Chi siamo?
La Comunità della Christiana Fraternitas
È possibile una vita monastica ecumenica?
I. Premessa storico-teologica
I. 1. La Chiesa e l’Ecumenismo
C’è una parola che caratterizza l’incontro con Gesù; questa parola è seguimi (cf Mt8,22; 9,9; 19,21; Mc2,14; 10,21; Lc5,27; 9,59; 18,22; Gv 1,43; 21,19; 21,22). Ogni persona che incontra Gesù non può che trovarsi davanti a questo invito: seguimi! Il Signore interpella l’umanità e desidera muoverla, condurla dalle schiavitù esistenziali, sociali e culturali alla libertà, alla vita piena ed eterna. Accettare l’invito di Gesù significa disporsi a camminare, a muoversi, a passare da uno statusall’altro senza che le difficoltà dei sentieri, in salita e tortuosi, possano spegnere l’entusiasmo, senza che le soddisfazioni delle discese e le pianure appaiano come destinazioni ultime, che appagano. La terra promessa è sempre oltre ogni disegno umano. Per cercare di comprendere questa dinamica dovremmo metterci nella prospettiva di Mosè (cf Dt 34,1), scelto come leader per condurre il popolo di Israele dalla schiavitù dell’Egitto alla terra promessa nella quale però, lui, non è mai entrato. Il discepolo di Gesù non ritiene mai definitivo un traguardo raggiunto o raggiungibile, poiché non sempre il disegno provvidenziale di Dio coincide con quello dell’uomo. Michael Curry, Vescovo Presidente della Convocazione Generale delle Chiese Episcopali del mondo, ha scelto come principio fondamentale della sua predicazione e come progetto pastorale della Chiesa Episcopale un leit-motiv: “essere cristiano significa essere nel movimento di Gesù”, cioè sorelle e fratelli che in cammino insieme fanno esperienza dell’amore reciproco ed in questo amore riconoscono quello di Dio. Di fronte al seguimi di Gesù non ci si può intendere come persone/istituzioni statiche, ma assolutamente dinamiche. Le istituzioni rimangono sempre ed in ogni caso realtà penultime rispetto alla sequela del Signore.
Quando l’istituzione diventa realtà ultima nel movimento di Gesù, allora sorgono problemi. L’evoluzione socio-istituzionale della Chiesa ha dato vita a molte separazioni, preda del costume e della cultura del tempo. Le due più grandi e significative divisioni sono state quelle dello Scisma d’Oriente nell'XI sec. e della Riforma Protestante del XVI sec. Queste fratture così grandi nel cuore della Chiesa non possono in alcun modo trovare ragioni davanti agli occhi di Dio. Spesso i problemi dottrinali - in alcuni casi realmente esistenti - sono stati il “cavallo di troia” per raggiungere interessi di potere e/o politici. Questi problemi dottrinali oggi non solo non hanno più alcun motivo di esistere, ma anzi ci interpellano perché, nel dialogo rispettoso e fraterno, vengano superati. Il ritorno all’unità è un imperativo categorico che interpella urgentemente tutte le Chiese e tutti i membri delle Chiese. Non è impegno di una Chiesa soltanto o un aspetto delegato ad un qualche organismo nelle singole Chiese: è dovere ed impegno di tutti i battezzati.
Dicevamo che la Chiesa è una compagnia in movimento che lavora per disporsi all’azione dello Spirito Santo che come il vento che soffia dove vuole (cf Gv 3,8). In ordine all’azione dello Spirito Santo negli ultimi decenni sembra che qualcosa ci conduca a ritrovare le motivazioni profonde per una riappacificazione storica circa le divisioni tra i cristiani. Sono nate molteplici iniziative ecumeniche e sono stati compiuti molti passi, anche se non ancora sufficienti, in favore dell’unità dei cristiani ovvero per realizzare l’Ecumenismo. Con la parola “Ecumenismo” viene indicato l’impegno, comune a tutte le Chiese Cristiane, di compiere ogni sforzo teologico e concreto per superare le divisioni tra i Cristiani. Il Movimento Ecumenico è iniziato proprio in ambito anglicano con il cosiddetto Movimento di Oxford nel 1833, di cui un grande esponente fu John Henry Newmann, poi divenuto cattolico e nominato cardinale (canonizzato insieme dalla Chiesa Anglicana e dalla Chiesa Cattolica). Il Movimento di Oxford cercava delle basi comuni per ricostituire un’unica grande Chiesa cristiana. Nel 1910, in ambito protestante, sorse una Conferenza mondiale delle società missionarie protestanti e anglicane, che fece un’audace proposta: iniziare a predicare insieme il Vangelo, indipendentemente dalle differenze dottrinali. Un ulteriore passo fu segnato nel 1921 nelle Conferenze di Malines, che tentavano di avvicinare Chiesa Cattolica e Chiesa Anglicana. Un momento decisivo per il cammino ecumenico ci fu nel 1948 quando diverse Chiese protestanti, anglicane e ortodosse decisero di dare vita al Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC), che oggi racchiude insieme oltre trecento denominazioni cristiane. La Chiesa Cattolica Romana fino al 1960 fu scettica (ed aspramente contrapposta) rispetto a queste iniziative, fino a quando Papa Giovanni XXIII (canonizzato sia dalla Chiesa Episcopale Anglicana sia dalla Chiesa Cattolica) non pose in atto scelte di rottura col passato (ricevette in Udienza Ufficiale diversi Capi e Primati di Chiese Cristiane non Cattoliche) ed indisse il Concilio Ecumenico Vaticano II che, con la dichiarazione Unitatis Redintegratio, riaffermò l’impegno ecumenico come fondamentale per la vita di fede dei cattolici.
I. 2. Tentativi di Comunità di vita ecumenica
I. 2. a. Excursus storico-teologico sui movimenti riformatori
In questo solco, tracciato certamente dalla Grazia di Dio che ci rende tutti fratelli e sorelle e ci spinge a rivolgerci a Dio chiamandolo Padre (cf Rm 8,15), riconosciamo l’esigenza di Colui che ha lasciato nel suo “testamento spirituale” la supplica perché fossimo tutti una cosa sola (cf Gv 17,21). Ed è solo in questo riconoscersi, viversi come un solo corpo (cf Rm 12,4; 12,5; 1Cor 10,17; 12,13; Ef 2,16; Ef 4,4; Col 3,15) che potremo essere riconosciuti come autentici cristiani (cf Gv 13,35). In ordine a questa esigenza dello Spirito, sono nate Comunità ecumeniche di vita comune.
Prima di indicare alcuni tentativi, tra i più noti, di Comunità ecumeniche, occorre chiedersi come mai, di tanto in tanto, in differenti Chiese cristiane, nascano movimenti spontanei di ecumenismo? È una costante, nelle vite delle Chiese, che sorgano dei movimenti ben precisi, spontanei e dal basso, che abbiano poi un effetto salutarmente riformatore nelle Chiese. Per fermarsi alla storia dell’Occidente, che è quella più conosciuta da noi, basti pensare come, a cavallo del XII e XIII secolo, siano sorti i movimenti dei mendicanti. Dinanzi ad una Chiesa opulenta, invischiata nelle vicende di potere, alcuni uomini e donne hanno sentito la chiamata urgente a vivere la prospettiva evangelica della povertà, intesa come stile di vita che pone Dio al centro e come fonte di forza e sicurezza della sua Chiesa. Francesco e Chiara, Domenico e tanti altri hanno mostrato, coraggiosamente e sempre nella incomprensione (e spesso nella persecuzione) da parte delle strutture ecclesiastiche, che è possibile vivere secondo il Vangelo e non scendere a compromessi con una mentalità mondana. Di nuovo nel XIV e XV secolo, la Chiesa si presentava come un corpo ferito da lotte, divisioni, interessi politici ed economici che avevano preso il completo sopravvento sulla sua missione spirituale ed evangelizzatrice. Sorsero così i grandi mistici del Cinquecento che richiamarono alla Chiesa di nuovo la centralità di Dio nella sua vita: Teresa d’Avila, Camillo de Lellis, Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Francesca Romana e tantissimi altri. Nel XVI secolo, mentre la grande Chiesa soffriva il suo essersi avviluppata ad una vita fondata più sul diritto e sulle norme che non sul Vangelo e sulla grazia di Dio, Lutero ricordò a tutta la Chiesa che la sua norma più grande e decisiva è la Parola del Signore e che l’opera della salvezza è anzitutto un dono ed una grazia di Dio che non un impegno dell’uomo, come se questi abbia merito e diritto ad un premio conquistato con le sue forze. Nel XX secolo, si affermavano due grandi esigenze: le Chiese ormai non solo erano divise, ma spesso non dialogavano e l’unico tipo di confronto era quello apologetico, ovvero il tentativo di mostrare gli errori dell’altro. L’ecumenismo, soprattutto da parte di alcuni, era inteso come l’impegno a far convertire i fratelli alla propria Chiesa. Qui si dimenticava che neppure la Chiesa delle origini era “monocolore”: sia gli Atti degli Apostoli sia le Lettere paoline ci mostrano come le Chiese apostoliche erano molto diverse ed avevano sensibilità teologiche ben differenti. Il rapporto tra tensioni (diversità) ed unità nella Chiesa delle origini non era problematico: si poteva essere diversi e tranquillamente sperimentare l’unità della fede e della comunione in Gesù. Inoltre, soprattutto in ambito romano, la Chiesa era affetta da un clericalismo sclerotizzante. Per Chiesa si intendeva pressoché solamente il clero. Così, ancora una volta, lo Spirito fece sorgere – come detto – il Movimento ecumenico e la Chiesa Romana, celebrando il suo Concilio, riaffermò che la Chiesa è il Corpo di Cristo, è il Popolo di Dio. Da lì sorsero una miriade di movimenti ecclesiali laicali che hanno rinvigorito la stessa Chiesa Romana nel suo cammino di riscoperta della propria identità ecclesiale, non appiattita su una visione gerarchica, ma comunionale, in cui il ruolo di tutti i battezzati è decisivo.
