia era diventata un groviglio di popoli, una macedonia di religioni, un intreccio di culture. In questa situazione le convinzioni e le certezze di un tempo semplicemente non esistevano più. Il sistema educativo di quell’epoca, che univa il senso sociale al senso religioso e faceva della legge di Dio anche la legge del retto convivere umano, non aveva più alcun valore. Il Dio dei cristiani non era più il Signore unico del mondo e molti popoli dimostravano che si poteva vivere su questa terra anche senza rispettare i suoi comandamenti. La scala di valori che aveva guidato per circa due secoli l’Impero e la cristianità europea – senza che le due cose si potessero dividere – era semplicemente infranta! Un fatto nuovo si ergeva dinanzi agli occhi di Benedetto e dei suoi coetanei: impero e chiesa, vita sociale e vita religiosa non coincidevano più, erano realtà distinte e separate, la legge umana non si uniformava più alla legge divina.
Ci troviamo dinanzi alla prima e più grande crasi che la storia dell’Occidente abbia vissuto.
Roma non era più il centro del mondo, ma era l’oggetto di continue invasioni e saccheggi, veniva presa e sottratta, per essere di nuovo presa e di nuovo sottratta. Non faceva a tempo ad abituarsi ad un re e ad una lingua nuova che subito era costretta ad impararne un’altra e a servire un nuovo monarca. Quella che era salutata come la Città santa ed eterna era ormai stanca, sfiduciata, non sapeva vedere alcun futuro davanti a sé.
È in questo clima di incertezza, di fine di un’epoca, che Benedetto si recò a Roma per i suoi studi e fu proprio lì che un po’ per volta prese energicamente vita la sua risposta al mondo. In quel clima incerto, lui mostrò che vi sono certezze che invece resistono: nulla anteporre all’amore di Cristo (RB 4,21; 72,11) scriverà nella Regola. E ciò vuol dire esattamente che esiste un bene assoluto, quali che siano le condizioni storiche e culturali nelle quali si è chiamati a vivere, e questo bene è Cristo! La Regola, in cui si alternano preghiera e lavoro manuale, è la risposta energica ad un mondo disfatto, disfattista, passivo, fatalista. L’uomo, il credente, il monaco non subisce il mondo, non si lascia fagocitare dal mondo, ma tiene salde le redini della sua vita ed è lui a trasformare il mondo, non viceversa a farsi cambiare dal mondo, e lo fa tenendo il cuore in Dio e le mani occupate nell’impegno quotidiano.
La stessa vita monastica, nella forma cenobitica e non eremitica, è una grande proposta culturale e pedagogica: persone diverse, come culture diverse e mondi diversi, possono stare finalmente insieme per un bene comune e condiviso. La stabilitas loci, che egli propone come ideale ai suoi monaci, è l’antidoto alla tentazione di fare del monachesimo una fuga mundi (come era presentato dall’antichità orientale). Per Benedetto la stabilitas è il modo per stare nel mondo senza essere del mondo, per trasformare il mondo senza lasciarsi trasformare dal mondo, per abitare il mondo senza volerne fuggire…
L’epoca culturale, nella quale visse ed operò il nostro Padre fondatore, è per molti aspetti – se ci pensiamo bene – identica alla nostra. Viviamo in un Occidente decadente, che non sa più individuare i punti stabili della sua identità. L’Europa è raggiunta da nuovi flussi migratori di massa; il cristianesimo non è più una fede né una forma o ideale di vita nella quale la maggioranza si riconosce e dalla quale fa discendere le proprie scelte; anzi, il cristianesimo in sé non esiste neppure, esistendo piuttosto diversi cristianesimi (a dire il vero, neppure al tempo della formulazione del Nuovo Testamento esisteva un cristianesimo unico ed identico). Anche dal punto di vista politico, la moneta unica non è riuscita a creare un’anima ed una identità europee, anzi, semmai ha dato origine a nuove spinte anti-europeiste. Il sistema valoriale, che fino a 50 anni fa era da tutti accolto e condiviso (talvolta con ipocrisia, ma comunque accettato), oggi non esiste più.
Dinanzi a questo cambiamento di epoca, anche la nostra società sembra disfatta e disfattista; sembra quasi che siamo tutti in inerme ed inerte attesa dell’ultima e definitiva catastrofe. Siamo all’occasum (alla morte) del nostro mondo, cioè del mondo come lo conoscevamo, ma non siamo certo alla fine del mondo! È, sì, una situazione diversa e inattesa da tutti noi, ma da qui nascerà un mondo nuovo, un mondo diverso. Non siamo alla fine di tutto, ma alla fine di tutto ciò che conoscevamo.
Ora, dinanzi a questa situazione di sbandamento ed incertezza, dinanzi ad un mondo che conoscevamo e che sta morendo, e dinanzi ad un mondo nuovo che sta sorgendo ma di cui non riusciamo ancora a delineare i tratti essenziali, noi – eredi del carisma di Benedetto – cosa facciamo? Abbiamo la nostra stabilitas? Abbiamo il nostro polo attrattivo che centra la nostra esistenza in un orizzonte o siamo «canne sbattute al vento», come diceva Pascal? Qual è l’asse cartesiano della nostra vita che ci permette di rimanere saldi? E, prima ancora, lo abbiamo un asse cartesiano?
Benedetto è un uomo che è vissuto pienamente nel mondo, nel suo mondo, perché non ha visto i cambiamenti in atto come un pericolo da cui fuggire, non li ha subiti lasciandosi trasportare dai venti impetuosi del mutamento culturale ed epocale. Ha vissuto quei venti, li ha affrontati, li ha cavalcati per ridare, nel magma del rivoltamento complessivo, un rivolo di stabilità, che non solo ha resistito, ma ha persino mantenuto solida la vena linfatica unitaria di quella che noi conoscemmo come Europa cristiana. L’unità, che Benedetto ha contribuito a creare, non aveva nulla a che fare con l’unità, voluta da Costantino. L’Imperatore voleva una unità assoggettante (e fallì), Benedetto creò una unità integrante (e vinse). Quando finalmente decise di dare vita al suo Ordine, Benedetto costituì dodici comunità di dodici monaci ciascuna, e pose un abate a guida di ogni abbazia. Tenne per sé solo una piccola comunità di giovani, che volle formare personalmente; questa era costituita da romani, visigoti, longobardi e da monaci di altri popoli. Romani e quelli che loro definivano “barbari” si trovarono a vivere insieme, a conoscersi, ad accogliersi, a stare in unum. Questa era l’unità inventiva, nuova, geniale di San Benedetto. Non quella monolitica, che pretendendo di assoggettare si infrange, ma quella prismatica, che accogliendo ed integrando, si espande.
Il Signore, ci renda tutti disponibili e accoglienti all’ascolto della sua Parola nella nostra vita, capaci di coraggio nel trasformarla in fatti ed opere edificanti la nostra umanità e quella di coloro che incontreremo sul nostro cammino. La testimonianza di Benedetto ci conferma che se è stato capace lui, lo potremo anche noi, giacché chiamati a camminare nel solco del suo carisma, della sua originale intuizione, che ha ancora molto da dire e molto da dare al nostro mondo contemporaneo. Se noi avremo il coraggio di stare nel mondo, di abitarlo veramente come lui. Amen.
dom Tonino +
Qui sotto il video dell'omelia
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