top of page

11 luglio 2020 ricordare le Opere di Dio in Benedetto da Norcia

"Quel mondo che sembrava frantumarsi, sfracellarsi nella sua innervatura portante e Benedetto comprese che le sue comunità potevano e dovevano essere i punti fermi di un mondo che appariva alla deriva e che, invece, stava soltanto cambiando fisionomia". Sono alcune parole tratte dal sermone del Padre Abate, dom Antonio Perrella, dell'11 luglio 2020, in occasione della Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola per giornata di memoria di Benedetto da Norcia.


Benedetto da Norcia ha inteso e trasmesso un monachesimo dove il monaco è in continua ricerca e mai nel suo comprendere l'esperienza spirituale può pensarla statica bensì sempre dinamica. Per questo motivo la Comunità della Christiana Fraternitas ha deciso di passare la giornata in sua memoria "fuori porta" e ricordare a se stessa che il cammino monastico o del cristiano è sempre una strada e mai una meta.

La giornata si è svolta in Basilicata presso il Parco Nazionale del Pollino. La Famiglia Monastica ha vissuto la Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola ospitata in un Santuario dedicato alla Madre di Gesù.  

Dopo la preghiera la Comunità ha visitato il piccolo borgo cittadino e un museo recandosi poi in un locale per il pranzo dopo il quale ci si è inoltrati in un'escursione nel verde.

La giornata "fuori porta" si è conclusa con la preghiera del Vespro. Qui sotto l'omelia integrale del Padre Abate dom Antonio Perrella e un piccolo reportage fotografico.  

Testo integrale del sermone

del Reverendissimo Padre Abate dom Antonio Perrella


Carissime Sorelle e Fratelli,

1. Il senso del celebrare una memoria

Celebrare la memoria di Benedetto non vuol dire celebrare un uomo, per quanto mirabile sia stata la sua vita ed utile il suo esempio. Fare memoria, nello spirito biblico, vuol dire ricordare le opere meravigliose che Dio ha compiuto in quell’uomo e attraverso quell’uomo. Significa, cioè, riconoscere che Dio, nella sua bontà, continua ad agire nella storia umana, attraverso strumenti da Lui eletti come furono i patriarchi, i profeti, Gesù stesso, gli apostoli ed una catena ininterrotta di uomini e donne, anziani e bambini, personaggi illustri e persone semplici, che gli hanno aperto totalmente il cuore e, per questo, non hanno opposto resistenza all’azione dello Spirito. Noi, qui e oggi, non celebriamo Benedetto, ma con Benedetto celebriamo Dio che in lui ha agito e compiuto azioni meravigliose per il bene della chiesa e dell’umanità.

Così ci istruiva sin dall’inizio l’antifona di introito: Gioiamo nel Signore, ai retti si addice la lode. Celebriamo Dio, fonte della nostra gioia; e la nostra gioia nasce dalla constatazione che Egli agisce negli uomini e attraverso gli uomini, ovvero coloro che l’antifona definisce i retti, che a Lui e alla Sua opera aderiscono con generosità. Infatti, se è la Grazia di Dio ad agire primariamente, è anche vero che è la libertà dell’uomo che le dà spazio.

Della vita di Benedetto sappiamo poche cose. La maggior parte dei dati biografici proviene dai Dialoghi di Gregorio magno. Scrostando quel testo dal suo chiaro intento laudativo agiografico, tuttavia, rimane un profilo gigantesco della figura di Benedetto.

Egli era un giovane proveniente da una famiglia benestante e, come tutti i rampolli delle famiglie ricche del suo tempo, venne inviato a Roma per i suoi studi, da dove sarebbe poi iniziata la sua carriera e l’affermazione della sua persona. Contrariamente alle aspettative di tutti, però, Benedetto decise ben presto di abbandonare gli studi e Roma e ritirarsi sui monti ad est di Roma.