Da questo excursus, per quanto breve e limitato, si evince, comunque, una costante modalità di azione di Dio: quando le strutture ecclesiastiche sono sclerotizzate e non si aprono alla voce dello Spirito, egli fa sorgere carismaticamente e spontaneamente movimenti dal basso che dapprima vengono percepiti come pericolosi dall’istituzione e poi in seguito accolti e riconosciuti. Questi movimenti possono dare origine a differenti sviluppi: movimento di laici o associazioni, movimenti ecclesiali fino a strutturarsi come una Chiesa vera e propria con specifici sensibilità e patrimonio teologici oppure movimenti religiosi, ovvero forme consociate e strutturate di vita religiosa, come ordini e famiglie religiose di vita consacrata.
Qualunque sia lo sviluppo assunto da questi movimenti riformatori, nati carismaticamente dal basso, è necessario ricordare che l’istanza da cui nascono ed il patrimonio di fede e di cultura teologica di cui essi sono portatori, non appartiene solo ad una Confessione cristiana, ma sono un bene per tutte le Chiese, per tutta la Chiesa. Per quanto il movimento riformatore si radichi storicamente in una realtà esso rimane un carisma suscitato dallo Spirito per l’edificazione del bene e dell’intero Corpo ecclesiale.
I. 2. b. Le Comunità di vita ecumenica
Negli Anni 20 del 1900, a Campello (Lazio), si trova Maria di Campello (dal luogo della sua comunità), che era una missionaria francescana di Maria. Vuole dare origine a una vita di fraternità semplice ispirata a san Francesco. Si insedia a Campello, presso le fonti del Clitunno con alcune sorelle, tra cui due episcopaliane americane. Il Vescovo di Spoleto immediatamente censurò la comunità, che profeticamente continua la sua vita. Tra quanti la sostengono si ricordano: Ernesto Bonaiuti, don Primo Mazzolari, David Maria Turoldo e numerosi teologi e pastori protestanti. Il Mahatma Gandhi, dovendo andare in Inghilterra, prima venne a Campello ad incontrare Maria. A causa dell’opposizione del Vescovo di Spoleto, le due sorelle episcopaliane dovettero spesso lasciare l’Italia. Furono loro a sostenere la comunità perché l’ostracismo della Chiesa Cattolica le costringeva a non ricevere aiuto da nessuno in Italia. Prima del Concilio Ecumenico Vaticano II è l’unico tentativo iniziato da parte cattolica.
Nel 1940 a Taizé (Francia): Frère Roger Schutz, figlio di un pastore protestante svizzero, studiò teologia riformata. Si trasferì dalla Svizzera in Francia a Taizé e lì cominciò a raccogliere attorno a sé rifugiati di guerra, che provenivano da diverse Chiese cristiane e ovviamente dalla fede ebraica. All’inizio ognuno pregava nella propria stanza o nei boschi, per non “offendere” l’altro con la propria preghiera. Nel 1942, poiché erano stati scoperti dai tedeschi, dovettero scappare. Frére Roger si trasferì a Ginevra, dove cominciò un’esperienza di vita comune con alcuni fratelli. Ritornarono a Taizé nel 1944. E da lì iniziò quella ormai famosissima Comunità monastica nella quale convivono quotidianamente Cristiani delle diverse Chiese che condividono vita comune, preghiera e celebrazioni. Ad oggi si conta che circa 9 milioni di persone visitino ogni anno la Comunità di Taizé, soprattutto giovani. Frére Roger iniziò ad invitare una volta l’anno giovani provenienti da tutto il mondo cristiano. Da quell’esperienza nacque, per volontà di Giovanni Paolo II, la Giornata Mondiale della Gioventù.
Nel 1965, Comunità di Bose (Piemonte). A partire dal 1963, il fondatore di Bose – fr. Enzo Bianchi, ancora studente universitario – riuniva nel suo appartamento di Torino alcuni giovani cattolici, valdesi e battisti. Essi pregavano insieme, leggevano e meditavano la Parola di Dio e celebravano l’Eucaristia domenicale chiamata “domestica”, perché avveniva nelle loro case. Precisamente l’8 dicembre del 1965 (giorno di chiusura del Concilio Vaticano II) Enzo Bianchi iniziò a vivere da solo in una casa presso le cascine di Bose (Piemonte). Tre anni dopo si uniscono a lui alcuni fratelli, tra cui una donna ed un pastore evangelico. Ben presto il Vescovo di Biella, nel 1967, comminò la censura, per la presenza a Bose di non Cattolici, e proibì ogni Celebrazione pubblica. Un anno dopo, coraggiosamente, il Cardinale Arcivescovo di Torino, Michele Pellegrino, salì a Bose e vi celebrò la Messa. Solo il suo intervento convinse i Vescovi cattolici piemontesi a non opporsi all’iniziativa di Bose ed a seguirla con benevolenza.
Ciò che preme far notare è che questi tentativi di concreta e quotidiana vita ecumenica sono accomunati dallo stile di vita religiosa, una vera e propria spiritualità ispirata e nascente. Non è un caso che queste forme di vita sia ispirate ad una spiritualità religiosa e monastica. Il monachesimo – come vedremo – porta con sé la capacità di tenere insieme in arricchente osmosi il singolare e l’universale.
II. Storia della Christiana Fraternitas
II.1. L’ispirazione originaria e la nascita di una Associazione
In questo contesto di progressiva intensificazione di attività ecumeniche e di esperienze di “ecumenismo di fatto”, dal 2015, a Taranto (Italia), un gruppo di amici/e – provenienti dalla Chiesa Episcopale e dalla Chiesa Cattolica – teologi e non, hanno iniziato ad incontrarsi per meditare assieme sulla Parola di Dio e vivere momenti comunitari di preghiera, ma non solo. Da questo bisogno di fraternità e unità nacque l’idea di costituire un’Associazione che si proponesse come luogo di incontro (integrazione e interazione) tra le diverse Confessioni cristiane: un luogo in cui non è rilevante la Chiesa di provenienza, ma semplicemente il desiderio di seguire Gesù insieme ai fratelli, nel modo più inclusivo possibile. Il leitmotiv dell’Associazione, tutt’ora conservato dall’Ordine assieme alla spiritualità e alla missione originarie, era ed è: il luogo dove ogni cristiano/a si sente a casa, fraternità è la parola chiave, la diversità è una ricchezza, l’unità fa la forza per i più deboli e la gloria di Dio! Tra queste parole è cresciuto l’ardore di questo piccolo gruppo di uomini e donne per lavorare insieme e percorrere un cammino di crescita spirituale, intellettuale, umana, di integrazione tra cristiani innanzitutto e poi con le altre religioni, di tolleranza e reciproco rispetto, dove non ci fosse spazio per titoli e bandiere, discriminazioni e totalitarismi. In queste parole si intravedeva sempre più chiaramente la spinta dello Spirito Santo che muoveva e vitalizzava il gruppo a non risparmiarsi mai – nonostante gli accanimenti persecutori, vessatori, diffamatori di alcuni ecclesiastici – e nel continuare il lavoro come dei costruttori, per quanto poco specializzati, che aiutano il Signore a costruire la sua casa (cf Sal 127). Ciò che ispirava lo scopo sociale e moderava l’andamento e le scelte dei membri era la Regola di Benedetto da Norcia che fu presa come riferimento in quanto presentava la vita cristiana come un costante cammino di perfezione, cioè come un costante cammino di conversione di tutti a Gesù, come una scuola di permanente stato di discepolato (cf Prologo della Regola, præsertim n. 45). Per questo, sin dall’inizio, ci si rese conto che gli sforzi di ciascuno potevano avere un solo fine e nulla di più: “la missione di evangelizzarsi perciò evangelizzare”. Con questo aforisma del Fondatore, Antonio Perrella, si intende comunicare che il monaco della Christiana Fraternitas non pretende di essere evangelizzatore e maestro di nessun altro se non di se stesso. Sarà una vita evangelizzata ad attirare – se è volere di Dio – gli altri all’Amore di Gesù: “Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 35).
Nel Prologo della Regola, Benedetto si rivolge a colui che vuole intraprendere la vita monastica con parole che, se lette con attenzione, hanno un contenuto rivoluzionario rispetto al modo con cui solitamente si guarda alla realtà monastica. Egli scrive: «Ascolta, figlio, gli insegnamenti del maestro […], perché […] tu possa far ritorno a colui al quale ti sei allontanato» (n. 1). Il testo latino usa il verbo redeo, ovvero tornare indietro, cambiare di direzione, che è esattamente ciò che nel Nuovo Testamento viene indicato con il termine greco metanoia-conversione. La vita monastica, pertanto, non è uno stato di perfezione, né l’accesso ad essa richiede una perfezione raggiunta; la vita monastica è un cammino verso una meta, il monaco non è perfetto ma perfettibile, è alla continua ricerca di una perfezione. Ovviamente sarà più chiaro in seguito, nella lettura della Regola, che questa perfezione non è da intendersi in senso unicamente morale, ma in senso comunionale: perfetto, per la Regola, è colui che nulla antepone all’amore di Cristo e per questo è unito e assimilato a lui. Alla luce di questa impostazione, il cammino monastico non è un cammino esclusivo, elitario, per pochi, ma è per tutti coloro che sono alla ricerca di un senso e di una gioia più profondi e radicati nella propria vita: «non ho bisogno di essere certo di te, ma di essere più stabile in te», dirà Agostino di Ippona, dopo aver letto la vita del monaco Antonio.
Alla luce di tutto ciò, va chiarito che la natura e la spiritualità ecumeniche dell'Ordine ne sono certamente il carisma specifico, ma non esauriscono la sua missione. L'Ordine è aperto a tutti coloro che nella propria vita sono alla ricerca di se stessi e di Dio, anche al di là della effettiva o meno appartenenza ad una Chiesa cristiana. La vita monastica è vita di ricerca (quaerere Deum, e noi aggiungiamo quaerere semetipsum in Dio) e per ciò stesso è aperta a chiunque. L'Ordine pertanto è uno strumento, totalmente inclusivo e libero, che Dio offre ad ogni uomo ed ogni donna; è uno strumento con cui Dio, che tutti cerca e chiama, continua a domandare a tutti: "Adamo, dove sei?" (Gen 3,9).
II. 2. Lo sviluppo: da Associazione ad Ordine Monastico Ecumenico
Nell’organizzare attività e iniziative, la Christiana Fraternitas si è presentata doverosamente a molte Autorità Ecclesiastiche ed ha ospitato Pastori/e delle diverse Confessioni per veri e propri laboratori sulla Parola di Dio studiata, condivisa e pregata. Le attività della Christiana Fraternitas sin da sempre si sono poste come elementi di un cammino non sostitutivo della vita di fede che ciascuno ha nella propria Confessione di appartenenza. Essa, invece, propone un cammino complementare, per arricchire la vita di fede ordinaria di ciascuno, con un’anima ecumenica, con uno slancio apostolico in ordine all’ecumenismo ed in modo particolare ad un ecumenismo di fatto, cioè ad una unità che si inizia a costruire dalla condivisione quotidiana della vita e delle proprie ricchezze spirituali e che solo dopo, a partire dalla forza e con la forza di questo legame già nato, può diventare anche dialogo e confronto sulle questioni teologiche.
Alcuni di questi incontri sono stati particolarmente fruttuosi e l’Associazione ricevette incoraggiamenti a continuare nell’opera iniziata, in quanto ne veniva riconosciuta la validità e la possibile funzione profetica. Altri incontri non sono stati neppure concessi ed altri ancora hanno cercato di ostacolare la libertà di associazione costituzionalmente garantita in Italia. Del resto, la storia ci ha insegnato a non stupirci di questa diffidenza ed opposizione di alcuni!
Tra tutti questi incontri, uno in particolare, fu quello che permise l’evoluzione dell’Associazione dandole una configurazione giuridico-ecclesiastica: l’incontro con la Convocazione delle Chiese Episcopali in Europa della Comunione Anglicana. La natura ecumenica ed inclusiva dell’Associazione trovò immediata consonanza nella mission della Chiesa Episcopale e nella sua specifica ecclesiologia. Fu avviato dunque un lungo processo di riconoscimento da parte della Chiesa Episcopale che costituì come Ordine Monastico Ecumenico d’ispirazione benedettina la Christiana Fraternitas. Il Decreto del 20 luglio 2018 del Vescovo in carica, S. E. Rev.ma Pierre Wahlon, ha approvato, secondo quanto previsto dalle Constitution and Canon a norma del can. III.14.1f, l’Ordine nella sua natura ecumenica con lo Statuto, le Costituzioni, il Libro delle preghiere e delle liturgie (Rituale Proprio) ed ha ratificato l’elezione del leader Rev.mo dom Antonio Perrella elevandolo alla dignità abbaziale. L’Abate eletto l’11 ottobre 2018 venne consacrato, secondo il secolare uso e rito benedettino, come primo Abate di questa Comunità nella Casa di Preghiera dell’Ordine. Nella stessa occasione i sette Monaci/e Cofondatori/e rinnovarono i loro voti pubblici. La Casa di Preghiera è una Chiesetta anglicana, costruita durante la Grande Guerra dai soldati inglesi anglicani, stanziati presso l’ex presidio ospedaliero G. Testa. Lì edificarono il loro luogo di culto. La Chiesa, di proprietà dell’Azienda Sanitaria Locale, è stata per anni abbandonata o adibita a deposito. Furono la richiesta dell’Ordine ed il placet del Direttore Generale ASL di Taranto, Avv. Stefano Rossi, a ridare dignità e giustizia storico-culturale a quel luogo di culto, finalmente oggi reso fruibile sia alla sua originaria funzione sia alla cittadinanza tutta: l’Ordine, infatti, garantisce l’utilizzo della Chiesa a tutte le Comunità cristiane, sprovviste di luogo di culto proprio, e a tutte quelle iniziative – conformi alle leggi dello Stato – che siano di promozione umana del territorio.
II. 3. Monachesimo e Anglicanesimo
L’importanza del riconoscimento della Chiesa Anglicana di un Ordine Monastico è di grande rilevanza storica. Nella seconda metà del 1500, gli Ordini religiosi furono soppressi nella Chiesa Anglicana. Ovviamente, è facile intuire che oltre ai motivi teologici (la vita monastica appariva ad alcuni come una élite spirituale e si viveva come problema la disciplina del celibato), c’erano ben altri motivi, di tipo politico ed economico, per quella scelta. Le abbazie soprattutto erano centri di cultura, di potere e di influsso economico e potevano quindi ostacolare il cammino riformista.
Solo a partire dalla seconda metà del 1800 la Chiesa Anglicana timidamente tornò a contemplare la possibilità della vita religiosa come parte della propria esperienza ecclesiale. Dapprima sorse il sospetto che si volesse ricostituire una casta spirituale, ma successivamente una nuova generazione di teologi anglicani mostrò come la vita religiosa aveva piena cittadinanza nell’ecclesiologia anglicana. Tra essi basti rcordare Andrewes, Cosin e Law. La prima iniziativa di vita comune fu attuata proprio da Newman tra il 1840 e il 1845 e fu impostata proprio sullo stile benedettino.
Il fatto che la Chiesa Episcopale abbia deciso di riconoscere un proprio Ordine Monastico è di grande rilevanza storica e culturale, in quanto esso si può porre come un anello di collegamento con le altre Chiese, che hanno sempre conservato la vita religiosa. Non sfugge inoltre che la costituzione di un Ordine benedettino con un Abate segna una riconciliazione con la propria storia ed il definitivo superamento delle difficoltà e delle diffidenze storiche verso la vita religiosa.