2. Il quaerere Deum come essenza della vita monastica

Cosa lo aveva spinto? Come mai un giovane di promettenti e brillanti promesse decide di buttare all’aria un futuro invidiabile per ritirarsi in una vita eremitica? Per indagare sulle intenzioni che hanno mosso il giovane Benedetto non possiamo fidarci della lettura che della sua vita fa il suo biografo, il quale ha ovviamente -lo abbiamo detto- un intento laudativo. Dobbiamo, invece, compiere lo sforzo critico di leggere le fonti a lui riconducibili, ovvero la Regola, che ci ha lasciato e che ha segnato le orme della forma della vita monastica fino ad oggi. Cosa emerge dalla Regola? Qual è l’ideale di vita che Benedetto vuole trasmettere attraverso quella forma di vita ivi descritta? L’ideale che è lì contenuto evidentemente è ciò che egli cercava come realizzazione e soddisfazione piena della sua propria vita.

Ovviamente sintetizzare la Regola in poche battute è impresa ardua. Essa è il frutto assieme di una intuizione originaria, di una esperienza di vita vissuta ed anche dell’accoglimento di una tradizione, che tuttavia viene innovata e proiettata in avanti, tenendo conto dei capovolgimenti culturali in atto in quel tempo. Tuttavia, ci sono indizi letterari e costitutivi della Regola che ci consentono di individuare alcuni punti fondamentali.

Anzitutto vi è una frase, che – rispetto ad altre – ritorna più volte e soprattutto la troviamo nella sezione che riguarda la vita dei monaci sia all’inizio (4,21) sia alla fine (72,11): la frase è “nulla anteporre all’amore di Cristo” o semplicemente “a Cristo”. La posizione di questa frase – all’inizio e alla fine, a mo’ di inclusione – ci mostra come in essa sia racchiusa l’essenza stessa della vita monastica nella comprensione benedettina. Essa viene poi usata anche per l’Opera di Dio, l’Ufficio divino, la preghiera, alla quale nulla va anteposto (43,3). Da queste indicazioni contenutistiche comprendiamo che il centro gravitazionale della Regola, nella quale Benedetto trasfonde la visione della sua stessa vita, è l’amore di Gesù, la sua Opera, il valore assoluto e assolutizzante che il Signore ha nella vita del monaco. Da qui nasce la vita monastica, intesa come un cammino, non già come un traguardo. Quando nel Prologo egli scrive che il monastero è una scuola del servizio del Signore, sta affermando esattamente che il monaco non si ritiene un arrivato, ma un pellegrino; non uno che ha raggiunto la meta, ma un corridore; non un appagato, ma un cercatore. Quaerere Deum (cercare Dio) è la cifra della vita monastica. Ritengo di non sbagliare se affermo che Benedetto lasciò Roma e gli studi, con un invidiabile coraggio, proprio perché nel suo cuore urlò potentemente il bisogno di Dio come assoluto, la fame e la sete del Signore e del suo amore. Partendo da Roma per ritirarsi in solitudine, Benedetto seguiva esattamente questo suo bisogno di cercare il Signore per farlo diventare il centro propulsore di tutta la sua esistenza, di ogni sua fibra. Chi cerca trova (cf Mt 7,7; Lc 11,10), disse una volta Gesù. Con questo ci indicò che la condizione per trovare è il cercare, ma forse può anche voler dire un’altra cosa. Il cercare è in qualche modo un aver già trovato, almeno come desiderio, come speranza, perché noi cerchiamo veramente solo ciò di cui sappiamo di aver bisogno per essere felici; ma anche chi ha trovato, in fondo non smette mai di cercare, perché l’oggetto della sua ricerca vuole conoscerlo sempre di più e sempre meglio. Benedetto in tutta la sua vita non ha mai smesso di cercare Dio. Poiché la sua vita era intessuta della preghiera salmica, egli non può non aver scolpito nel suo cuore le parole: «Si ravvivi il cuore di chi cerca Dio» (Sal 69,33) e «gioisca il cuore di chi cerca il Signore. Cercate il Signore e la sua potenza, cercate sempre il suo volto!» (Sal 105,3-4).