Questo percorso di riconciliazione ad intrae ad extra, nel caso della Christiana Fraternitas, è potuto avvenire con naturalezza, poiché essa propone un monachesimo ecumenico e per questo necessariamente attento e rispettoso delle fondamentali posizioni ecclesiologiche delle differenti denominazioni. Ciò richiede forse di tralasciare alcune forme tradizionali della vita monastica ma non impedisce affatto di conservarne gli elementi essenziali: preghiera, meditazione e studio della Parola, lavoro (ora, lege et labora). Nella Christiana Fraternitas, per esempio, il celibato non è obbligatorio per tutti i monaci, in quanto è liberamente scelto, ma ciò non toglie che anche i Monaci, legati ad una seria ed umana relazione affettiva, vivano la loro vita nella spiritualità monastica essenziale. Così è fugato ogni sospetto di voler creare una élite spirituale: nella Christiana Fraternitas si è tutti monaci (in cammino) tanto nell’abbazia o monastero tanto nella propria casa e famiglia. Non è infatti un luogo a renderci più o meno monaci.
Dal punto di vista strutturale-normativo, ciò è possibile perché nell’Ordine esistono due modalità di essere monaci:
a) Monaci/e della Comunità Apostolica: sono fratelli e sorelle, principalmente teologi e teologhe, che dopo il percorso di discernimento previsto dallo Statuto e dalle Costituzioni e avendo acquisito i requisiti, fatta la Professione dei voti di celibato, sobrietà ed obbedienza, svolgono vita comunitaria pur mantenendo la propria appartenenza confessionale, la propria professione e/o ministero (cf Statuto art.5 a; Costituzioni III.2.).
b) Monaci della Comunità dei Discepoli: sono fratelli e sorelle, non necessariamente teologi e teologhe, che dopo il percorso di discernimento previsto dallo Statuto e dalle Costituzioni e avendo acquisito i requisiti, fatta la Professione dei voti di responsabilità nelle relazioni, libertà dalle cose ed obbedienza, svolgono attività di vita comunitaria pur mantenendo la propria appartenenza confessionale, eventualmente la propria condizione sponsale, la propria professione e/o ministero (cf Statuto art. 5 b; Costituzioni III.3.).
È evidente che l’impegno cenobitico e di vincolo della Professione sono adattati alle concrete situazioni di vita dei Monaci/e e proprio questo è il novum dell’Ordine che consente una vita consacrata alla causa dell’unità anche a chi decide di vivere la propria consacrazione nel mondo. I pastori e ministri di culto delle Chiese cristiane possono, con il consenso dei propri superiori, lì dove richiesto, diventare Monaci/e dell’una o dell’altra Comunità. Secondo la Regola benedettina (cf capp. LX, LXII), poi, nessuna differenza è fatta tra clero e laici e, perciò, la struttura dell’Ordine porta con sé un naturale ed efficace anticorpo alla sclerosi clericalista, che rimane sempre in agguato nelle realtà ecclesiali.
La forma di vita monastica della Christiana Fraternitas, quindi, si inserisce a pieno titolo nella tradizione ecclesiologica della Comunione Anglicana e della Chiesa Episcopale in particolare, proprio perché ha una mens ed una struttura totalmente inclusive, che le consentono di valorizzare ogni persona, ogni stato di vita, ogni scelta personale, purché sia libera e responsabile, ed ogni espressione cristiana che viene vissuta come una ricchezza per tutta la Comunità monastica e, di riflesso, per tutte le confessioni cristiane.
II.4. Ritorno alle origini meglio di prima e più di prima
In data 6 agosto 2019, nella nostra casella pec, uno Studio Legale di Roma/Milano ha inoltrato un Decreto del Vescovo Mark Edington, successore del Vescovo Pierre Whalon, a guida della Convocazione delle Chiese Episcopali in Europa, datato 31 luglio 2019. In questo Decreto il Vescovo Mark ha comunicato di aver annullato il precedente Decreto di riconoscimento da parte della medesima Convocazione, datato il 20 luglio 2018, a firma del Vescovo Whalon. Le motivazioni addotte sono le seguenti: il Canon Law (Codice di Diritto Canonico della Chiesa Episcopale) prevede, per l'approvazione di un Ordine religioso, che esso sia (a) in comunione con la Sede di Canterbury e (b) che deve essere approvato dal Comitato permanente per le Comunità Religiose della Camera dei Vescovi. Entrambe le condizioni si trovano nel canone III.14.1.
Alcune riflessioni si impongono, sia in diritto sia in fatto.
1) Questa decisione ci è stata comunicata tramite uno Studio Legale senza che il Vescovo in Carica abbia mai informato la Christiana Fraternitas delle eventuali difficoltà burocratiche, senza aver mai incontrato i diretti interessati e senza aver mai preso conoscenza diretta della Comunità, delle persone e dei luoghi;
2) Cosa si intende per "comunione con la Sede di Canterbury"? Una formale adesione di tutti i membri alla Comunione Anglicana? Questo sarebbe stato una negazione e contraddizione della natura della Christiana Fraternitas, che sin da subito ha detto di non voler e non poter fare proselitismi. Era, è e resterà una realtà ecumenica e non potrà mai chiedere a nessuno di cambiare Chiesa di appartenenza. Inoltre, la Christiana Fraternitas, proprio perché è ecumenica, è in piena comunione spirituale con tutti: Roma, Canterbury, Mosca, Costantinopoli, luterani, valdesi, metodisti, battisti, presbiteriani ecc. Sembra, poi, contestazione singolare, dal momento che esistono nella Comunione Anglicana comunità benedettine di natura e struttura ecumenica. Una per tutte è la "Brothers of Saint John the Evangelist", fondata nel 1972 con il nome di "Ecumenical Fellowship of Saint John". Iniziò come esperienza condivisa tra Anglicani, Cattolici e Luterani. Oggi rimane come proficua esperienza di condivisione tra Anglicani e Luterani (cf Anglican Religious Life 2018-2019. A yearbook of religious order and communities in Anglican Communion, and tertiares, oblates, associates and companions, Carterbury Press Norwich, London 2017, pag. 179). Appare singolare che ciò che è possibile con i Luterani negli Stati Uniti, non è possibile invece con i Cattolici a Taranto. Esisterà mai un veto da parte di qualcuno? Si è trattato di una concessione "diplomatica" a discapito dell'intima spiritualità e sensibilità delle persone?
3) La mancanza di approvazione da parte della Camera dei Vescovi. Qui vale la storia! Dopo una serie di incontri di conoscenza con l'allora Vescovo in carica Pierre Whalon, la Christiana Fraternitas fu invitata a presentare formale domanda di riconoscimento alla Convocazione delle Chiese Episcopali in Europa. Nulla potevamo sapere delle procedure che da lì in poi si sarebbero dovute seguire e nulla sappiamo se esse siano state seguite o meno. Nè spettava a noi conoscere queste dinamiche interne alla Chiesa Episcopale. Il Decreto del 31.07.2019 afferma che nessuna richiesta è stata inoltrata alla Camera dei Vescovi. Si evince, quindi, che il Predecessore del Vescovo Mark e con lui gli Uffici e gli Organismi preposti non abbiano seguito l'iter canonico. Su questo punto nulla di più possiamo dire se non prendere atto che "in actu exercito" il Decreto del 31.07.2019 attribuisce responsabilità di questa omissione agli Organi allora direttivi della Convocazione in Europa.
4) Rimane la consolazione di sapere che in questo Decreto, con cui viene tolto il riconoscimento della Christiana Fraternitas come realtà facente parte della Convocazione delle Chiese Episcopali in Europa, non si attribuisce errore o responsabilità alcuna alla nostra Comunità ed ai suoi singoli Membri. Non abbiamo, quindi, commesso errori di alcun genere, ma siamo, nostro malgrado, destinatari di decisioni che ci hanno superato, senza essere mai stati coinvolti nel processo decisionale. A questo proposito, ed alla luce di questi eventi, ogni differente ricostruzione o dichiarazione, volta ad attribuire responsabilità od errori alla Christiana Fraternitas e/o ai suoi Membri, sarà ritenuta calunniosa, diffamatoria, lesiva della buona fama e perseguita legalmente in tutte le sedi opportune e competenti.
II.4.a. Christiana Fraternitas oggi
Alla luce di quanto avvenuto, si impone alla Comunità, che non si perde d'animo ma in tutto si sforza di leggere un piano provvidenziale di Dio, per quanto talvolta difficile da comprendere in modo immediato, un processo di discernimento sul futuro, che non può tuttavia non tener conto di quanto vissuto.
L'ispirazione monastica ed ecumenica sono una forma di spiritualità che risiedono nelle persone, nella loro personale scelta e vocazione. Esse, in quella libertà che è propria dei figli di Dio, possono sempre decidere di dedicare se stessi e la propria vita ad un cammino di fede e spiritualità, sia privati sia in forme associate, costituite o meno che siano.
Nel capitolo successivo verrà ampiamente documentato che il fenomeno monastico nasce spontaneamente e che per essere e vivere da monaci non occorre necessariamente un riconoscimento ecclesiastico. D'altra parte, non si possono dimenticare due dati importanti: il Vescovo Pierre Whalon, mentre era in carica, ha celebrato due sacramentali, che hanno conseguenze incancellabili nella vita delle persone: la ratifica della professione perpetua e la consacrazione attraverso la benedizione di un Abate ed ha accolto le professioni religiose con voti pubblici (cioè la libera dedicazione della propria vita ad un carisma) da parte dei Monaci/e. Questo è un dato spirituale, che risiede nella radice della libertà di ogni figlio di Dio, che un Decreto non può cancellare. Il brocardo medievale, comunemente condiviso da tutta intera la tradizione benedettina, recita "semel Abbas, semper Abbas". Anche quando cessa la funzione, la dignità legata alla benedizione - legittimamente conferita - non può essere cancellata. Così è della scelta del cuore: possono essere tolti appellativi e nomi, ma nessuno può strappare dal cuore né il desiderio di camminare insieme nella personale e comunitaria ricerca di Dio in noi e nella nostra né la volontà di fare questo cammino mettendolo a servizio dell'unità dei Cristiani.
Naturalmente, gli avvenimenti suggeriscono che il Capitolo Generale riveda parzialmente lo Statuto, le Costituzioni (Regolamento Interno) ed il Rituale proprio. Sarà tolto ogni riferimento alla Chiesa Episcopale, ed in modo specifico alla Convocazione in Europa.
I cammini spirituali di postulanti, novizi/e e monaci rimangono invariati, perché - fintanto che verrà garantita negli Stati in cui viviamo la autodeterminazione del singolo e non si cederà alla dittatura del più forte - ognuno resta libero di dedicare se stesso e la sua vita agli ideali che ritiene opportuni, purché essi non siano in contrasto con le Leggi degli Stati Democratici.
Dal 6 agosto 2019 la Christiana Fraternitas continua la sua esperienza di Comunità d'ispirazione Monastica Benedettina in maniera totalmente autonoma rispetto alla Convocazione delle Chiese Episcopali in Europa della Comunione Anglicana dalla quale non dipende più come non dipende da altre Autorità Ecclesiastiche. Dalla medesima data la Christiana Fraternitas è sui juris.
II.4.b. Laudatio da parte del Vescovo d'Austria per la Chiesa Veterocattolica dell'Unione di UTRECHT, Sua Ecc.za Rev.ma Mons. Heinz Lederleitner
<<Siamo certi che lo Spirito Santo ha soffiato nel cuore e nelle menti dei fondatori, i quali nella massima della Regola di San Benedetto "ora, lege et labora" hanno intravisto un possibile luogo in cui tutti i cristiani, al di là dell’appartenenza confessionale, possono vivere uno stile di vita ecumenico e favorire la nascita di microsocietà in cui "ogni cristiano si sente a casa, fraternità è la parola chiave, diversità è ricchezza e l’unità fa la forza per i più deboli e la gloria di Dio">>. Queste alcune delle parole scritte dal Vescovo d'Austria per la Chiesa Veterocattolica dell'Unione di UTRECHT in favore della nostra vita Monastica nella lettera inviataci giorno 1 novembre 2019 che si può leggere integralmente nella sezione "novità ed eventi" di questo sito nel post del 1 novembre 2019. La lettera è pubblicata in questo sito nella sezione "Novità ed eventi".
II.4.c. Laudatio da parte dell'Arcivescovo Metropolita di per la Chiesa Cattolico-romana di Taranto, Sua Ecc.za Rev.ma Mons. Filippo Santoro
Con una lettera indirizzata all'Abate Antonio, del 16 giugno 2023, il Metropolita di Taranto Mons. Santoro, scrive: "vorrei rappresentarle che, dopo questi anni, in cui ho osservato con doverosa prudenza l'attività della sua Comunità, si possono ritenere del tutto superate le passate difficoltà, così ella continuerà a guidare la sua Comunità con solerzia e passione". Come chiosa della missiva, l'Arcivescovo accredita la Christiana Fraternitas presso l'Ufficio diocesano per l'ecumenismo. La lettera è pubblicata in questo sito nella sezione "Novità ed eventi".
III. L’ispirazione monastico-benedettina ed ecumenica della Christiana Fraternitas
III. 1. Premessa: monachesimo cristiano
Il modello monastico è ispirativo per l’Ordine in quanto il monachesimo è un fatto che precede storicamente ogni separazione tra i cristiani. Il monachesimo è un movimento molto complesso e non si riduce né alla forma europea né persino a quella cristiana. Tuttavia, fermandoci esclusivamente al monachesimo cristiano, proviamo a comprenderne i tratti salienti e come esso è un fenomeno intrinsecamente connesso all’esperienza di fede.
Anzitutto occorre fare un chiarimento circa l’espressione Chiesa “indivisa” o comunque “separazione” tra le Chiese. Le testimonianze storiche ci mostrano come l’unità della Chiesa non è mai stata intesa come un monolite infrangibile. Se per unità, infatti, dovesse intendersi identità e omologazione di posizioni, allora dovremmo dire che essa non è mai stata unita. Basti pensare alla questione dei cristiani provenienti dal paganesimo nella Chiesa apostolica e alle difficoltà di conciliazione tra le posizioni di Paolo e quelle della Comunità di Gerusalemme, che faceva vantare il peso della parentela con il Signore Gesù. D’altra parte, quando il monachesimo cominciò ad essere conosciuto, erano già in atto le grandi questioni (e divisioni) ariane e monofisite.
Quando si parla di una Chiesa indivisa, quindi, non si deve pensare ad una Chiesa omologata, ma ad una Chiesa che conosceva e custodiva in sé differenti posizioni, talvolta anche in tensione tra di esse, ma che non per questo erano ritenute come qualcosa d’altro rispetto alla Comunità.
Nell’universo variegato delle posizioni teologiche e spirituali, iniziano a prendere forma delle proposte di vita spirituale, che vogliono ricordare a tutti la centralità di Dio nella vita del monaco. Non è difficile intuire perché, proprio mentre alcune posizioni teologiche andavano acutizzandosi, con il potenziale divisivo che le radicalizzazioni portano con sé, sorge il monachesimo come forma di vita che profeticamente mostra a tutti la centralità di Dio. Il monachesimo ha, quindi, sin dall’inizio la funzione di ricordare alla Chiesa che al suo centro ha non le questioni teologico-dottrinarie, né quelle politico-culturali, ma al suo centro ha e deve avere solo Dio, nel quale tutto può trovare sintesi ed unità.
L’origine del fenomeno monastico, dal punto di vista storico, è di difficile ricostruzione proprio perché fu un fenomeno spontaneo che nasceva dal basso. Abbiamo notizia di diversi tipi di forme monastiche, da quelle eremitiche (persino in forma estrema, come nel caso degli stiliti), a quelle semi-comunitarie (come quelle dei monaci della Cappadocia) a quelle, infine, cenobitiche.
La rilevanza della dimensione monastica della vita di fede in sé è attestata anche dal fatto che molti scrittori cristiani, pur non vivendo da monaci, guardavano ai monaci e al monachesimo come ispirazione della propria vita spirituale e della proposta che facevano a tutti. Si pensi ad Eusebio di Cesarea, Ambrogio di Milano ed Agostino di Ippona.