Cercate il Signore mentre si fa trovare (Is 55,6), abbiamo ascoltato nella prima lettura: e Dio si fa trovare da chi vuole cercarlo in ogni cosa, in ogni momento. Dio si presenta a noi nei modi più disparati: nella sua Parola, nel dialogo con lui, nei fratelli, negli eventi, nella bellezza mozzafiato del creato. La gioia e la pace della vita del monaco paradossalmente non sta tanto nel trovare, quanto nel cercare; perché se egli presume di aver trovato definitivamente Dio, allora ciò che ha trovato semplicemente non è Dio, il quale è al di là e al di sopra di ogni pensiero e di ogni desiderio e supera di gran lunga le nostre aspettative. Questo suo essere sempre al di là di tutto, ci fa apprezzare e vivere bene il nostro al di qua, in cui Egli ha lasciato le Sue tracce perché noi ci mettiamo in cammino. Che vita meravigliosa è quella di chi non si stanca di cercare Dio: più ti cerco, Signore, più ti trovo; e più ti trovo e più comprendo di doverti cercare ancora, perché tu mi hai fatto per te e l’animo mio è inquieto fintanto che non riposa in te (cf Agostino, Confessioni, 1.1.5).


3. La rivoluzione copernicana di Benedetto: la vita monastica come condivisione dei doni di Dio con i fratelli, con la Chiesa, con il mondo

Sappiamo che Benedetto ha iniziato ad accogliere compagni di cammino solo dopo tre anni circa di solitudine. Questa scelta certamente corrispondeva ad una sua esigenza interiore: dapprima ha voluto ricentrare la sua persona e la sua esperienza in senso cristocentrico e poi si è aperto alla condivisione. Tuttavia, questa scelta di condivisione corrisponde anche ad un’altra motivazione, che va ricordata, altrimenti si perde una delle più grandi intuizioni rivoluzionarie del monachesimo benedettino.

Benedetto è definito padre del monachesimo occidentale. In realtà, sappiamo che egli è stato certamente un innovatore ed un sistematizzatore dell’esperienza monastica, che era sorta ben prima di lui. Non a caso la sua Regola è fortemente debitrice di un testo precedente, al quale attinge a piene mani, conosciuto con il nome di Regola del Maestro. Qual è però la novità di Benedetto? L’esperienza monastica – anche quella già esistente di forma cenobitica, ovvero comunitaria – fondamentalmente presentava la vita monastica come una vita eremitica, solitaria. La comunità era una sorta di luogo necessario alla vita, ma non incidente sull’esperienza del monaco. Era come lo sfondo organizzativo ma non essenziale dell’esperienza monastica in cui il singolo monaco cercava la strada della sua perfezione e della sua vicinanza a Dio.

Benedetto, invece, ribalta completamente la comprensione della natura comunitaria, cenobitica dell’esperienza monastica. Il cenobio diventa il luogo teologico in cui il monaco, insieme ai fratelli, compie il suo cammino di ricerca con Dio. La comunità dei fratelli non è più un accidente irrilevante, ma la comunione spirituale – sotto la guida sapienziale dell’Abate – entro la quale soltanto si può scrivere e compiere il cammino monastico. Nella Regola, infatti, i monaci vengono designati per la stragrande maggioranza delle volte con il nome di fratres, condiscipuli. Si trattava di una svolta epocale nella comprensione del monachesimo. Il fratello è occasione e dono di grazia per la crescita del monaco e la comunità è il luogo in cui lo Spirito agisce e parla a tutti ed ai singoli. Ed è questo il motivo per cui nella Regola si dà molto spazio alla riflessione comunitaria e alla scelta collegiale sulle questioni più importanti.