La ricostruzione storica delle origini e degli sviluppi del monachesimo mostra delle costanti storiche, di cui è bene tener conto:
- Il monachesimo e le sue concrete formulazioni storiche nascono come un fenomeno di popolo che solo successivamente viene riconosciuto dall’autorità ecclesiastica, la quale per altro compie minimi interventi normativi, in quanto è riconosciuta alla forma monastica un’ampia autonomia di vita, per il conseguimento dei propri fini spirituali. Da qui nascerà l’espressione medievale delle abbazie e comunità sui juris;
- Il monachesimo porta con sé l’anelito spirituale della centralità di Dio nella vita del monaco e questa è la sua essenza irrinunciabile;
- Il monachesimo non è un fenomeno monolitico, ma è una forma di vita che può assumere, come di fatto ha assunto, molteplici forme a seconda delle situazioni sociali, culturali, teologiche, spirituali ed anche personali. Per questo non potrà mai dirsi che esista una sola esperienza monastica o che una sia superiore alle altre o tanto meno che il monachesimo possa un tempo finire, per il semplice fatto che porta nel suo DNA la capacità di riadattarsi, inculturarsi e storicizzarsi.
III. 2. Ispirazione Benedettina
Benedetto da Norcia, giovane romano istruito, sente il bisogno di una vita diversa, ovvero di un luogo solitario, come racconta il suo illustre agiografo Girolamo. Egli per tre anni fa esperienza anacoretica presso Subiaco, secondo la tradizione dei Padri dell’Egitto. Poi decide, sull’esempio di Eutizio, di provare a fondare un monachesimo cenobitico come quest’ultimo aveva fatto a Valnerina (Umbria). A cavallo tra il V e VI sec., ebbe una intuizione geniale: ordinare il cenobio attraverso tutto il sapere legislativo del tempo, sintetizzandolo e umanizzandolo nella Regola. La sua Regolaancora oggi, dopo centinaia di anni, illumina il cammino di uomini e donne e ispira movimenti positivi per l’uomo e per il desiderio di ricerca di Dio che egli sempre si porta dentro (quærere Deum).
III. 2. a. Il cenobio e l'ispirazione ecumenica
Il monachesimo, come abbiamo visto, era per lo più vissuto in forma eremitica: ogni monaco viveva in modo solitario la propria esperienza e ricchezza interiore. Benedetto diede forma a un monachesimo cenobitico, ovvero comunitario, sociale, perché la ricchezza di ciascuno arricchisse l’altro e la comunità arricchisse l’esperienza interiore di ciascuno. La tradizione orientale parlava dei monaci come anacoreti, cioè ritirati. Benedetto parla di monaco, che porta con sé il significato di solo, ma non nel senso di ritirato, di escluso, di solitario. L’aggettivo soloqui renderebbe il greco olos, cioè uno tutto intero. Il monaco, infatti, è uno tutto intero con la Comunità.
La Christiana Fraternitasha la “presunzione” che la stessa cosa possa accadere per le Chiese. Ognuna vive la propria tradizione e ricchezza, ma in modo un po’ a sé stante. Attraverso la vita di fede quotidianamente condivisa vuole contribuire affinché ciascuna tradizione cristiana possa arricchire le altre. Si tratta di un ecumenismo “di fatto”, più che teorico o teologico. Nessuno è chiamato a “convertirsi” a un’altra Chiesa, ciascuno rimane se stesso e vive la gioia della condivisione, in una unità non “nonostante le differenze”, ma una “unità nella diversità”. Si ritiene che questa proposta di vita abbia un’importante risvolto culturale e sociale in questo tempo di aspre – e troppo spesso violente – contrapposizioni culturali e ideologiche. L’altro, il diverso da me, non è un pericolo, un potenziale avversario, ma un fratello con cui condividere ciò che sono, accogliendo ciò che egli è come ricchezza per me. Il cenobio non è un carcere, uno spazio di convivenza obbligato, ma è il luogo della condivisione dell’intera vita di ciascun/a monaco/a nella specificità e nella singolarità di ciascuno. Questo richiede che si sviluppino tutte le attitudini di mente, di cuore e di fede per maturare ciò che è scritto nel nostro leitmotiv:la diversità è ricchezza. Sviluppare il valore della tolleranza è necessario sia per mettersi in cammino come discepoli di Gesù sia per l’urgenza dell’attuale società che, per quanto evoluta ed apparentemente multiculturale e globale, tenta sempre di assolutizzare alcuni approcci alla vita o alcuni schemi culturali, dando così origine a discriminazioni. In ambito ecumenico, ovvero nella nostra esperienza propria, la diversità come opportunità di scambio non significa sincretismo, ma valorizzare proprio la pluralità attraverso la tolleranza e l’esercizio e dell’accoglienza reciproca.
Il cenobio, quindi, è il luogo della sinfonia delle differenze, della gioia delle singolarità, della comunione dei singoli.
La nostra Comunità, articolata nelle due forme di monaci che abbiamo su illustrato, vive dentro e attorno al cenobio, che non è però un luogo soltanto fisico. È evidente che i Monaci della Comunità Apostolica hanno ritmi comunitari più frequenti di quelli della Comunità dei Discepoli, ma questa è proprio una delle caratteristiche nuove ed arricchenti della nostra Comunità, perché consente a tutti la forma di vita monastica. Inoltre, non sfugge che il cenobio in sé, come luogo, non garantisce la qualità comunitaria della vita, perché si può restare anacoreti e stiliti anche vivendo nella stessa casa, rimanendo isolati dagli altri nel cuore e nello stile della vita. Anche qui vale ciò che vale sempre e per tutto: la qualità di una scelta è data dal libero, personale e maturo grado di coinvolgimento, non dalle strutture, che sono uno strumento e non un fine.
Tra i principi del monachesimo c’è il noto distico: stabilitas loci et conversio morum. La stabilità del luogo non è, quindi, riferita anzitutto alla struttura in cui si svolge la vita monastica, ma è riferita al luogo del cuore, che sono i voti e le promesse, e alla Comunità, radunata in quel luogo. Senza questa convinzione e questo coinvolgimento interiore, ogni struttura, per quanto bella, non sarebbe che un museo senz’anima.
III. 2. b. Prega, studia e lavora
Siamo persuasi che ora, lege et labora siano tuttora freschi input per realizzare una Comunità monastica, ecumenica e quindi profetica. Naturalmente l’esperienza monastica, che noi proponiamo a partire dalla Regoladi Benedetto da Norcia, è una forma che reinterpreta l’esperienza del passato alla luce del contesto socio-culturale odierno.
Un movimento ecumenico vero può partire solo dalla preghiera comune come riconoscimento dell’unico Padre e Signore, giacché è solo in questo riconoscimento che si può vivere la fraternità inaugurata da Cristo Gesù, per concretizzarla attraverso il Compagno che per Grazia ci è stato concesso: lo Spirito Santo. La preghiera è attività fondamentale della Christiana Fraternitas ed è intesa come il silenzio e come l’osservanza del salterio proprio, in particolare pregato coralmente, che per ragioni ecumeniche non implica la celebrazione della festa dei santi ma solo delle solennità cristologiche e comuni alle Chiese.
Lo studio del monaco/a avviene innanzitutto attraverso la ricerca esegetica, ma sempre all’interno di un’attività orante. Per questo motivo tra le più importanti attività dell’Ordine c’è la Lectio Divina. Nel nostro caso la Lectioè tenuta da pastori/e delle diverse Chiese. Questo è un ulteriore modo per tornare insieme alla Fonte ed incamminarci sotto la luce dello Spirito Santo sul cammino dell’Unità. È vivo auspicio che i Membri della Comunità, che lo ritengano ed abbiano le possibilità, compiano i curricula degli studi teologici nelle Istituzioni Accademiche della Confessione di appartenenza. L’Ordine ne è lieto e sostiene tale impegno.
Il lavoro, nel nostro caso come quello dei monaci di ogni tempo, salvo alcune eccezioni, è quello secolare. Non deve stupire il fatto che i monaci lavorino “fuori” del monastero. Un tempo un’abbazia doveva produrre tutto il necessario per il suo sostentamento e, del resto, attorno all’abbazia si sviluppavano una serie di attività redditizie (coltivazione, allevamento, vendita di prodotti…), che comunque implicavano che i monaci compissero un lavoro fuori o al limite dei confini del territorio abbaziale. Nel mondo mutato di oggi è evidente che non sempre all’interno dell’Abbazia o del Monastero possano esserci tutte quelle attività che garantiscano il sostentamento dei fratelli e sorelle e del monastero stesso. Anche qui vale il principio già più volte rimarcato: il dentro e il fuori sono anzitutto uno stato del cuore e della responsabilità. Si potrebbe lavorare “fuori” del monastero, pur senza varcare le sue mura. Ciò accade, per esempio, quando si lavora solo per il proprio tornaconto e non per il bene della Comunità. Al di là di queste considerazioni, l’importanza del nostro lavoro va ben oltre. Il lavoro, professionale o ministeriale, è uno strumento con cui ci si rende responsabili del mondo, delle relazioni e del loro integrato sviluppo. Vivere sulle spalle di una struttura “ecclesiale” porta sempre con sé il rischio di offrire prestazioni funzionali, quasi burocratiche. Per questo noi scegliamo la libertà del lavoro. Dovendo provvedere al mantenimento nostro e della Comunità, lavoriamo in modo tale da essere interiormente liberi da ogni condizionamento.
III. 2. c. La collocazione geografica del Monastero
Un modo un po’ ingenuo di guardare al monachesimo, lo identifica con luoghi sperduti e solitari, a cui viene attribuito un significato spirituale. Occorre, anzitutto, sfatare un mito: la distanza geografica dei monasteri dai centri abitati non aveva una motivazione anzitutto spirituale, ma politica, perché era uno strumento di difesa in caso di guerre e comunque di estraneità dell’abbazia dall’agone politico e militare. Non dimentichiamo che la maggior parte delle guerre europee (ed italiane soprattutto) sono state guerre civili, cioè fazioni diverse che si fronteggiavano nel medesimo territorio (il Comune, in maggioranza dei casi).
Se nella tradizione orientale l’isolamento era ritenuto un fattore decisivo per l’esperienza anacoretica, nel monachesimo occidentale questo elemento è più mitigato. Ciò non toglie che l’attitudine al silenzio, alla contemplazione e alla meditazione debba rimanere lo stile di vita del monaco, ma questo stile è aiutato e non garantito dal luogo materiale. Anzi, oggi esiste una tendenza spirituale e teologica a non allontanare troppo i monasteri e le Comunità religiose dal tessuto cittadino, proprio per offrire l’apostolato di un punto di silenzio e di ristoro interiore nel chiasso concitato della vita cittadina. Esiste, nella Chiesa Romana, un’esperienza in questo senso ed è costituito dalla Fraternité monastique de Jérusalem, ma si tratta di una realtà confessionale e non ecumenica.
III. 2. d. Noviziato e ingresso nella Comunità: scelta radicale, esercizio di libertà dalle dinamiche socio-culturali per un percorso progressivo nell’ascesi
Come tutte le Comunità di vita religiosa, anche la nostra ha delle fasi e delle tappe, che servono alla maturazione della libera e responsabile scelta di accogliere come propria la forma di vita spirituale proposta dalla Comunità.
L’accesso alla Professione dei voti è differente. I Monaci della Comunità Apostolica devono fatto un cammino di tre anni nella Comunità dei Discepoli e, se possibile, aver seguito un percorso di studi filosofico-teologici. Dopo di ciò emettono per due volte i voti temporanei (della durata di un anno) e poi quelli perpetui. I Monaci della Comunità dei Discepoli, compiuto il cammino di discernimento e dopo che sono stati verificati i requisiti, devono prima fare o sei o dodici mesi di postulandato e sei o dodici mesi di noviziato, con l’accompagnamento del Maestro dei Novizi. Quindi accedono alla professione dei voti, che vengono rinnovati annualmente.
III. 3. Dimensione ecumenica
Uno dei punti fondamentali della nostra spiritualità e della nostra missione è la vita ecumenica. Abbiamo già detto come ispirazione benedettina ed ispirazione ecumenica si integrino ed arricchiscano vicendevolmente. In questa sede vogliamo chiarire in che modo la dimensione ecumenica dia forma alla nostra Comunità. Anzitutto tra di noi la persona vale perché persona, scelta ed amata da Dio. Non importa se proviene da una Chiesa più o meno numerosa, non ci interessano le differenze dottrinali e morali, né ci interessa la effettiva appartenenza ad una Chiesa. Ciò che ci sta a cuore è il desiderio di intraprendere un cammino di conoscenza di Gesù e di se stessi con lo sguardo di Gesù. potremmo dire che, tra di noi, l'ecumenismo si dilata al massimo.
Riteniamo che l’ecumenismo “a tavolino” – per intenderci, quello delle dispute teologiche – sia importante ma non decisivo. La storia ci ha insegnato che quando si inizia a discutere sulle idee, c’è sempre possibilità di un nuovo e più duro scontro. Quando invece si inizia da un rapporto costruito e consolidato di amicizia e fraternità, anche le divergenze vengono vissute meglio, perché – al di là delle differenze – c’è e permane un legame molto più grande, che è la sostanziale unità in Gesù, garantita dal Battesimo, patrimonio comune a tutti, nessuno escluso.
D’altra parte, neppure un ecumenismo episodico porta molti frutti. Un dialogo fatto di occasioni, di momenti sporadici, di veglie ogni tanto, è certo pur qualcosa, ma non può bastare se non si fa una scelta chiara di condivisione quotidiana. Del resto, solo questa impostazione ci permette di maturare quella attitudine del cuore e della mente ad accettare l’altro, così com’è, come un dono che arricchisce la mia vita e non come un potenziale nemico o potenziale pericolo.
La quotidiana condivisione delle nostre caratteristiche ci porta ad amarci, ad apprezzarci non nonostante le differenze, ma proprio nelle differenze, se non persino per le differenze. Torna, qui, quanto abbiamo detto all’inizio circa la Chiesa: non è mai stata unita, se per unita si intende uniforme ed omologata. La forza della sua unità risiede proprio nella capacità di essere universale, ovvero di saper integrare le specificità nel suo abbraccio senza temere le diversità.
Da qui nasce una impostazione di vita concreta. Il nostro Ordine ha un Rito proprio e vive il culto comunitario in forme che possano essere da tutti condivise. Al centro ha la Parola, anch’essa patrimonio comune a tutte le Chiese cristiane. I momenti di preghiera sono strutturati in modo tale che coincidano con l’esperienza spirituale di tutti i cristiani. Anche in questo ci viene in aiuto la tradizione monastica che struttura il tempo di preghiera attraverso la Liturgia delle Ore, ovvero la preghiera biblica dei Salmi e l’ascolto orante della Scrittura. Noi non celebriamo sacramenti e non abbiamo attività nei giorni di precetto, perché – come abbiamo già detto – non ci riteniamo un’esperienza sostituiva, ma complementare al prioritario di cammino di fede che ciascuno compie nella propria Chiesa di appartenenza. I monaci/e che sono Ministri di Culto lo esercitano nelle rispettive Comunità. E questo è un’utile servizio che noi possiamo dare alle Chiese. Se la presenza di Monaci/e, appartenenti ad una specifica Confessione, è tale da richiedere la presenza del loro Ministro di Culto e la loro comunità confessionale è troppo distante, correndo il rischio che venga a mancare la normale assistenza spirituale a questi membri della Comunità, allora questo chiede alla Chiesa di riferimento di provvedere attraverso un Membro della Comunità che si dichiara disponibile al servizio di Ministro. Non si tratta, quindi, di Culto destinato alla Comunità, ma ai fedeli di quella Chiesa che sono nostri Monaci/e.
Lo stemma dell'Abbazia
Registrato a Taranto 11.07.2020 n. 8935 serie 1T con Atto Pubblico Rep. 2783 Rac. 2236
Come tutte le Abbazie tradizionali, anche la nostra, ha un logo che la rappresenta. Gli elementi peculiari sono: 1. Lo scudo di colore verde, colore che ci ha sempre rappresentato la cui spiegazione dettagliata si trova al § II.1.c. delle nostre Costituzioni (vedi sotto); 2. all'interno dello scudo, in argento, lo stemma benedettino poiché la nostra vita monastica si ispira alla tradizione benedettina e alla Regola. Lo stemma benedettino è di particolare significato: la vita del monaco è un cammino, una ricerca costante di Gesù, al cui amore nulla si può anteporre. Questo cammino viene indicato, nella tradizione mistica, con il monte. Giunti alla vetta del monte, si trova Cristo (rappresentato araldica mente dalla croce) ed il suo amore, che è sempre amore condiviso con i fratelli, come con essi del resto è stato condiviso il cammino verso di lui. Da questa pienezza dell'amore di Cristo nasce la pienezza della charitas, l'amore verso i fratelli, che genera la pace (il pax); 3. il pastorale abbaziale che si distingue da quello episcopale per il panno legato al suo riccio. Tutte le abbazie, rette da un abate, conservano il pastorale nello stemma; 4. il cartiglio con scritto il desiderio più grande di Gesù: "perché siano una cosa sola" (Gv 17,21) che ci ricorda l'impegno a formare sempre più cellule ecumeniche di vita concreta, ovvero la nostra spiritualità; 5. Pax! Ut unum sint! è il saluto fraterno della nostra Fraternità Monastica.