C’è, poi, un altro grande elemento di novità nella comprensione e attuazione del monachesimo benedettino. Nel 529 Benedetto lasciò il monte Subasio e si trasferì sul Monte Cassio, ove dette origine alla comunità di Montecassino. Perché da un monte ad un altro? Qual era la differenza? Subiaco era su un’altura solitaria e poco visibile; Montecassino, invece, era un’altura ben visibile e ben inserita nei punti di snodo della viabilità commerciale. Stare su quel monte garantiva la solitudine ed il silenzio, ma offriva anche una visibilità ampia al monastero. Per Benedetto il monastero e la vita monastica devono acquisire una visibilità ed un fine per la vita ecclesiale e sociale. Qui siamo davvero davanti ad una rivoluzione copernicana: non più la fuga dal mondo, ma un modo nuovo di stare nel mondo! Da quel momento le Abbazie diventeranno centri di aggregazione, di formazione culturale e spirituale, un vero punto di riferimento per la comunità ecclesiale e civile, tant’è che nel periodo delle migrazioni dei popoli nordici (quelle che antipaticamente a scuola abbiamo sentito definire come invasioni barbariche), le Abbazie sono state il centro di conservazione, produzione e sviluppo di quella che noi chiamiamo identità culturale occidentale ed europea. Mai nella storia della Chiesa si era pensato alla vita monastica come ad un luogo di “missione” spirituale, culturale e di promozione sociale. Il monaco, per antonomasia, era colui che aveva lasciato il mondo e si era distaccato da tutte le vicende storiche, anche ecclesiali, per cercare Dio soltanto. Benedetto, invece, insegna e concretizza che la ricerca di Dio è esperienza e cammino condiviso e che questa ricchezza interiore va donata alla chiesa e al mondo. Aveva iniziato facendo sì che i monaci condividessero tra di loro i doni di Dio e porta poi alle conseguenze più estreme l’imperativo della condivisione cristiana, aprendo le sue comunità ad un ruolo ecclesiale e sociale. Quel mondo sembrava frantumarsi, sfracellarsi nella sua innervatura portante e Benedetto comprese che le sue comunità potevano e dovevano essere i punti fermi di un mondo che appariva alla deriva e che, invece, stava soltanto cambiando fisionomia. Egli ha saputo leggere i segni dei tempi (cf Mt 16, 3) ed in qualche modo, con la sapienza profetica che gli veniva dalla sua esperienza spirituale e con la forza che gli proveniva dalla condivisione comunitaria, seppe in qualche modo “dominare” quei segni e vivere fruttuosamente quei tempi. Non cedette al disfattismo della crisi, ma ne comprese e ne cavalcò positivamente le opportunità.

Da tutto ciò comprendiamo perché egli viene definito padre del monachesimo, perché in fondo ne ha come inventato uno nuovo, fino a quel momento inedito. In questo Benedetto ci insegna che ogni realtà spirituale, se vuole continuare a vivere ed essere efficace, non può pensare a se stessa come il luogo della preservazione di un patrimonio tradizionale. Se così facesse, diventerebbe un museo, meraviglioso, bello nella conservazione delle vestigia di un glorioso passato. Ma niente di più, perché sarebbe il luogo della memoria di ciò che comunque in modo inesorabile è morto. Ogni realtà spirituale, deve continuare ad essere viva, ovvero ad incarnarsi nelle forme nuove che il mutare dei tempi richiedono. Solo così la fiamma spirituale non si spegne soffocata dalla cenere della tradizione.

L’audacia profetica dei carismi è ciò che rende possibile alla linfa vitale dello Spirito di Dio di attraversare le vene della storia e di sgorgare continuamente in nuovi polloni di vita; a condizione, però, che nulla prenda il posto della fantasia di Dio e che ci si comprenda come i destinatari di un dono da trasmettere, sempre nuovo e vitale, a chi viene dopo. Ogni tradizione, se vuole essere se stessa, deve adattarsi, inculturarsi, lasciarsi provocare e persino modificare dalle rinnovate esigenze del mutare dei tempi. In caso contrario, la pianta dissecca.

Ecco cosa significa celebrare questa memoria: riconoscere che Dio agisce potentemente in chi, come Benedetto, comprende se stesso all’interno del suo progetto, in chi scopre che solo la realizzazione della propria vocazione è la via della propria felicità ed anche che questa vocazione e realizzazione non è mai solo per se stessi, ma per il bene di tutti. Questa sfida va, poi, accolta e vissuta con la massima apertura di cuore, sapendo trarre dal tesoro della propria esperienza le cose antiche e cose nuove (cf Mt 13, 52), riconoscendo come ogni cambiamento – anche se dapprima destabilizza – è pur sempre un’occasione di grazia che il Signore ci pone dinanzi. Amen.


Dom Tonino +



La Celebrazione Capitolare Ecumenica della Parola



Visita al museo dell'antenato dell'elefante



Escursione al Parco del Pollino


Pax!

Ut unum sint!

Comments


bottom of page