Il colori della Christiana Fraternitas
dalle Costituzioni § II.1.c.
Il Verde
Nella simbolica dei colori, c’è un significato ben preciso. Verde è il termine contratto dal latino “viridem”, connesso a “virère”, verdeggiare. Il colore verde è l’archetipo della vegetazione, della Natura. È manifestazione della vita vegetale, ma anche di quella neurovegetativa, “fondamento biologico della psiche” (Widmann). È il colore della stabilità, dell’equilibrio e del riequilibrio; indica stabilità e neutralità. È legato alla primavera, alla rinascita, come fase della vita, corrisponde alla giovinezza. È in senso più ampio colore di rinascita e speranza di rinnovamento. Evoca freschezza, continuità della vita, salute. Viene anche ritenuto simbolo di fecondità. Legato in modo particolare nel mondo naturale all’albero, al giardino e alle sue simbologie, di lunga vita, di stabilità ed equilibrio, di “parti visibili e parti nascoste, inconsce”. Ha in sé una tensione che ha due polarità: al positivo è stabilità e fermezza, al negativo è rigidità.
Il colore verde richiama l’immagine del giardino. Anzitutto il giardino della creazione: “Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato” (Gen 2,8). Ma è anche il giardino della nuova creazione (la risurrezione): “Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo»” (Gv 20, 15). La Chiesa di Dio (in senso teologico ovvero il popolo di Dio) è il giardino della creazione e della redenzione, destinatario dell’Amore di Dio rivelato tutto in Gesù Cristo! L’immagine del giardino, poi, è fortemente evocativa per la sua strutturale diversificazione di vegetazione, una pluralità d’espressione che nell’insieme manifesta la bellezza armonica della diversità nell’unità. La Christiana Fraternitas, per come e quanto può, volendosi porre come luogo comune, ecumenico di fatto, tra i cristiani provenienti e mantenenti il proprio status confessionale, tende a mostrare la stessa armonia nella pluralità delle declinazioni che il cristianesimo ha assunto nella storia. Per il suo legame con la primavera e la rinascita della natura, il verde viene associato alla speranza. I ritmi del tempo e le fasi biologiche della vegetazione rimandano all’attesa, alla speranza della rigenerazione. La speranza della Christiana Fraternitas, oltre a quella della Fede, è che si possa giungere ad un cammino unitario tra i cristiani senza rinunciare al proprio modo di vivere e sentire la Fede in Cristo, perché in questa diversità si possa realizzare un’unità di fondo tanto voluta dal Cristo: “perché siano una cosa sola, come noi” (Gv 17,11). L’intima speranza dell’Ordine è che ogni battezzato, in essa inserito, possa essere, come Gesù, il granello di senape piantato nel giardino del cuore dei cristiani: “È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami” (Lc 13, 19).
l'Argento
La parola “argento” deriva dal latino “argentum” e dal greco αργύριον, legati ad αργός, splendente, candido, bianco. L’argento è simbolicamente associato alla luna, che richiama il genere femminile. La tradizione cristiana ha usato la luna come un’allegoria della Chiesa (intesa nel senso teologico ovvero l’intero popolo di Dio). La Chiesa è paragonata alla luna perché splende non di luce propria, ma di quella di Cristo. “Fulget Ecclesia non suo sed Christi lumine”, scrive Ambrogio di Milano (Exameron, IV, 32). Il genere femminile inoltre richiama anche all’immagine della Chiesa come sposa di Cristo che attende il suo Sposo: “E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap21, 2). L’argento, pertanto, indica un riferimento sostanziale, cioè una realtà che per essere se stessa ha necessità di essere riferita a qualcosa d’altro. Esattamente come la luna per brillare ha essenzialmente bisogno del sole, così la Chiesa–popolo di Dio, per essere se stessa, ha necessità assoluta di essere riferita a Cristo. Se il giallo, l’oro, parla quindi delle realtà divine da cui tutto ha origine, l’argento parla delle cose create, che traggono la loro origine dal divino e che non sono senza di esso. Il sommo poeta, Dante Alighieri, nel IX canto del Paradisocosì scrive: “Cenere, o terra che secca si cavi,/ d’un color fora col suo vestimento;/ e di sotto da quel trasse due chiavi./ L’una era d’oro e l’altra era d’argento; / pria con la bianca e poscia con la gialla / fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento” (115–120). Ovviamente Dante scrive da poeta cattolico e per questo interpreta il testo di Mt 16,18–19 (“a te darò le chiavi...”) secondo la sua esperienza di origine. Il testo di Matteo riguarda certamente il compito della Chiesa di annunciare la verità della persona di Gesù, che è il Figlio di Dio, e questa professione di fede è la roccia su cui fonda la Chiesa–popolo di Dio. Senza questa fede cristologica non esiste Chiesa. La tradizione cattolica, successivamente, ha interpretato questo testo come fondativo della potestà papale ed è così comprensibile per quale motivo Dante dica che l’angelo ha ricevuto da Pietro le chiavi per aprire e chiudere le porte del Paradiso. È noto che il primato papale e l’infallibilità (dogmaticamente sancita solo nel Concilio Vaticano I) è una delle questioni più complicate del dibattito ecumenico, sebbene anche da parte cattolica vi siano state delle aperture già da Giovanni Paolo II che nella “Orientale Lumen” chiedeva ai teologi di studiare nuove possibili forme di esercizio del primato, per tornare alla forma sinodale originaria del cristianesimo. Stesso invito è stato più volte richiamato dall’attuale Vescovo di Roma, Francesco. Al di là delle questioni teologiche, in questa sede ci interessano quelle simboliche: l’apostolo Pietro viene rappresentato, in arte, con due chiavi, quella d’oro, che riguarda il cielo, e quella d’argento, che riguarda la terra. La Christiana Fraternitas, quindi, ha scelto il colore argento proprio per il suo rimando alla secolarità che è altrimenti detta laicità o nel nostro caso una spiritualità monastica vissuta nel mondo, cioè nella quotidianità della vita di tutte le persone. Non si tratta di una nuova chiesa, di un nuovo culto, di un nuovo rito, ma di un’anima cristiana che permea la vita di tutti i giorni. E questo è compito del battezzato, di ogni battezzato; compito ricevuto non per delega ecclesiastica ma dovere nativo, ricevuto dall’unzione sacerdotale, regale e profetica propria del battesimo. Il colore argento, inoltre, richiama la necessità di stare nel mondo, di vivere nel mondo, senza rimanerne separati. È noto infatti che la separazione sacro–profano, puro–impuro è caduta dalla Incarnazione del Figlio di Dio, il quale ha reso santa ogni cosa. Negli Atti degli Apostoli ciò è reso evidente dalla visione che Pietro ha prima di essere inviato dal centurione Cornelio per battezzarlo (cf At 10,15: “Non devi considerare impuro ciò che Dio ha dichiarato puro”). In ambito cattolico, che è una delle tradizioni cristiane apparentemente ancora legate al binomio puro–impuro, un teologo Dominique Chenu, nei suoi studi, ha tuttavia mostrato chiaramente che la terminologia “sacro– profano” non avrebbe più senso di esistere in regime neotestamentario, in quanto sostituita col termine “santo”. Il Verbo fatto carne ha santificato tutto ciò che è umano, terreno e che prima era ritenuto profano. Il colore argento, usato dal nostro Ordine, quindi nasce da una visione positiva del mondo, che è il destinatario dell’amore di Dio (cf Gv 3,16: “Dio ha tanto amato da dare il suo Figlio”). Il mondo, le realtà terrene, le cose umane non sono più negative e tanto meno contrarie a Dio, ma sono lo spazio vitale in cui si sperimenta l’amore di Dio, dato a tutti gli uomini. Come la luna riverbera la luce del sole, come la Città santa accoglie e riflette l’amore che riceve dal suo Sposo, così l’umano è il riflesso del divino, così la terra è lo specchio in cui si può intravvedere lo splendore dell’amore di Dio.
La Christiana Fraternitas ha deciso di intrecciare il verde all’argento perché la speranza è incarnata nella storia, le fede è vissuta nella vita quotidiana, la carità è concretizzata in azioni. Un antico testo del cristianesimo, precedente ad ogni divisione, ci ricorda come il cristiano non può e non deve vivere fuori del mondo: “I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale [...]. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera [...]. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra. L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile; i cristiani si vedono nel mondo, ma la loro religione è invisibile [...]. L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo. L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli” (Lettera a Diogneto, V–VI passim).